Читайте только на Литрес

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III», sayfa 9

Yazı tipi:

Non era ancora del tutto spenta la sedizione di Bisagno, che un nuovo romore di guerra già si faceva sentire dalla Polcevera. Gli abitatori di questa valle, mossi dall'esempio dei Bisagnani, e dalle instigazioni di alcuni ecclesiastici, si levavano ancor essi in gran numero, e correvano contro la capitale. Poi a loro si accostavano non pochi fra coloro, che avanzati alle stragi di Bisagno, passando per luoghi montuosi, si erano condotti in Polcevera per ajutare quel secondo moto, che credevano aver a riuscire a miglior fine che il loro. Il pericolo appariva grave. Già la moltitudine armata, assai più numerosa di quella dei Bisagnani, accostatasi, s'impadroniva per una battaglia di mano del forte della Sperona, che posto in sito eminente signoreggia Genova, ed è come un freno parato contro di lei. Poi più avanti procedendo, occupava tutto il secondo cinto delle mura, restando solo esente la batterìa di San Benigno. Una prima squadra di soldati Liguri e Francesi mandata in quel primo tumulto contro di loro, vedutogli bene armati, e bene fortificati, se ne rimaneva, e tornavasene. Il timore assaliva chi reggeva, pareva vicina la dedizione; perchè anche dentro, essendovi poco presidio, principiavano a scoprirsi i segni della sedizione. Mandava il governo quattro legati ad intendere che cosa volessero, ed a trattar con loro di un accordo. Vi si arrogevano Gerolamo Durazzo, e Luigi Corvetto, personaggi di grande autorità presso i Polceveresi. L'arcivescovo eziandio ad esortazione dei capi dello stato, pubblicava una lettera pastorale, con la quale spiegava ai popoli, che a niun modo si aveva intenzione di offendere la religione o di pregiudicare ai preti. Furono i legati coi deputati eletti dai sollevati, e concludevano un accordo in tre capitoli, per cui si statuiva, che sarebbe la religione cattolica, apostolica e romana conservata, che si serberebbero intatti i beni della chiesa, che si perdonerebbe ogni offesa ai sollevati, che si rimetterebbero in libertà i carcerati: con questo promettevano i Polceverini di tornarsene quietamente alle case loro. Presa questa speranza, cessava il governo ogni apparato di guerra. Ma ecco che dai più ardenti Polceverini si spargeva, che i giacobini erano gente infida, e che solo avevano promesso il perdono per meglio far le vendette. Novellamente s'inferocivano e prese impetuosamente le armi, assaltavano il posto principalissimo di San Benigno. In questo punto Duphot, vincitore di Albaro, che per l'indugiarsi del trattato, aveva avuto tempo di raccorre, e di ordinare tutti i suoi, ajutato fortemente dal colonnello Seras, soldato molto animoso, traversava la città, e correva contro la turba degl'insorti. Seguitava una feroce mischia, come di guerra civile. Combattevano valorosamente Duphot e Seras, vecchi soldati: non resistevano meno valorosamente i paesani, nuovi soldati; durava quattr'ore la battaglia; furono non pochi i morti, non pochi i feriti: superava infine la veterana disciplina: i paesani cacciati dai posti, voltavano le spalle, e seguitati con molta pressa dai repubblicani perdevano gran gente. Cinquecento, essendo presi, empievano le carceri di Genova.

La fama della doppia vittoria di Albaro, e di San Benigno, e le forze mandate sedavano i moti, che già erano sorti a Chiavari, ed in altre terre della riviera di levante, come altresì nei feudi imperiali, o Monti Liguri, che gli vogliam nominare. Ogni cosa si ricomponeva in quiete, ma per terrore, non per amore; ma truce e minacciosa, non lieta e consenziente.

Avuta la vittoria, si pensava alla vendetta. Creavasi un consiglio militare, perchè nelle forme più pronte e più sommarie avesse a giudicare i ribelli. Sette od otto, ma di oscuro nome, dannati a morte, tignevano col sangue loro il suolo dell'atterrita Genova: non pochi erano mandati al remo. Si apprestava il destino medesimo ad altri: Faipoult avvertiva Buonaparte, che si dannavano soltanto gl'ignobili; osservava specialmente, che per decreto dei reggitori era stato sospeso avanti il tribunale militare il processo di un Brignole, figliuolo dell'ultimo doge, sospetto di qualche accordo coi sollevati. Qualificava Serra per sospetto di mali pensieri, e di patrocinio verso i rei di non riconoscere i meriti di Duphot, e d'impedire i fornimenti dei soldati. Accennava in somma, ch'ei fosse avverso in ogni cosa ai Francesi, e persuasore, che si andasse grettamente nel pagar le liste di Duphot, e de' suoi ufficiali per la spedizione contro i ribelli. Chiamavalo uomo pericoloso, dissimulatore, ambizioso: stimava la quiete del pubblico in pericolo, finchè Serra stesse al governo. I due Serra, giuntosi Gerolamo col fratello, dal canto loro accusavano Faipoult e Duphot di essersi fatti protettori di una parte turbatrice, e pervertitrice di ogni buon ordine politico, e d'impedire che la quiete tornasse alla travagliata Genova. Già le mannaje dei sicarj, dicevano, stare sul collo degli uomini dabbene; già volere Faipoult vietare, che il consiglio militare termini al più presto i giudizj, acciocchè quell'apparato di terrore lungo tempo ancora sovrasti così ai buoni, come ai cattivi, e niuno possa vivere sicuro dopo le calamità recenti; volere Faipoult, che si tenessero i nobili in carcere, anche innocenti; niun altro mezzo di salute e di riposo esservi, che quello di mandar via Duphot, e di contenere nelle funzioni del suo ufficio Faipoult; senza ciò nascerebbero necessariamente la debolezza dello stato, l'anarchia, i disordini, il sangue. Per tale guisa gli animi s'invelenivano; ed era vero che Faipoult addomandava imperiosamente al governo, che annullasse il decreto, pel quale aveva ordinato, che la commissione militare terminasse al più presto le sue operazioni. Addomandava oltre a ciò che i nobili carcerati, anche innocenti, quali ostaggi si conducessero nel castello di Milano. Il qual ultimo desiderio a me pare, che sappia molto della natura degl'inquisitori tanto lacerati di Venezia; ma il biasimare gli altri dei propri difetti fu vizio dell'età.

In questo arrivava a Genova con nuovi soldati mandati da Buonaparte, a cui le turbazioni Genovesi davano sospetto, il generale Lannes, il quale non curandosi nè di governo, nè di Faipoult, nè di preti, nè di frati, nè di nobili, nè di plebei, nè di patriotti, nè di aristocrati, e solo alla forza mirando, si alloggiava alla soldatesca nella città, e se ne faceva padrone.

Intanto i legati accordatisi con Buonaparte intorno ai cambiamenti della constituzione della repubblica Ligure, la conducevano a compimento, e lui permettente, era pubblicata. Fossevi un consiglio dei giovani, uno degli anziani, e un direttorio; dividessesi la repubblica in quindici spartimenti, che chiamavano del Centro, di Bisagno, del Golfo Tigulio, della Cerusa, del Lemmo, dei Monti Liguri orientali, dei Monti Liguri occidentali, delle Palme, dell'Entella, della Vara, del Letimbro, della Maremola, della Spezia, del Capo Verde, e della Polcevera; dei magistrati giudiziali, distrettuali, e municipali si statuisse a modo di Francia. Era questo un modello tutto Francese. Nè occorreva, stantechè solo il copiare era permesso, che il signor di Talleyrand, ministro degli affari esteri in Francia, prendesse cura, come ne aveva il pensiero di mandare ad insegnar in Italia l'arte dello stato, uomini politici di grido, e fra gli altri un Beniamino Constant, giovine per verità di molto ingegno, ma che credeva, la libertà non poter consistere, che nelle forme di quei tempi. A tanto di umiltà era condotta l'Italia dal superbo vincitore, che voleva mandare ad ammaestrarla giovani scrittori, che privi d'esperienza, volevano applicare certi modelli astratti di fogge politiche ad ogni sorte di nazioni, non considerando le diversità che sorgono dalla diversità dell'indole, degli usi, dei costumi, delle opinioni, e delle abitudini. In somma la Genovese constituzione fu data, non presa. Pure fra le armi serrate, ed i soldati apprestati fu sottoposta ai comizj popolari. L'appruovavano centomila voti favorevoli, diciassettemila contrarj. Facevansi feste, cantavansi inni, erano nel teatro allegrìe assai. Nominavansi i due consigli, e dai consigli il direttorio. Eleggevansi a questo Luigi Corvetto, Agostino Maglione, Niccolò Littardi, Ambrogio Molfino, Paolo Costa; creavano Corvetto presidente. Era Corvetto, siccome Italiano, ingegnoso, e giusto estimatore delle cose del mondo; il che constituisce la prudenza, fra tutte le virtù più necessaria in chi è chiamato a governar gli uomini. Era in lui la natura dolcissima, ma che però non ricusava quanto la sicurezza dello stato richiedesse. Continente di quel del pubblico, benefico del suo verso gli amici, era Corvetto uomo piuttosto da essere ricerco nei tempi buoni, che degno di servire nei tempi tristi. Sul principiare dell'anno seguente prendevano il magistrato tutti i nuovi ordini, e s'instituiva la constituzione. Poi partitosi Faipoult, gli veniva sostituito un Sottin. A questo modo periva l'antica repubblica di Genova, feroce, animosa, sanguinosa, ed impaziente, non molle, non umile, non lacrimosa, come la Veneziana. Era certamente il fato ineluttabile; ma bene è eternamente da piangersi, che la perdita dell'indipendenza Italiana sia stata aiutata dalle mani d'uomini Italiani. So, che alcuni dicono, che coloro i quali in queste faccende si mescolarono, non solo in Genova, ma ancora in tutte le altre parti d'Italia, rattemperavano con le speranze di un felice avvenire la tristizia dei fatti presenti; il che è vero, nè io sarò per dannargli mai; anzi molti fra di loro, i quali puri furono ed innocenti, pregio e lodo sommamente, e predico, come uomini virtuosissimi e coraggiosissimi, per non aver disperato della patria in casi tanto luttuosi, e per aver dato alla salute di lei, per quanta salute potesse essere in sì lontane e deboli speranze, il riposo loro, le fatiche dei migliori anni, e quel che più importa, perfino l'illibata fama, corrotta in mezzo a tanto avviluppamento da schifose calunnie; ma so ancora che non pochi camminavano con troppo affetto verso i forestieri, e che invece di obbedir loro con sopportevole dignità, gli ajutavano con eccessiva condiscendenza.

Periva per mano dei vincitori Genova, perchè ricca, e con pochi soldati; si conservava il Piemonte, perchè povero, e con soldati. Essendo ancora le cose dubbie coll'imperatore, importava alla Francia l'avere in suo favore i soldati del re, se di nuovo si dovesse tornare sull'armi. Poi, quantunque il direttorio molto l'avesse in odio, Buonaparte se ne compiaceva, invaghito per indole propria dei governi assoluti, ed allettato dalle adulazioni dei nobili Piemontesi, i quali avevano bene penetrato la sua natura, e sapevano in qual modo si potesse, non che mansuefare, inlacciare quel soldato indomito. Pure non era possibile, che le massime che correvano, i rivoltamenti della vicina Genova, i giornali, le predicazioni, le trame di Milano non partorissero in Piemonte effetti pregiudiziali alla quiete dello stato.

Quando prima fu fermata la tregua di Cherasco tra la Francia ed il Piemonte, i ministri del re, ed il re medesimo, anteponendo la salute dello stato all'inclinazione propria posero ogni cura nel nodrire l'amicizia con Francia, ed a questo fine indirizzarono tutti i loro pensieri. Per questo il duca d'Aosta tratteneva con lettere amichevoli Buonaparte: per questo si mandavano San Marsano, e Bossi per tenerlo bene edificato a Milano. Per questo medesimo nell'atto stesso della tregua di Cherasco, e per averla sborsava il re più di trecento mila lire. Nè furono vane le pratiche, poichè sussisteva il re, mentre i vicini rovinavano. La principale difficoltà a superarsi in questa bisogna, perchè quel, che si era conseguito per un tempo, divenisse durabile, in questo consisteva, che si persuadesse al direttorio, che il re per interesse proprio doveva star aderente alla Francia, e che la Francia anche per interesse proprio doveva avere per aderente il re.

A questo fine, e perchè un trattato di alleanza si stipulasse, aveva, come già abbiam narrato, Carlo Emanuele mandato suo ambasciadore a Parigi il conte Balbo. Perchè poi potesse il conte più facilmente entrar di sotto aveva fra le mani molto denaro, o mandato a Parigi dalla zecca, o voltato a quella città dai banchieri più ricchi di Torino. Delle quali cose molto sagacemente valendosi, si aveva acquistato molta entratura. Poi facendosi avanti con progetti politici, massimamente di ordinamenti delle cose Italiane, insisteva e dimostrava che, a volere che la potenza e l'autorità dell'Austria fossero per sempre allontanate dall'Italia, desiderio principale della Francia, era necessario contentare il re di Sardegna, compensargli con nuovi acquisti Savoia e Nizza, farlo insomma potente e grande; ma perchè non fosse scemata autorità alle sue parole, come d'uomo che parlasse per se, aveva operato, che Francesi dei primi coi quali si era accordato, queste medesime cose per bocca, e come per motivo proprio rappresentassero. Per tal modo si proponeva al direttorio, fra gli altri, per mossa del Balbo, ma per mezzo di Francesi che avevano parte nello stato, un ordinamento per l'Italia superiore, pel quale l'Austria sarebbe stata o esclusa perpetuamente dall'Italia, o frenata in quei termini che le si stabilissero per la pace. Cedessero Vintimiglia, la Bordighera, e San Remo col marchesato di Dolceacqua in potestà della Francia; si avesse il re Finale, Savona, Parma, e Piacenza; acquistasse la repubblica Ligure Carosio, i feudi imperiali, Pontremoli e Fivizzano, Pietrasanta, Fordinovo, Massa e Carrara; dessesi alla repubblica Cisalpina il ducato di Guastalla, al duca di Parma la Toscana; finalmente il gran duca di Toscana si compensasse con un elettorato ecclesiastico in Germania. A questo modo, si discorreva, il dipartimento dell'Alpi Marittime acquisterebbe grandezza, e popolazione proporzionate a quelle degli altri dipartimenti, e limiti più naturali, e frontiera assai più facile ad essere difesa: Savona essere il porto naturale del Piemonte; male aver pensato, e contro natura i Genovesi nell'avere colmato questo porto; con ciò aver essi fatto pregiudizio al commercio di tutte le nazioni, massimamente a quel della Francia: se quel porto si concedesse al Piemonte, potrebbero facilmente il riso, le canape, e principalmente le sete Piemontesi arrivar per mare a Marsiglia, e quinci pel Rodano con pochissima spesa a Lione, e si schiverebbero in tal modo i trasporti sempre costosi, spesso pericolosi per le Alpi: che se ai casi di guerra si pensasse, potere facilmente Savona se fosse in mano di uno stato tanto debole, quanto Genova era veramente, divenir preda dell'Austria ad un primo suo impeto nella Cisalpina; che se pel contrario al re fosse data, si potrebbe da lui difendere, e perciò diventerebbe l'antemurale dell'Alpi Marittime con compire la frontiera militare di Cuneo. Mondovì e Ceva, che nulla poteva contro la Francia per essere quelle fortezze, una volta inespugnabili, ora smantellate, ma molto potrebbe per la Francia contro l'Austria, se questa un dì ritornasse tanto potente in Italia, che facesse suo servo il re di Sardegna, caso, che la Francia con tutti i suoi pensieri, e con tutte le sue forze doveva impedire. In questa guisa, compensato il re delle perdite fatte, quieterebbe l'animo, e tornato potente come prima, avrebbe un esercito in pace di quarantamila soldati, in guerra di sessantamila, con questa differenza, che se innanzi dipendeva dall'Austria, dopo dipenderebbe dalla Francia, e suo necessario naturale alleato sarebbe, per essere i suoi stati tutti aperti, ed indifesi verso di lei. Da un altro lato essere la repubblica Cisalpina un composto di elementi eterogenei, e divisa in parti: la parte Austriaca esservi più numerosa, e più forte di quella dei patriotti; avere la Cisalpina al suo governo uomini nuovi e senza energia; senz'armi buone, senza spirito militare, senza concordia, troppo più debole impedimento, che si converrebbe, essere contro i pensieri ambiziosi dell'Austria; pentirebbesi la Francia dello aver indebolito il Piemonte, vera e naturale difesa, vero cinto esteriore della Francia contro la potenza dell'Austria. Di ciò far fede Buonaparte medesimo, continuamente scrivendo che la repubblica Cisalpina non sarebbe in grado di resistere ad un solo reggimento di cavallerìa Piemontese, e che il re con un solo de' suoi battaglioni, ed uno de' suoi squadroni era più forte di tutta la Cisalpina unita.

Nè apparire che cosa importasse l'aggrandire la Cisalpina, perciocchè più s'accrescono i corpi eterogenei, e maggiori diventano le probabilità della dissoluzione. Ciò risguardare principalmente gli stati di Parma, i quali, se si unissero alla Cisalpina, siccome all'unione molto ripugnanti, altro effetto non partorirebbe che quello di avvantaggiare le sorti dell'Austria, e preparare la servitù d'Italia sotto il dominio dell'imperiale scettro di Germania. La libertà d'Italia dover nascere dall'esclusione degli Austriaci, nemici naturali della Francia, non dall'indebolire gli stati neutri, ed alleati naturali di lei. Restare adunque inutile il dare il ducato di Parma alla Cisalpina; doversi dare a chi non è forte abbastanza per dar timore agli amici della Francia, a chi è forte abbastanza per farsi portar rispetto; perdere, è vero, Genova qualche territorio, ma conseguirne altri alla sua integrità meglio conducenti, ed uscire oltre acciò da ogni servitù imperiale, ed acquistare titoli più sicuri sui feudi imperiali; non potersi, senza sollevar tutta Europa, unir Genova alla Cisalpina, non potersi per la ragione medesima, nè senza pregiudizio degl'interessi commerciali, nè senza far forza ai limiti naturali unirla alla Francia, quantunque a questo partito spignessero gli aristocrati scontenti allo essere esclusi per la nuova costituzione dai primi luoghi dello stato; doversi pertanto, ove Genova si volesse disfare, darne parte al re di Sardegna, parte alla Francia, o tutta darla al re, che cederebbe in iscambio alla Francia l'isola di Sardegna; opportunissima essere al dominio Francese la Sardegna, ricca per se, ricchissima, se venisse in mano di Francia. Di nissun momento essere Massa e Carrara alla Cisalpina, per essere spiaggia importuosa, e solamente povero rifugio di barche pescherecchie, di grande Guastalla per essere a cavallo del Po, per signoreggiare la navigazione del fiume, e per far sicura la comunicazione fra le due parti della repubblica situate sulle due opposte rive; torsele conseguentemente una misera parte, unita a lei per poca terra, darsele una parte ricca, opportuna, ed a lei per limiti naturali congiunta; sottomettere al dominio del duca di Parma la Toscana piacere alla Spagna, principalmente alla regina, di sangue Parmense. Per esso pareggiarsi vieppiù la potenza delle due emole prosapie di Parma e di Napoli, offerirsi alla prima la occasione di riguadagnarsi lo stato dei Presidj, internati nella Toscana, e sui quali pretendeva Napoli sovranità; soddisfarsi Madrid delle condizioni stipulate nel trattato d'alleanza, ed avere perciò la Francia più fondata ragione di richiedere dal re Carlo, facesse maggiori sforzi, acconsentisse più volentieri ad ulteriori accordi; quel tumore delle menti Spagnuole avere a compiacersi di un più alto titolo; e se Roma fosse per cambiar di sovrano, doversi lei dare piuttosto ad un principe di parte Spagnuola, e per conseguente unito alla Francia, che al re di Napoli, ed al gran duca di Toscana tanto congiunti di sangue, o di parentela, o d'opinione colla parte Austriaca. Ragionavasi ancora, che con questo si verrebbe a torre all'imperio d'Inghilterra il porto tanto importante di Livorno. Oltre a tutto ciò toccava il conte Balbo, e chi parlava per lui, che l'avere l'Austria acquistato il paese Veneto, la faceva più grande in Italia; essere perciò necessario crearvi nuova potenza contro nuova potenza, con dare alla repubblica Cisalpina un governo savio e forte, e con allontanare dall'Italia il principe Austriaco di Toscana, e con sostituire a lui un principe, che potesse entrar nella lega Italica destinata a frenare in Italia la potenza dell'imperatore; parere somigliante al vero, che avessero a sopprimersi in Alemagna gli elettorati ecclesiastici, e crearsi in luogo loro tre elettorati laici, dei quali uno sarebbe probabilmente protestante; da ciò ne nascerebbe, che l'Austria pruoverebbe l'autorità sua diminuita nel corpo Germanico, e volentieri vedrebbe, che uno degli elettorati nuovi cedesse in capo di un principe del suo sangue: il quale ordine crescerebbe il numero degli elettorati insino a nove, come erano innanzi che i due della casa palatina si riunissero in un solo. Pure per questo non acquisterebbe l'Austria la pluralità dei voti, che restar doveva in avvenire in favore della Francia. Meglio ancora sarebbe se l'elettorato di Colonia a questo ramo d'Austria, cioè al gran duca di Toscana, si concedesse, perciocchè la Francia avrebbe in tal caso sulla sinistra sponda del Reno un pegno, che in accidente di guerra potrebbe agevolmente occupare.

L'ambasciadore Piemontese, avendo trovato la materia tenera, e volendo dimostrare, che con la grandezza del re era congiunta la sicurtà e il beneficio di Francia, procedeva più avanti, forse poco prudentemente, perchè in ciò andava a ferire l'edifizio prediletto di Buonaparte. Argomentava, e certamente con verità, che le nuove repubbliche Italiane non potevano di per se stesse sussistere; che la parte dell'Austria vi era la più forte, ch'essa proromperebbe tostochè i Francesi levassero le forze loro, che erano il solo freno che la tenesse lontana da quei paesi: che forse la parte stessa democratica era prezzolata dall'Austria per impedire, che la Lombardia non fosse data al re di Sardegna; che se l'Austria conducesse i suoi disegni a compimento, sarebbe il re casso dal novero delle potenze d'Europa, e la Francia avrebbe, in vece di un amico fedele e che anche fatto più potente non potrebbe pregiudicarle, un vicino pericoloso, e nemico naturale del nome Francese. Necessaria cosa essere adunque, che si compensassero al re le perdite fatte, e che se gli assicurassero gli stati; il che meglio e più fermamente non si poteva fare che col metterlo in possesso della Lombardìa: offerire il re alla Francia un testimonio irrefragabile della sincerità sua, e della sua avversione verso il giogo Austriaco in questo, che dappoichè, dopo gl'inutili tentativi di ben quattro anni, erano i Francesi penetrati in Piemonte, ed era stato il re liberato dalla dominazione Austriaca, aveva egli tostamente fatto la risoluzione di gettarsi alla parte Francese, e presto l'Italia intiera era venuta in potestà loro: se il re non avesse giudicato conveniente di fidar tutte le cose sue ad un'intima connessione dei veri e reali interessi della Francia co' suoi, se per questa ragione non avesse accettato le durissime condizioni, alle quali fu posto; e se solamente, come poteva, perchè intatte ancora, e fornite di tutto punto erano, avesse atteso a difendere le sue fortezze, nè l'abilità, nè la fortuna di Buonaparte, nè il valore de' suoi soldati sarebbero stati bastanti a fare, che la vittoria alle armi Francesi si assicurasse; il che esser vero Buonaparte stesso pensava, e l'aveva affermato più volte.

Queste Piemontesi insinuazioni, che tendevano, secondo il costume dei tempi, a spodestare altrui, erano astutissime, siccome quelle che sempre toccavano quel tasto prediletto alle orecchie dei Francesi tanto desiderosi della declinazione dell'Austria in Italia, e dell'aumento della potenza propria. Perciò erano udite volentieri, non già dal direttorio, sempre invasato da' suoi pensieri di rivoluzione, ma da chi stava a lato a lui, e molto con lui poteva. Le avvalorava anche con sue lettere Buonaparte. Scriveva egli al ministro degli affari esteri, male conoscersi i popoli Cisalpini a Parigi; non portar la spesa, che si facessero ammazzare quaranta mila Francesi per loro; errare il ministro in pensando, che la libertà potesse far fare gran cose ad un popolo, come affermava, molle, superstizioso, commediajo, e vile; volere il ministro, ch'egli, Buonaparte, facesse miracoli; ma non saperne fare, non avere nel suo esercito un solo Italiano, se non forse quindici centinaja di piazzaruoli raggranellati a stento sulle piazze di diverse città d'Italia, ribaldaglia piuttosto atta a rubare, che a far guerra: il re di Sardegna solo con un suo reggimento esser più forte di tutta la Cisalpina; non permettesse, diceva, che qualche avventuriere, o fors'anche qualche ministro gli desse a credere, che ottanta mila Italiani fossero in armi; bugiardi essere i giornalisti Parigini, bugiarda la opinione in Francia rispetto agl'Italiani: se i ministri Cisalpini gli dicessero, aggiungeva Buonaparte, ch'egli avesse all'esercito più di quindici centinaja dei loro, e più di due mila destinati a mantener il buon ordine in Milano, rispondesse loro, che dicevano bugia, e gli sgridasse, che lo meritavano; certe cose esser buone a dirsi nei caffè, e nei discorsi, ma non ai governi: romanzi esser quelle, che son buone a dirsi nei manifesti, e nei discorsi stampati; doversi ai governi parlar di un altro suono, perchè le falsità gli sviano, e le male strade gli fan rovinare; non l'amore degl'Italiani per la libertà e per l'equalità aver ajutato i Francesi in Italia, ma sì la disciplina dell'esercito, il valore dei soldati, il rispetto per la repubblica, il contenere i sospetti, il castigare gli avversi; avere ad essere un abile legislatore quello, che potesse invogliar dell'armi i Cisalpini; esser loro una nazione snervata e codarda: forse col tempo si ordinerebbe bene la loro repubblica insino a metter su trenta mila soldati di tollerabil gente, massime se conducessero qualche polso di Svizzeri, ma per allora non vi si potere far su fondamento. Nè maggior capitale potersi fare dei patrioti Cisalpini e Genovesi doversi aver per certo, che se i Francesi se ne gissero, il popolo gli ammazzarebbe tutti. Adunque, concludeva, se ausiliarj di niun conto sono e Genovesi e Cisalpini, nissun miglior partito restare alla Francia per avere un ausiliario buono in Italia a diminuzione della potenza Austriaca, che lo stringere amicizia col re di Sardegna, e fermare con lui un trattato d'alleanza.

Infatti un trattato di tal sorte tra Francia e Sardegna già si era negoziato, quando ancora l'imperatore combatteva in Italia, e tuttavia erano gli eventi della guerra dubbj. Infine era stato concluso il dì cinque aprile da parte della Francia pel generale Clarke, da quella della Sardegna pel ministro Priocca. I primi e principali capitoli erano, fosse l'alleanza offensiva e difensiva prima della pace del continente, solamente difensiva dopo; non obbligasse il re a far guerra ad altro principe, che all'imperatore di Germania, ed il re se ne stesse neutrale con l'Inghilterra; guarentivansi reciprocamente le due parti i loro stati d'Europa, e si obbligavano a non dar soccorso ai nemici sì esterni che interni, fornisse il re nove mila fanti, mille cavalli, quaranta cannoni; obbedissero questi soldati al generalissimo di Francia; partecipassero nelle taglie poste sui paesi vinti in proporzione del numero loro: quelle poste sugli stati del re cessassero; niuna parte potesse fare accordo col nemico comune, se non comune; si stipulasse un trattato di commercio; la repubblica di Francia, come più possibil fosse, avvantaggiasse, alla pace generale, o del continente le condizioni del re di Sardegna.

Questo trattato, che prometteva giorni più lieti e più sicuri al Piemonte, ed avrebbegli anche adotti, se meno perversi fossero stati gli uomini, o meno avversi i tempi, conteneva una condizione principalissima, e di tutto momento pel re, e quest'era la guarantigia degli stati contro i nemici sì esterni che interni, gli uni e gli altri pericolosi, i primi per la forza, i secondi per quella sequela delle cose Milanesi e Genovesi. Debbono i Piemontesi averne una perpetua gratitudine a Priocca per aver saputo far sorgere di mezzo a tanta tempesta una speranza così grande di salute; perchè, se il vantaggio dello avere per ausiliari diecimila Piemontesi non era da sprezzarsi per la repubblica di Francia, bene era molto maggiore pel sovrano del Piemonte la stipulata sicurezza degli stati, e per questa parte era il trattato più glorioso al principe, che alla repubblica. Restava, che i consigli di Francia ratificassero il trattato, perchè già il direttorio l'aveva appruovato. Qui sorsero parecchie cagioni d'indugio, prima da parte del governo regio, che desiderava, che la ratificazione fosse susseguente alla pace con Roma, e che il suo ministro a Vienna ne fosse uscito e condotto in salvo, poi per parte della Francia, perchè a questo tempo stesso erano stati fermati i preliminari di Leoben; e siccome la principal condizione dell'alleanza consisteva nel far guerra di concerto contro l'Austria, pareva, che il ratificare, ed il pubblicare il trattato potesse sturbare le pratiche di fresco aperte con l'imperatore. Ma il re, sentiti i preliminari di Leoben, insisteva ostinatissimamente per la ratificazione, perchè aveva timore delle turbazioni interne, e sospettava, giacchè l'imperatore era stato costretto a chiedere i patti, che il direttorio si ritirasse da lui, e si stipulassero nei sorti negoziati cose contrarie ai suoi interessi. Temeva di restar solo esposto ai risentimenti dell'Austria, tanto più formidabili, quanto egli con maggiore sincerità e calore si era gettato alla parte Francese. Per questo Balbo usava ogni opera a Parigi, e con ragioni forti, e con mezzi più forti ancora che le ragioni, acciocchè il trattato si appresentasse per la ratificazione dal direttorio ai consigli. Secondava Buonaparte con le lettere i tentativi del conte. Badassero bene, scriveva, non essere punto sicure le cose coll'imperatore; ad ogni momento potersi rompere la guerra; se non ratificasse al trattato, per questo solo diventerebbe il re di Sardegna nemico, perchè si persuaderebbe, e con ragione, che la Francia volesse al tutto la sua rovina; per la medesima ragione, e dovendo tenere il re in grado di avverso alla Francia, sarebbe egli, Buonaparte, necessitato a mettere un presidio di due mila soldati in Cuneo, altrettanti in Tortona, altrettanti in Alessandria; avere conseguentemente l'esercito ad esser diminuito di sei mila combattenti necessari a custodire le piazze Piemontesi, e di più, di altri sei mila necessari a guernire le Milanesi: quest'erano i castelli di Milano e di Pavia, e la fortezza di Pizzighettone. Per tal modo, se non si ratificasse per parte della Francia il trattato, si perderebbero dieci mila Piemontesi, ottimi soldati, e dieci mila Francesi, destinati a tener sicure le spalle dell'esercito Italico, e ad allontanare accidenti sinistri in caso di sconfitta. Perchè non voler mandare ad effetto quello, che si era stipulato? Forse per lo scrupolo di collegarsi con un re? Essersi bene la Francia collegata coi re di Spagna e di Prussia. Forse il desiderio di sovvertire il Piemonte? Ma perciò fare senza strepito, senza mancar di fede al trattato, anche senza offendere la buona creanza, miglior mezzo essere (quest'era veramente pensiero Buonapartiano) il mescolare ai soldati di Francia diecimila soldati Piemontesi, fiore e parte eletta della nazione, e fargli partecipi delle vittorie Francesi; sei mesi dopo sarebbe il re di Piemonte detruso dal trono. Stringere la Francia con le sue forti braccia, qual gigante, e serrare, e soffocare un pigmeo: tal essere la necessità delle condizioni Piemontesi. Se ciò non s'intendesse, soggiungeva, non saper che farci, e se alla politica savia e vera, che si conveniva ad una grande nazione chiamata a gran destino, e che ha a fronte nemici potentissimi, si sostituissero le ciarle democratiche, non saper che farci, e niuna cosa potersi fare, che buona fosse.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
330 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre