Kitabı oku: «Max Leitner», sayfa 5

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ACCERTAMENTO DEL NUMERO LEGALE

Una giovane domestica entrò nel maso per svuotare il secchio dell’immondizia. Qui trovò una lettera in cui c’era scritto che doveva salire sulla montagna che dominava il paese perché lassù la aspettava una grande quantità d’oro. La ragazza aveva paura, ma i suoi padroni dissero che doveva andarci perché altrimenti gli gnomi si sarebbero offesi e le avrebbero giocato un brutto tiro. Così la ragazza andò sulla montagna, fu lasciata passare e gli gnomi le diedero dei monili d’oro. Ma quando fece per andarsene gli gnomi dissero che doveva restare ancora due giorni, e così la ragazza si sedette di nuovo al tavolino e chiacchierò e bevve con i suoi piccoli compari. Poi lasciò la montagna piena di felicità, ma quando tornò nel paesino vide che tutto era cambiato. La casa era vuota ed era completamente ricoperta dalla vite americana, i suoi padroni non li conosceva più nessuno e anche le vacche e i cavalli nella stalla le erano estranei. Chiese agli abitanti del villaggio, ma nessuno conosceva né lei né i suoi padroni. Ai bordi della foresta viveva un uomo vecchissimo che le raccontò che, quando suo nonno era ancora molto giovane, una domestica del paese era scomparsa e non era più tornata. Da allora erano trascorsi almeno centocinquant’anni. Quando la ragazza sentì questa storia, a un tratto i suoi capelli divennero bianchissimi, il suo volto si riempì di rughe e i denti le caddero. Crollò a terra nel punto stesso in cui si trovava e morì sul colpo.

La mamma aveva raccontato a Max questa fiaba. Quando se ne era andata Max non era riuscito a dormire, tanto era atterrito dagli gnomi che avevano trattenuto la povera ragazza sulla montagna per centocinquant’anni. Più tardi, quando era arrivato a Cesenatico, aveva capito: gli gnomi avevano tenuto la ragazza prigioniera e non la lasciavano più tornare a casa, esattamente come le suore che lo tenevano qui e non lo lasciavano libero. Era per il suo bene, gli dicevano. Ed erano come gli gnomi che avevano ingannato la povera ragazza. Ora ne è certo, la montagna degli gnomi era un carcere come questo qui. E il tempo si è fermato come se si fosse dimenticato di scorrere. Cent’anni sono un giorno, e un giorno dura cent’anni.

Max ha presentato di nuovo domanda. Ha parlato con l’assistente sociale, lei gli ha detto cosa doveva scrivere e gli ha dato un libro di consulenza legale. Sul tavolo sono impilati dei libri che lo aiutano a comprendere che cosa prevede la legge. Se mai uscirà di qui potrebbe aprire uno studio di consulenza legale, negli ultimi anni si sono diffusi come la muffa sul pane raffermo. Chiunque ha un consulente – ma lui non ne ha bisogno, si consiglia da solo. Anzi, fa tutto da solo. Herbert, con cui ha fatto amicizia, è al fresco per truffa. Gli ha venduto la rivista. Era già un po’ logora, ma Max la utilizza comunque. Nel numero c’è una che assomiglia a Eliana. Eliana, la donna più bella di tutta l’Argentina, di un paese in cui le belle donne prosperano come i limoni in Sicilia. Lei era venuta a trovarlo in Alto Adige, Max l’aveva portata a fare un giro, le aveva mostrato le montagne e il lago. Erano andati anche al mare, avevano fatto un salto a Venezia e navigato sui canali in gondola. Eliana però non era rimasta impressionata. La Porsche invece le era piaciuta. Aveva voluto guidare lei, anche se non aveva la patente. Vicino a Treviso avevano incontrato un posto di blocco dei carabinieri. Eliana era scesa dall’auto, il carabiniere le aveva fissato le gambe e poi il suo sguardo era scivolato più in alto, era rimasto come incollato al seno. Eliana aveva inveito. Lei è argentina, perché mai l’hanno fermata? Perché si crede che una donna straniera non sia capace di difendersi da queste aggressioni. Sì, aggressioni. Lei guidava rispettando le regole, non c’è stata nessuna violazione. Allora perché le chiedono i documenti in maniera così sgarbata? Il carabiniere aveva annuito: sì, era stato scortese ma non voleva offenderla, non avevano visto che Eliana era straniera, anche se donne belle come lei erano rare qui, proprio rare.

Se Eliana fosse venuta a trovarlo anche solo una volta a Stein, Max sarebbe libero già da un pezzo. Avrebbe inveito contro chi doveva decidere, poi l’avrebbe preso per la cravatta, l’avrebbe tirato vicinissimo al suo volto con gli scintillanti occhi neri, il nasino e le labbra rosse e carnose. Gli avrebbe sussurrato qualcosa all’orecchio, qualcosa che aveva a che fare con scopare o baciare, e la chiave sarebbe passata da sola dalla tasca dei pantaloni del tizio alla sua piccola mano ferma.

Nella “villa miseria” di Buenos Aires Eliana comanda una banda di docili ragazzini che per lei commettono furti, rapine, forse omicidi. Max non ne sente la mancanza, pensa a lei solo per via della rivista. Era solo un’avventura, brava a letto ma pericolosa per il cuore, donne così non saranno mai tue.

Julia lo dimenticherà, se non lo vedrà mai. Max deve costringere Kathi a portargliela a Stein più spesso. Che cosa sono sei ore? Niente più di un lampo in una dozzina di anni. Non sarà poi così male, dice il suo avvocato. Ma lui cosa ne sa? Lui è fuori, mette a letto i suoi figli tutte le sere. Julia lo dimenticherà. Ci sono tanti ex mariti e padri dimenticati a Stein quante sono le stelle nel firmamento.

Julia gli ha inviato un disegno. Si vede un prato con una grande farfalla colorata, sullo sfondo le montagne. Max deve stare attento perché le lacrime sciolgono i colori. Non può tenere il disegno in mano troppo a lungo, deve metterlo via subito. Nelle celle degli altri detenuti alle pareti sono appesi vari disegni di bambini, tutti ingialliti. Max ripiega con cura il foglio e lo infila di nuovo nella busta sulla quale c’è il suo nome scritto in bella calligrafia. Julia è intelligente, studierà e lui ci sarà quando prenderà il suo diploma. Sua figlia. Ci sarà. Deve andarsene da qui.

Questa volta farà le cose in modo più intelligente. Si farà trasferire in Italia. Stein è a prova di evasione, lo dicono tutti: le guardie carcerarie, gli avvocati, i detenuti. Ma niente è a prova di Max. Niente di niente. Certo, scavare con il cucchiaio non funziona, ci ha già provato. Non ha funzionato neppure a Innsbruck. Aveva trovato un’intercapedine, aveva grattato ed era incappato nel cemento armato. Aveva mescolato colla, pane e saliva e aveva tappato di nuovo il buco. Sembrava perfetto. Ormai non sarà più così perfetto, avrà dei riflessi verdi di muffa. Tireranno fuori dal buco quel mastice naturale e lo chiuderanno con la malta. Ci sono un sacco di buchi simili nelle pareti delle prigioni. Le pareti delle prigioni sono un unico, grande pezzo di Emmental. Il metodo del cucchiaio non è molto utile.

A Innsbruck era rinchiuso anche Walter Grubauer, il famoso chirurgo estetico. Aveva operato tutta la gente che conta, in Austria. Venivano da lui in pellegrinaggio, si facevano rifare il seno, il naso, il viso intero. E non se la prendevano quando qualcosa andava storto. Ma a un certo punto le cose erano cambiate e Grubauer era stato citato in giudizio per truffa e lesioni gravi. Max aveva voluto conoscerlo. Grubauer non poteva fargli un viso nuovo, non qui dentro, ma aveva l’avvocato migliore e anche Max voleva l’avvocato migliore. Il dottor Manfred Rainer veniva in carcere più volte alla settimana. La stanza per le visite degli avvocati era spoglia, come qualsiasi altra cosa qui. Un tavolo, due sedie, le pareti nude, quattro angoli in uno dei quali c’era un sorvegliante. Il cesso era come tutti i cessi, aveva la finestra sbarrata con un lucchetto.

Un martedì era stato rilasciato Heinz, un amico di Michael, lo spingi-sedia. Tutti in un modo o nell’altro erano amici di Michael, un tipo divertente. Max aveva dato a Heinz il numero e pochi giorni dopo si era fatto vivo Massimo. In uno di quei film di gangster degli anni Cinquanta, Massimo gli avrebbe portato una torta. Ma Massimo non era venuto.

Notburga l’aveva consolato, gli aveva messo in tasca un’immagine di Santa Tecla. Non deve mai perdere la fede. Guarda Santa Tecla, quando fu condannata a morte e fu eretta un’alta catasta per il rogo, la pioggia spense le fiamme e un terremoto fece scappare via la gente. Avrebbe dovuto morire giovane e invece è arrivata a novant’anni. Nella sua cella Max aveva rotto la cornice, aveva messo da parte Santa Tecla e aveva tirato fuori il foglio sottile della sega per metalli. Ci sarebbe voluto molto tempo per tagliare qualcosa. Max aveva sollevato il materasso e ispezionato la rete – due lunghe sbarre di ferro, una sarebbe bastata. Aveva aperto lo sportello dell’armadietto, aveva alzato la radio a tutto volume, si era seduto sul bordo del letto e aveva iniziato a lavorare.

La guardia aveva battuto contro la porta, Max si era alzato, aveva messo in ordine il materasso e chiuso l’armadietto. La finestrella del cibo si era spalancata, dentro era comparsa la faccia della guardia, chiazzata di porpora intorno al naso, la voce troppo alta di un’ottava. Doveva abbassare la radio, immediatamente. Non ho sentito l’ordine, aveva risposto Max, la radio era talmente alta… “Ah, questa è la mia canzone preferita!” Max aveva sollevato le braccia, mosso i fianchi, si era girato dondolando il sedere. La guardia aveva sbattuto la porticina proprio mentre la melodia si esauriva lentamente e una speaker mormorava: “Finestre e porte Internorm. Solide e sicure”.

Due settimane a segare, telefonare, organizzare. Erano proprio dei bravi ragazzi, quelli di Innsbruck. Avevano trovato subito qualcuno che poteva aiutarlo, che l’avrebbe aspettato fuori con il denaro, il passaporto e un’auto. Il dottor Rainer era un avvocato formidabile, Max l’aveva fatto venire in carcere per la domanda di trasferimento. Indossava un pullover a collo alto che gli aveva portato Kathi. Max l’aveva provato subito e Julia aveva pianto ancora di più. Il suo papà doveva venire via con loro, perché continuava a restare in questa casa odiosa con questi uomini cattivi? Si era tolto il pullover e aveva accarezzato Julia sulla testa. Erano trascorsi così tanti mesi e Max non era ancora con loro. Aveva nascosto la sbarra di ferro nel dorso del pullover, tra il collo e il cinturino dei pantaloni. Era fatto tutto su misura, niente era lasciato al caso. Misure prese in carcere, dove non c’erano metri avvolgibili e neppure una fottuta squadra come quelle che si usano a scuola, perciò solo misure naturali. Mani, piedi, posate… bisognava lavorare con quel che si trovava. La sbarra di ferro era lunga cinque cucchiai. Cinque cucchiai vanno dal collo alla cintura dei pantaloni. Max si era infilato la sbarra dietro la schiena, poi aveva picchiato così forte contro la porta della cella che tutti i cartelli fissati all’esterno erano caduti. Cartelli magnetici a basso costo su cui c’era scritto che Max era pericoloso. Che c’era pericolo di evasione e che non collaborava.

La guardia aveva spalancato la porta. Il dottor Rainer lo stava già aspettando, ma prima doveva perquisirlo, doveva tastarlo.

“Sei frocio o che cosa? Tira via le zampe.”

La guardia non aveva risposto, si era chinata per toccare le gambe dei pantaloni di Max mentre lui stava fermo con le braccia sollevate e aspettava.

“Girati”, aveva detto la guardia.

“Fa’ il bravo”, aveva brontolato Max. “Vado solo dal mio avvocato.”

“Girati”, aveva ripetuto la guardia.

“Ma vai a dare via il culo e lasciami in pace!”

“Girati”, aveva gridato la guardia.

Max aveva alzato gli occhi al cielo gridando anche lui, poi in fondo al corridoio si era sentito un gran trambusto. Cosa stava accadendo? Qualcuno stava tentando di evadere? La guardia aveva sbuffato – poteva andare – ed era uscita di corsa. Max si era diretto in fretta giù al parlatorio. L’agente nell’angolo gli aveva ordinato di sedersi. Max gli aveva spiegato che aveva dei dolori alla schiena. I letti qui sono una schifezza, sono completamente sfondati. L’avvocato si era mostrato comprensivo e anche l’agente: ah, la sciatica, un vero tormento, senza Voltaren non se ne esce. Il dottor Rainer aveva spinto fuori l’agente di guardia con i problemi alla schiena, Max doveva andare in bagno e con urgenza. Rainer si era seduto e aveva aperto la sua valigetta. La sbarra di ferro premeva contro la schiena di Max, era giunto il momento di usarla. Aveva abbassato il coperchio del water, ci era salito sopra, aveva estratto la sbarra dal pullover e l’aveva infilata nel lucchetto. Adesso bisognava provare a fare leva: lezione di fisica, seconda classe dell’Istituto commerciale.

La scuola commerciale si era rivelata ancora una volta inutile, invece di piegarsi il lucchetto si era piegata la sbarra di ferro. I letti qui – una schifezza! Fuori c’era la macchina, lo aspettavano gli amici che dovevano portarlo di nascosto oltreconfine. Ma l’effetto leva si era dimostrato un fallimento su tutti i fronti. Max aveva rinunciato prima che la sbarra si rompesse del tutto. Come avrebbe fatto a portarla fuori a pezzi? Aveva nascosto di nuovo la sbarra piegata nel maglione a collo alto ed era uscito. Il dottor Rainer gli aveva indicato una sedia. Non poteva certo sedersi, la sbarra sarebbe sbucata fuori dal collo ripiegandosi in giù come i tentacoli di una seppia. Una sbarra d’acciaio che faceva capolino dal pullover era qualcosa che nemmeno il suo avvocato poteva ignorare. Max aveva biascicato qualcosa a proposito della diarrea e del mal di pancia, avrebbero parlato la prossima volta, oggi doveva tornare di corsa in cella.

L’idea della diarrea era buona, Max aveva minacciato le guardie con il rischio di farsela addosso senza riuscire a trattenerla e loro l’avevano riportato subito in cella. Qui aveva rimesso la sbarra al suo posto. Quella notte aveva dormito male: i letti qui erano completamente sfondati.

SEDEVO SU DI UN MASSO

Il mio ufficio era una stanza spoglia e triste in un vecchio edificio vicino al fiume Isarco, non era più grande di quella di Palermo ma meno torrida. In estate gli addetti alle pulizie mi installavano un grande ventilatore che fendeva l’aria calda con un gran ronzio. E sulla mia scrivania troneggiava una macchina da scrivere a testina rotante.

Entrò Sergio Martinelli, era nei Carabinieri da vent’anni. Figlio d’arte, diceva, già il padre era nella Polizia. Martinelli ricordava perfettamente gli esordi della Mala del Brenta a Venezia. Anche prima avevano ripescato parecchi cadaveri dai canali, ma con l’arrivo dei siciliani le cose avevano preso una piega diversa. Erano più brutali, più spietati e più metodici. I criminali del sud incassavano tangenti come erano soliti fare a casa loro, effettuavano estorsioni, trafficavano in armi e droga. E tutti pagavano e tacevano. Nel frattempo la Mala del Brenta si stava espandendo, si diffondeva verso nord. Gli chiesi se le persone qui subissero estorsioni. Sergio inclinò la testa: non sistematicamente, ma c’era una collaborazione con la criminalità locale. Lasciai cadere un nome e Sergio annuì. Gli domandai come si svolgevano le cose. Sergio mi spiegò che i mafiosi riuscivano a sapere dai loro contatti dove c’era qualcosa da prendere e le informazioni erano passate agli interessati. La contropartita era la solita: una quota del bottino, un piacere qui, un appoggio là. Era un sistema molto comodo per i boss, perché non si esponevano direttamente al pericolo e incassavano lo stesso il denaro.

Era possibile infiltrare qualcuno nell’organizzazione?

“Certo”, rispose Sergio. “Ma non me, ormai mi conoscono. Dev’essere uno più giovane, uno che abbia fegato perché questi tizi sono pericolosi. Non stanno a soppesare tanto i pro e i contro. Se ti scoprono sei morto.”

Chiesi se ci fosse uno disposto a prendersi questa incombenza.

Già il giorno seguente Sergio tornò con un tipo dall’aria risoluta che si chiamava Luigi, masticava chewing gum e si lamentava per il caldo. Accesi quella specie di frullatore, Luigi si sollevò la maglia per farvi entrare l’aria, poi si sedette e chiese una Coca Cola. Sergio andò al distributore automatico e tornò con due bottigliette. Luigi ne vuotò una e si mise l’altra sulla fronte.

Luigi era un pentito, in precedenza aveva fatto parte anche lui della Mala. Gli raccontai di Max e Sergio disse che Max stava preparando qualcosa. Cosa esattamente non si sapeva. Una rapina, questo era certo, forse a una banca o forse a qualcosa di più grosso.

“Devo dargli una dritta?”

“Sì”, risposi io. “Ci ho pensato.”

Luigi si passò di nuovo la bottiglietta di Coca Cola sulla fronte come un rullo: “Un furgone portavalori potrebbe essere un’idea. C’è molto da guadagnare”.

“Come faccio ad agganciarlo?”

Tastai i bicipiti di Luigi e li trovai bisognosi di allenamento, gli consigliai di fare qualche serie con i pesi in palestra. Luigi si mostrò contento, si sarebbe fatto vivo.

Non ebbi più sue notizie per un bel po’, poi una sera mi chiamò. Ci incontrammo a un chiosco di panini fuori città. Io ordinai un würstel e una birra, Luigi costine di maiale con delle salse unte. Mi raccontò della palestra: la gestiva la moglie di Max Leitner, Katharina, una brunetta con gli occhi scuri, il volto ampio e il fisico slanciato. Luigi aveva provato a flirtare con lei, Katharina era stata al gioco. E poi era arrivato Max. Luigi gli aveva portato i saluti di Massimo, avevano cominciato a chiacchierare. Di questo e di quello, di Dio e del mondo e del benedetto denaro e di come veniva trasportato.

“Si fida di te?”

“Sì.” E come a mostrarmi che razza di mafioso fosse, si frugò tra i denti con il dito.

“Non esagerare”, gli dissi indicando l’anello con un teschio che portava all’anulare destro.

“Questo?” Luigi si guardò l’anello come se avesse scoperto proprio in quel momento di averlo al dito. “Me l’ha regalato mia moglie.”

“I nazisti regalavano anelli come questo.”

“I nazisti? Non lo sapevo.”

Preparai l’operazione. Parlai con le unità speciali e richiesi elicotteri e veicoli corazzati, studiai il fascicolo di Max Leitner. Era bello grosso, era il sospettato principale di parecchie rapine a banche, tutte piccole filiali sprovviste di telecamere. Tre uomini facevano irruzione, tutti in tenuta militare e armati fino ai denti. Uno spingeva la borsa sul bancone, tenendo il mitra con la mano destra, gli altri restavano a distanza con le armi spianate e osservavano la situazione. Quando la borsa era piena – una borsa sportiva, senza alcun marchio riconoscibile – i criminali si precipitavano fuori, saltavano su un’auto parcheggiata di fronte all’ingresso e partivano. Nessuno dei vicini aveva mai notato nulla. Nessuno aveva notato l’auto, non risultavano multe per eccesso di velocità.

Da quando in Germania aveva iniziato a imperversare la RAF in molte città erano state montate telecamere nelle piazze e nelle strade pubbliche. Ma i comuni italiani non avevano soldi per congegni tecnici, e se anche li avessero avuti non ci sarebbe stato abbastanza personale per controllare i nastri… e neppure abbastanza prigioni. Qui in Alto Adige c’era il denaro ma non c’era la mafia. Le Brigate Rosse assaltavano le banche per procurarsi il denaro, e in Alto Adige ce n’era da portare via. Il forziere delle Brigate Rosse si stava riempiendo, e non solo quello: molti saltavano sul carro e procedevano in modo allegro e incosciente. Non avevamo nessuna registrazione video, l’unico indizio era la borsa sportiva, rossa o violetta con una striscia bianca, o azzurra o gialla. Non era proprio una striscia, ma un’onda, disse una cassiera e un’altra affermò che la borsa era a tinta unita, azzurra. La palestra non vendeva borse sportive.

Le armi facevano pensare a contatti con la mafia. I mitra non si trovano al supermercato e le armerie locali vendevano solo fucili da caccia. Furono condotte comunque indagini nei negozi, dopotutto ci sono anche gli accessori, fondine, borse. Ma anche questa debole traccia si perse nel nulla.

Invitai Sergio a prendere un caffè e gli domandai della famiglia di Luigi. Sergio fece una smorfia e mormorò qualche cosa su Predappio. Cercai di capire meglio. La famiglia di Luigi aveva il culto del Duce, già da bambini con il padre andavano in pellegrinaggio al suo paese natale e acquistavano i ritratti del dittatore.

Gli raccontai dell’anello. Sergio rimestò la schiuma di latte nel suo caffè. L’anello non significava nulla, disse, lo portavano in tanti, piaceva soprattutto ai motociclisti. Annuii, dissi che sosteneva di aver ricevuto l’anello in regalo da sua moglie. Sergio scosse la testa: sicuramente non dalla moglie, perché Luigi non era sposato. Nessuna restava con lui, le trattava troppo male.

Gli informatori non devono essere per forza simpatici.

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