Kitabı oku: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III», sayfa 8
Queste esortazioni fortissime in se stesse, operavano gagliardamente. Pure trovavano non poca difficoltà; perchè molti dei senatori vedevano in quei reggimenti democratici non amore, nè gratitudine per la rinunziazione dei privilegi, ma scherni e persecuzione, nè cambiando era andare dall'aristocrazìa alla democrazìa, ma bensì dal dominio consueto al dominio di una parte prepotente. Atterriva anche l'esempio di Venezia, che già si vedeva passare, pel cambiamento fatto, non alla libertà ed alla concordia, ma prima alla servitù di una parte, poi alla servitù forestiera. Così si stava in pendente, e, come accade nei casi dubbj e pericolosi, si amava lo stare, solo perchè lo stare era consueto.
Mentre si deliberava nel piccolo consiglio di quanto si dovesse fare in quella occorrenza di suprema, anzi di unica importanza per la patria, comparivano le prime squadre di Rusca, le quali, sparsesi prima per la Polcevera, si distendevano poscia insino alle porte di Genova. Si udiva eziandìo, che Serrurier poco lontano succedeva con le sue, e che da Cremona si muovevano nuovi soldati per dar rinforzo a Rusca ed a Serrurier, ove da per se non bastassero. Erasi appresentata alcuni giorni innanzi alla bocca del porto l'armata di Brueys; ma per la istanza del senato, e per la tempera del popolo, che non l'avrebbe lasciata entrare quietamente, aveva Faipoult operato, che l'ammiraglio se ne tornasse verso Tolone; del che, qual debole e timoroso, fu poscia aspramente biasimato da Buonaparte. Sebbene però l'armata Francese si fosse ritirata, si sapeva, che andava volteggiandosi ora a vista, ed ora poco lontana dalla riviera di ponente, e poteva dar animo, e fare spalla facilmente ai novatori della riviera, ed a quei della metropoli. Nè fu l'esito diverso dal prevedere; perchè tra la presenza di Rusca nella Polcevera, alcune squadre di soldati Francesi sparsi nella riviera, e la prossimità di Brueys, si tumultuava in vari luoghi, non senza sangue; gli abitatori delle ville e delle montagne combattevano acremente i novatori. Ciò non ostante questi ultimi erano rimasti superiori in Savona, città principale in quelle piagge, e già in ella, e nel Finale, e nel porto Maurizio avevano piantato l'albero, che chiamavano della libertà. Il senato minacciato da una setta potente nella sua sede medesima, attorniato da soldati forestieri, lacerato dalla guerra civile, stretto continuamente dagli agenti di Francia, che sempre parlavano dello sdegno del direttorio, e di Buonaparte, non aveva più libertà di deliberare.
Cedevano i padri, perchè il contrastare era impossibile. Statuivano, si riformerebbe lo stato; la mutazione, quantunque in termini generali, al popolo si annunzierebbe. Mandavano poi legali a Buonaparte, con facoltà di accordare con lui la forma futura degli ordini politici, i nobili Michel Agnolo Cambiaso, Luigi Carbonara, Gerolamo Serra, i due primi amatori di un governo popolare più largo, l'ultimo di uno più stretto, ma uomini tutti di singolare ingegno, ed anche di natura buona e forte, se fati migliori avessero conceduto, che la bontà e la fortezza potessero giovare alla patria. Partivano i deputati per Montebello, alloggiamento di Buonaparte. Partivano anche, conseguito l'intento, alla volta medesima Faipoult e Lavallette, per informar il generale dell'adempimento delle commissioni loro, e per consigliarlo intorno alle persone, che per gl'interessi di Francia si convenisse introdurre nel nuovo reggimento.
Il doge, i governatori, ed i procuratori della repubblica avvertivano il pubblico, mandarsi legati a Buonaparte, perchè ai pericoli esterni, ed alle turbazioni interne di Genova provvedesse. Lodavano la lealtà di Faipoult, conforme, dicevano, a quella della gran nazione; sperare, con l'ajuto della divina provvidenza, poter facilmente compire un'opera conducente a conservazione della repubblica, ed a contentamento di tutti, e sulla quale a tempo debito si sarebbe chiamata a consiglio tutta la nazione: se ne vivessero intanto quieti, esortavano, e non corrompessero con moti inopportuni una occasione, dalla quale dipendevano il riposo, e la felicità di tutti.
Spedivano al tempo stesso il nobile Stefano Rivarola a Parigi, comandandogli, in una faccenda di tanto momento per la repubblica, s'ingegnasse con ogni possibil modo di fare, che la forma antica, il meno che fate si potesse, si alterasse, e la integrità dei territorj in sicuro si ponesse.
Il direttorio di Francia era per le cose d'Italia piuttosto servo, che padrone di Buonaparte, e però a Montebello piuttosto che a Parigi si doveva definire il destino di Genova. Combattevano a questo tempo in Buonaparte due diversi pensieri, la necessità delle cose, e la volontà di secondare, pe' suoi fini particolari, i desiderj dei principi. Il primo lo sforzava a far le rivoluzioni, perchè l'operare senza posa era per lui mezzo di non lasciar illanguidire la fama, che si era acquistata; il secondo lo spingeva a far sicure le monarchie, a rivoltar solo le repubbliche, e queste o spegnere, o lasciarle dare nella democrazìa meno che potesse. Questi consigli operando in lui efficacemente, erano cagione, che, cambiando gli antichi ordinamenti di Genova, non gli lasciasse scendere sino alla pura ed inquieta democrazìa, e che la somma delle cose confidasse, non a gente fanatica e spaventevole ai re, ma bensì a uomini temperati e savi, che o per necessità consentivano al cambiamento, o volevano la democrazìa mista e con leggi, non pura e senza leggi. Questi pensieri consuonavano con quelli dei legati, ed anche la volontà del vincitor Buonaparte non era contrastabile. Per la qual cosa non fu lungo il negoziare, e addì cinque giugno si concludeva un accordo per mezzo loro tra la repubblica di Francia, e quella di Genova, pei principali capitoli del quale si statuiva, che il governo rimettesse alla nazione, così richiedendo la felicità della medesima, il deposito della sovranità, che gli aveva confidato; ch'ei riconoscesse, la sovranità stare nell'universalità dei cittadini; che l'autorità legislativa si commettesse a due consigli rappresentativi, uno di trecento, l'altro di cencinquanta consiglieri; che la potestà esecutiva fosse investita in un senato di dodici, e a cui presiedesse un doge; il doge, ed i senatori dai consigli si eleggessero; ogni comune avesse ad esser retto da ufficiali municipali, ogni distretto da ufficiali distrettuali; le potestà giudiziali e militari, e così pure le divisioni dei territorj secondo il modello da farsi da una congregazione a posta si ordinassero, con ciò però, che la religione cattolica salva ed intera si serbasse; i debiti del pubblico si guarentissero; il porto franco, ed il banco di San Giorgio si conservassero; ai nobili poveri, per quanto possibil fosse, si provvedesse; che ogni privilegio per abolito si avesse; che intanto si creasse un reggimento temporaneo di ventidue, ed a cui il doge presiedesse; che questo reggimento prendesse il magistrato il dì quattordici di giugno. Statuisse delle indennità dei Francesi offesi nei giorni ventidue e ventitrè maggio; finalmente la repubblica Francese perdonasse a tutti, che l'avessero offesa nei giorni suddetti, e mantenesse l'integrità dei territorj della repubblica Genovese.
Mandava Buonaparte questi capitoli al doge con lettere portatrici di dolci parole, mostrando molta affezione verso la repubblica, e consigliando, fossero savj, fossero uniti, e non dubitassero della protezione della Francia. Eleggeva al reggimento temporaneo Giacomo Brignole, doge, Carlo Cambiaso, Luigi Carbonara, Gian Carlo Serra, Francesco Cataneo, Giuseppe Assereto da Rapallo, Stefano Carega, Luca Gentile, Agostino Pareto, Luigi Corvetto, Francesco Maria Ruzza, Emanuele Balbi, Gian Battista Durand del porto Maurizio, capitano Ruffino di Ovada, Agostino Maglione, Gian Antonio Mongiardini, Francesco Pezzi, Bertuccioni, Gian Battista Rossi, Luigi Lupi, Gian Maria de Alberti, Bacigalupi, Marco Federici della Spezia.
Quando il generalissimo di Francia creava questa nuova signorìa, aveva in pensiero, non solamente di dare autorità a uomini prudenti, e lontani da voglie estreme, ma ancora mescolando uomini di diverse condizioni, di mostrare che la sovranità non cadeva più in pochi, ma bensì in tutti, cosa che avrebbe dovuto far quietare, contentando le ambizioni, molti umori. Ma nelle rivoluzioni le ambizioni sono incontentabili, e come se le faccende pubbliche potessero maneggiarsi continuamente dalla moltitudine, il restringerle in pochi magistrati era riputato aristocrazìa: gli esclusi gridavano tirannide, gente pericolosissima, perchè pretendeva parole di amore di patria.
Incominciava appena a farsi giorno, che già le piazze e le contrade erano piene di gente, accorrendo da una parte il popolo tratto dalla novità del caso, dall'altra i libertini portati dall'allegrezza, e dal desiderio di far certe dimostrazioni, che credevano libertà, ed erano vanità in se, scherno ad una parte dei loro concittadini, imitazione servile dei forestieri, segni di tirannide, semi di future discordie. Il popolo stesso, solito a seguitare così il bene come il male ad un posto segnale, se prima traeva per curiosità, dopo, e visto il giubbilar dei libertini, incominciava a trarre per allegrezza, ed era uno spettacolo mirabile il vedere tutta quella città mossa a gioia, che ancora non faceva un mese, si era veduta mossa a sangue. Viva la libertà, muoja l'aristocrazìa, viva Francia, viva Buonaparte, gridavano le Genovesi voci: gli alberi della libertà non solo sulle piazze e principali contrade, ma ancora sulle piazzuole e nei vicoli a tutta fretta si piantavano; i balli, canti, ed i discorsi che si facevano loro intorno, erano eccessivi. A questo, alcune donne, e non delle infime, certi berrettini di libertà, che così gli chiamavano, che avevano tessuti nascostamente, di tre colori nei giorni precedenti, distribuivano in pubblico, ed i libertini con molto romore se gli appiccavano sul petto. Le quali cose se abbiano mosso a riso Buonaparte tanto astuto conoscitore e tanto cupo sprezzatore dell'umana natura, non è da domandare: godeva in se del compito inganno. Morando era fuori di se dalla contentezza, sebbene non del tutto si soddisfacesse dei membri del governo temporaneo, parendogli aristocrati anzi che no. Vitaliani predicava, e per gridar forte che facesse il popolo, non gli pareva mai, che gridasse abbastanza. I nobili o si nascondevano nelle più segrete case, o fuggivano dalla città, e ne avevano ben anche il perchè; che ad un primo trarre, il popolo mosso, e stimolato dai novatori più vivi, gli avrebbe manomessi. In mezzo a tanto fracasso poteva nascer bene, come male, ma più facilmente male che bene. I patriotti scrivevano nel gergo gonfio, servile, e schifoso di quei tempi, che «superbo dei riacquistati diritti scorreva per le vie il genio della Liguria, e scrivea sulla fronte ai liberi cittadini la bella immagine di un fortunato avvenire». Ed ancora: «Oh, sublime maestoso spettacolo d'un popolo intero, che dopo aver trascorso dei secoli di servitù, curvo, ed umiliato sotto un giogo di ferro, si leva subitamente ritto sui piedi, e scosso l'infame peso delle irrugginite catene ne getta i rotti avanzi in faccia ai detronizzati tiranni!» Così parlavano: Buonaparte ne faceva le risa a Montebello, e gli chiamava pazzi da legare. Gian Carlo Serra, e suo fratello Gerolamo, che non erano uomini da riscaldarsi troppo, ed avevano l'animo piuttosto da storico che da poeta, s'erano lasciati ancor essi trasportare all'entusiasmo, e scrivevano cose di fuoco a Buonaparte.
La servile imitazione verso le tragicomedie della rivoluzione Francese dominava; ed ecco una calca di gente trarre con grida al ducale palazzo, i patriotti la guidavano, con animo di levarne il libro d'oro, infame catalogo, come dicevano, volume esecrato dell'antica aristocrazìa. Si custodiva il libro assai gelosamente in un luogo appartato del palazzo d'onde non si estraeva se non quando il nome di qualche nuova famiglia, chiamata a nobiltà, vi si scriveva. La plebe, rotte a forza le porte dell'archivio, se lo portava con incredibili scede e giullerìe sulla piazza dell'acquaverde, e quivi acceso un fuoco, lo ardeva, e le grida, e le risa, e gli scherni furono molti. Non pochi, perchè non mancassero neanche le puerilità, ferivano a punta di bajonetta o di sciabola l'odiato libro, e con questo si credevano di aver morto l'aristocrazìa: i circostanti applaudivano. Insomma il popolo mosso, se non fa tragedie, vuol comedie. Ardevano col libro d'oro anche la bussola del doge, e l'urna, dove s'imborsavano i nomi dei senatori per gli squittinj. Vi si arrosero altri stemmi gentilizj raccolti a furia di popolo da diversi luoghi; cose tutte, che si facevano piuttosto per ingiuria di persone, che per amore di libertà: poi piantavano sulle ceneri delle reliquie aristocratiche, come dicevano, il solito fusto, e gli applausi, e le musiche, e i discorsi andavano al colmo.
Arso il libro d'oro, trascorreva il popolo, anche i carbonari vi si mescolavano, ad un atto assai più biasimevole, e questo fu di rompere, ed atterrare la statua di Andrea Doria, che per memoria ed onore delle sue virtù, e de' suoi meriti verso la patria i Genovesi antichi avevano eretta nella corte del palazzo ducale; e se chi stava dentro a guardia fosse stato men pronto a serrare le porte contro l'invasata moltitudine, avrebbe rotto anche le altre statue del Doria, che si vedevano nella sala del gran consiglio. Che cosa poi pretendessero le ingiurie fatte ai morti illustri, ed il disprezzo di servigi eminenti fatti alla patria, ciascuno potrà da per se stesso giudicare, ed erano novatori noti solamente per parole ed incapricciti di certi governi geometrici non ancora pruovati, o pruovati soltanto per esilj, per persecuzioni, e per morti crudeli, che un Andrea Doria oltraggiavano.
Dalle ingiurie si trapassava ad insolenze criminose; perchè sospettando, che fossero ancora sostenuti nelle carceri alcuni fra coloro, che erano stati arrestati nei giorni ventidue e ventitrè maggio, vi correvano a folla, ed avendole sforzate, davano comodità di fuggirsi a parecchi malfattori, contaminando in questo modo il nuovo governo con lo stesso fatto, col quale avevano già assaltato l'antico; tristi principj di libertà, e di stato civile.
Tal era la condizione di Genova, che il governo, composto la maggior parte di uomini buoni e savj, dipendeva da Buonaparte, anche serviva alle opinioni dei tempi; dal che nasceva, che voleva ordinare, non la libertà che si convenisse a Genova, ma quella che era foggiata a modo di Francia, come se nissun'altra forma buona di vivere libero potesse essere, se non quella dei forestieri. Era oltre a questo, una parte assai viva, che chiamavano dei patriotti, la quale non contenta ad un vivere moderato, avrebbe voluto, piuttosto, credo per imitazione servile, che per malvagità di natura, ma certamente per pensieri immoderati, non la forma ordinata in Francia col direttorio, ma la precedente. Erano costoro intoppo insuperabile ad ogni forma buona, siccome quelli, che ogni reggimento regolare libero o non libero, ma più se libero, laceravano con gl'improperj insidiavano con le congiure, assaltavano con le sollevazioni. Mescolavasi finalmente a questi umori la parte aristocratica vinta, la quale, impotente a far moto d'importanza a cagione della forza Francese presente, e del nome di Buonaparte, teneva non pertanto con le molte sue dipendenze gli animi di non pochi sospesi, ed avversi allo stato nuovo. Si accostavano a questa parte i più fra le genti di chiesa, che argomentando, da quello che si era fatto in Francia, a quello che si farebbe in Genova, o della religione, o dell'autorità, o dei beni loro temevano.
Come prima ebbero i nuovi magistrati preso l'ufficio, mandavano fuori un manifesto, ringraziando Buonaparte della benevolenza mostrata verso la repubblica, lodando i privilegiati della rinunziazione dei privilegi, commendando i preti dello aver usato l'autorità loro a stabilimento della libertà; invitavano i popoli della riviera ad unirsi, e ad affratellarsi con Genova; esortavano tutti a vivere quieti e concordi; allegavano, sperare, potere con l'ajuto divino rendere più felici le condizioni del popolo, e perchè il popolo potesse giudicare per se del buon animo loro, promettevano di palesare al pubblico le laboriose loro occupazioni. Venivano a congratularsi, ed a parlare encomj dell'acquistata libertà le città principali delle riviere; l'allegrezza si diffondeva; la fratellanza e la concordia fra le varie parti della dizione Genovese parevano pigliar radice. Accresceva l'allegrezza il sentire, che i feudi imperiali avevano fatto dedizione di se medesimi a Genova, e mandato deputati. Poi per esser odioso quel nome di feudi, gli chiamarono Monti Liguri. Erano volentieri accettati nella società Genovese, lodati, e ringraziati i deputati.
Ordinavasi intanto il corpo municipale di Genova, soggetto molto geloso, perchè i municipj delle metropoli, ad esempio di quello di Parigi, volevano far a gara, e contrastare di potenza coi governi. I capi dell'esercito repubblicano, talvolta per capriccio, talvolta per altri fini più reconditi, soffiavano su di queste faville: semi tutti di discordia, e di anarchìa. Prendevano i municipali il magistrato il dì primo di luglio con non mediocre apparato, e non mancavano i soliti discorsi. Un prete Cuneo, che procedeva con molto calore in queste faccende, ed era stato mescolato nei moti precedenti, diceva loro: «Oh, Bruto, mio caro Bruto, prestami, io te ne prego, prestami per un momento il tuo pugnale grondante ancora del sangue del tiranno, onde scriver possa sulle pareti di questa sala, sotto gli occhi del governo provvisorio, i nomi santi di libertà, e d'uguaglianza». Poscia il prete lodava i municipali. E' bisognerà bene che i leggitori d'oggidì mi comportino la libertà di dire tutto quello, che si disse, perchè l'intento mio è di scrivere storie, non tacere, nè parlare per adulazione.
L'affare più importante, che si esaminava nelle consulte Genovesi, era quello di formar il modello della nuova constituzione. Perlocchè, conformandosi ai patti di Montebello, creava il governo la congregazione, che questo modello dovesse ordinare. A questo fine si chiamavano e dalla città, e dalla riviera, e d'oltremonti uomini di riputato valore. Gottardo Solari, Benedetto Solari vescovo di Noli, Gian Carlo Serra, Tommaso Langlade, Giuseppe Cavagnaro, Sebastiano Biaggini, abbate Niccolò Mangini, Leonardo Benza, abbate Giuseppe Levreri, Gian Battista Rebecco, Filippo Busseti. S'adunavano bene spesso, ma servilmente procedendo modellavano alla Francese, e secondo i comandamenti di Buonaparte. Serra s'intendeva col generalissimo, ed aveva più dominio degli altri. N'era imputato dai patriotti, che incominciavano a mostrarsi mal soddisfatti di lui, chiamandolo aristocrata. Pure la sentiva bene e saviamente. Voleva, che non si offendesse la religione, che si allargasse il senato, come troppo poco numeroso, che si restringessero i consigli, come troppo numerosi; che non si perseguitasse nissuno nè in fatti, nè in parole per opinioni antiche, che gli esagerati si frenassero; che nissun ritrovo pubblico e politico si tollerasse, salvo il caso, in cui si volesse scuoter gli animi a congiungere in un sol corpo tutte le parti d'Italia; al quale fatto come cosa degna del suo gran nome esortava il generalissimo. Ma non se ne soddisfaceva Buonaparte, nemico, come il direttorio, dell'unione Italica. Gli piacevano gli altri pensieri di Serra, e come se fossero suoi, ne scriveva lettere al governo Genovese. Della qual cosa molto il lodava Serra stesso, desiderosissimo di scrivere la storia di Buonaparte; alla quale opera non gli mancava già l'ingegno, che anzi l'aveva molto capace, ma bene la libertà dell'animo; imperciocchè quella gloria Buonapartiana gliel'aveva offuscato.
Incominciavano a prepararsi i semi delle future discordie. Si faceva principio dalla religione, non che toccassero le opinioni dogmatiche, ma soltanto la disciplina. I popoli confondevano l'una cosa coll'altra, i cherici non che gli disingannassero, gli mantenevano nel falso concetto. Prevalevano i desiderj delle riforme Leopoldine, a ciò stimolando il Solari, vescovo di Noli, personaggio d'autorità pel grado, per la dottrina, pei costumi, e molto ardente nelle sentenze Pistojesi. Comandava il governo, che non fosse lecito ai vescovi di promuovere, senza sua licenza, alcuno agli ordini sacri, se non coloro, che già suddiaconi, o diaconi essendo, desiderassero ricevere il diaconato, od il pretato, e parimente senza suo beneplacito, nessuno potesse, o uomo o donna si fosse, vestir l'abito di nessuna regola di frati o di monache; ordinamenti certamente molto prudenti, ma presi in mala parte dai più, perchè la setta contraria al nuovo stato se ne prevaleva. Poi decretava, che ogni cherico o regolare, o secolare che si fosse, se forestiero, dovesse fra certo termine, e con certe condizioni uscire dai territorj. Parevano questi stanziamenti molto insoliti in tanto e sì lungo dominio delle potestà ecclesiastiche; ma bene più insolito e più strano appariva quell'altro precetto, che fu pensiero di Serra, col quale si ordinava, che uomini deputati dal governo a tempo, e dopo i divini ufficj, predicassero la democrazia alle genti. Fu questo un gran tentativo; non succedeva bene, perchè in molti luoghi i deputati non fecero frutto, in altri furono scherniti, in alcuni scacciati. Si sollevarono universalmente gli animi religiosi contro questa novità; i nemici dello stato crescevano: novello argomento, che nelle umane faccende chi vuol far troppo, fa poco.
Questo quanto alla religione: si moltiplicavano per altre ragioni gli sdegni. Oltrechè con gl'incessabili discorsi e scritti non si lasciavano mai quietare i nobili, fu preso decreto, che si mandasse a Parigi, come ministro della repubblica, l'avvocato Boccardi, e si richiamasse Stefano Rivarola, si richiamasse ancora Cristoforo Spinola, ministro a Londra: se non obbedissero, i beni loro fossero posti al fisco; intanto si sequestrassero. Il motivo fu, che Rivarola e Spinola, in ciò gittando grida incredibili i patriotti, erano stimati agenti, e spie della spenta aristocrazìa; e di più si opponeva loro lo aver fatto stampare per mezzo di Lacretelle in un giornale di Parigi acerbe invettive contro i fatti accaduti in Genova nel giorno ventidue di maggio. L'atto rigoroso offendeva i nobili, vieppiù gli animi s'innasprivano. Questo era riprensibile, ma bene del tutto intollerabile fu un altro atto, con cui si ordinava, che i principali autori della convenzione fatta a Parigi da Vincenzo Spinola, per la quale la repubblica si era obbligata a pagare quattro milioni di tornesi alla Francia, fossero tenuti in solido a restituire la detta somma all'erario, e se non la restituissero, fossero i beni loro posti al fisco. Erano in questa faccenda interessate le principali famiglie, specialmente i Doria, i Pallavicini, i Durazzo, i Fieschi, i Gentili, i Carega, gli Spinola, i Lomellini, i Grimaldi, i Catanei, personaggi che tiravano con loro una dipendenza grandissima. Decreto fu questo veramente incomportabile, perchè chi aveva fatto, ed appruovato quella convenzione (perciocchè anche il minor consiglio l'aveva ratificata) aveva facoltà di farla, e quel far guardar la legge indietro è cosa contro ogni giustizia, e di pessimo esempio. Tant'è, che sebbene il decreto sia stato preso tardi, si vociferava nel pubblico, che si volesse prendere, e gli scapestrati democrati menavano un romore senza fine, perchè si prendesse. Ciò faceva maggiormente inviperire gli animi degli scontenti, i quali vedendo di non trovare dopo la mutazione alcun riposo nè per le sostanze, nè per le persone, pensavano a vendicarsi, non che si consigliassero di far congiure, e moti popolari, perchè troppo erano sbigottiti a voler ciò tentare, ma spargevano ad arte voci sinistre nel popolo, ed aspettavano le prime occasioni per insorgere. Mescolavano il falso col vero: vero era, che Buonaparte aveva domandato parecchi milioni pel vivere delle sue genti: questo anzi era stato uno dei principali motivi della mutazione. Il governo poi, trovandosi ancor debole in quei principj, e non avendo altre radici che i discorsi vani dei democrati, ed il patrocinio forestiero, andava lento alle tasse, e perciò aveva trovato il rimedio di quell'iniquo balzello. Genova per tal modo aveva pagato per comperar quiete quattro milioni, ed aveva trovato sovvertimento: poi si era fatto restituire da uomini privati i quattro milioni per comperar di nuovo quiete, poichè i primi a nulla erano valsi. Qual quiete poi si sia comperata questa seconda volta, diranlo a suo luogo le presenti storie.
A tutto questo si aggiungevano le rapine dei Barbareschi tanto più moleste, quanto più si aveva avuto la speranza data espressamente, che cambiato il reggimento, la Francia avrebbe tutelato dagli assalti dei Barbari le navigazioni dei Genovesi. A questo modo, sclamavano, la nuova repubblica vive? A questo modo preservano i Francesi Genova? Gonfie parole, ed esili fatti son dunque tutto, che si è acquistato? Francesi dentro, Algerini fuori! a che pro servire a Faipoult, a che pro servire a Buonaparte, se l'Africano ci assassina? Questi discorsi, che toccavano l'intimo delle sostanze Genovesi a cagione dell'interruzione del commercio, accrescevano ogni ora più la mala contentezza, e già, come suol avvenire, tornando indietro col pensiero, desideravano l'antico stato.
Motivo potente di mal umore era altresì quello, che due generali Francesi, Casabianca e Duphot, fossero venuti a reggere, e ad ordinare i soldati, segno certo, essere perita la independenza. Ciò significava inoltre, che Buonaparte o non si fidava dei Genovesi, o gli stimava inabili alle cose militari; dal che nasceva, che chi pensava altamente, si teneva mal soddisfatto. I nemici degli ordini presenti se ne prevalevano, mostrando la patria perduta, e serva. Dava maggior forza alle insinuazioni loro l'essersi udito, che si voleva, si smantellassero le fortezze di Savona e di San Remo, soli propugnacoli dell'independenza verso Francia. Vedevano anche levarsi i cannoni dalle porte della metropoli, il che interpretavano come di voglia di aprir l'adito più facile, e più sicuro ai forestieri per invadere il cuore stesso della repubblica. Gridavano, doversi insorgere contro reggitori fatti servi dei forestieri. I nobili, i preti, e gli aderenti loro, che non erano pochi, fomentavano questi mali umori. Nel che tanto più alla sicura si adoperavano, quanto più si erano dati a credere, avere appoggio nel grembo stesso dell'autorità suprema; la qual opinione dall'un de' lati dava loro maggior ardire, dall'altro aumentava la debolezza di chi reggeva. Erano allora i reggitori divisi in due sette, dell'una delle quali compariva capo Serra, dell'altra Corvetto, Ruzza, e Carbonara. Amava Serra un reggimento più stretto, e pendente all'aristocrazìa, voleva, che meglio si rispettassero i preti, faceva professione di amatore ardente dell'indipendenza del paese, forse, come affermava la setta contraria, per ambizione, si mostrava avverso ai patriotti invasati di pensieri estremi, Faipoult nè corteggiava, nè amava, nè lodava, voleva tirar a se tutte le affezioni aristocratiche, ed aggiungervi quelle di una moderata libertà, sopra tutto amava Genova più che la Francia. Gli avversarj s'intendevano meglio con Faipoult, alcuni per ambizione, preferendo il dominare con l'appoggio dei forestieri alla libertà della patria, altri a buon fine credendo, che, poichè i cieli avevano destinato che i Francesi divenissero padroni di Genova, miglior partito era per arrivar a bene il vezzeggiargli, che l'aspreggiarli, perchè, volere o non volere, i Francesi dominavano. Ma la maggior dipendenza di questa parte verso Francia, dall'un canto la faceva odiosa, dall'altro la rendeva dipendente più che non sarebbe stato necessario, dai democrati più ardenti, i quali non amavano Serra, anzi il chiamavano tiranno, e nuovo duca d'Orleans. Questi semi pestiferi erano pullulati, ne prendevano animo i nemici della mutazione, e si apprestavano a far novità. Già si udivano sinistri suoni dalle valli di Bisagno, e di Polcevera. Era la cagione, od il pretesto la nuova constituzione, violatrice, come spargevano, della religione, e che, come si era data intenzione, si doveva accettare il dì quattordici settembre. Per far posar gli animi, annunziavano, essere prorogata l'accettazione, e si torrebbe quanto potesse offender la coscienza dei fedeli.
In questo mezzo tempo Corvetto e Ruzza erano stati mandati a Buonaparte per consultar con lui degli articoli, che avevano fatto adombrare i popoli. Ma gli umori popolari più presto si muovono, che s'arrestano. Dava loro l'ultima pinta l'essersi fatti arrestare tanto in città, quanto nel contado alcuni nobili, che si credevano pericolosi, cinque Durazzi, due Doria, due Pallavicini, tre Spinola, un Ferrari, uomini per nome e per ricchezze di molta dipendenza. Incominciavano il dì quattro settembre a tumultuare le popolazioni di Bisagno. Suonavano le campane a martello, i curati esortavano, e guidavano i sollevati, si facevano adunanze nelle ville dei nobili; poi crescendo il numero ed il furore, armati di armi diverse, ma con animi concordi fatta una gran massa, s'incamminavano infuriati verso la capitale. L'accidente portava con se molto pericolo, perchè si temeva, che avesse corrispondenza viva dentro le mura; non era tempo da starsi. Duphot con una squadra di Francesi e di democrati andava loro all'incontro: il principal nervo consisteva nelle artiglierìe, di cui i sollevati mancavano, ed esse compensavano il minor numero. Seguitava una mischia molto aspra in Albaro. Vi si perdevano di molte vite da ambe le parti, ma più da quella dei villici, perchè in loro era minore l'arte delle battaglie, e la scaglia gli straziava. Pure resistevano lungo tempo con molta rabbia; un frate Pezzuolo, ed un Marcantonio da Sori, giovane animosissimo, gli guidavano, ed incoraggivano. Quest'era guerra civile, e della peggiore spezie, perchè i forestieri vi si mescolavano. Prevalevano finalmente l'arte e la disciplina contro il numero ed il furore: andavano in fuga i sollevati; alcuni furono presi, altri in mezzo alla mescolata fuga crudelmente uccisi. Tornavano i soldati di Duphot in Genova vincitori, sanguinosi, e non senza preda.