Kitabı oku: «La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке», sayfa 2

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Canto V

 
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
4 Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
7 Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
10 vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
13 Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.
16 «O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
19 «guarda com’ entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?
22 Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
25 Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
28 Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
31 La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
34 Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
37 Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
40 E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
43 di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
46 E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’ io venir, traendo guai,
49 ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?».
52 «La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
55 A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
58 Ell’ è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.
61 L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.
64 Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combattèo.
67 Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.
70 Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
73 I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri».
76 Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
79 Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
82 Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate;
85 cotali uscir de la schiera ov’ è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
88 «O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
91 se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
94 Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
97 Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
100 Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
103 Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
106 Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
109 Quand’ io intesi quell’ anime offense,
china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».
112 Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
115 Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
118 Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
121 E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
124 Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
127 Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
130 Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
133 Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
136 la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
139 Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’ io morisse.
142 E caddi come corpo morto cade.
 

Canto VI

 
Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,
4 novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati.
7 Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.
10 Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.
13 Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
16 Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
19 Urlar li fa la pioggia come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.
22 Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
25 E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.
28 Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,
31 cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.
34 Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.
37 Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.
40 «O tu che se’ per questo ’nferno tratto»,
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».
43 E io a lui: «L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.
46 Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo, e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».
49 Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
52 Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
55 E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola.
58 Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
61 li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita».
64 E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.
67 Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
70 Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’adonti.
73 Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi».
76 Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: «Ancor vo’ che mi ’nsegni
e che di più parlar mi facci dono.
79 Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,
82 dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca».
85 E quelli: «Ei son tra l’anime più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.
88 Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo».
91 Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.
94 E ’l duca disse a me: «Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:
97 ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch’in etterno rimbomba».
100 Sì trapassammo per sozza mistura
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;
103 per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti
crescerann’ ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?».
106 Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.
109 Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta».
112 Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’i’ non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
115 quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
 

Canto VII

 
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
4 disse per confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia».
7 Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.
10 Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo».
13 Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.
16 Così scendemmo nella quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che ’l mal de l’universo tutto insacca.
19 Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’ io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?
22 Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa,
così convien che qui la gente riddi.
25 Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’ urli,
voltando pesi per forza di poppa.
28 Percoteansi ’ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».
31 Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
34 poi si volgea ciascun, quand’ era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
E io, ch’avea lo cor quasi compunto,
37 dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra».
40 Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.
43 Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.
46 Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio».
49 E io: «Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali».
52 Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni.
55 In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
58 Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.
61 Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabuffa;
64 ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’ anime stanche
non poterebbe farne posare una».
67 «Maestro mio», diss’ io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».
70 E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.
73 Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
76 distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
79 che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;
82 per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.
85 Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.
88 Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
91 Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;
94 ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.
97 Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta».
100 Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
sovr’ una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.
103 L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa.
106 In la palude va c’ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’ è disceso
al piè de le maligne piagge grige.
109 E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.
112 Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.
115 Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
e anche vo’ che tu per certo credi
118 che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’ acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.
121 Fitti nel limo dicon: «Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidioso fummo:
124 or ci attristiam ne la belletta negra».
Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra».
127 Così girammo de la lorda pozza
grand’ arco, tra la ripa secca e ’l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
130 Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.
 

Canto VIII

 
Io dico, seguitando, ch’assai prima
che noi fossimo al piè de l’alta torre,
li occhi nostri n’andar suso a la cima
4 per due fiammette che i vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno,
tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.
7 E io mi volsi al mar di tutto ’l senno;
dissi: «Questo che dice? e che risponde
quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno?».
10 Ed elli a me: «Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s’aspetta,
se ’l fummo del pantan nol ti nasconde».
13 Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l’aere snella,
com’ io vidi una nave piccioletta
16 venir per l’acqua verso noi in quella,
sotto ’l governo d’un sol galeoto,
che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!».
19 «Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto»,
disse lo mio segnore, «a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto».
22 Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegiàs ne l’ira accolta.
25 Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece entrare appresso lui;
e sol quand’ io fui dentro parve carca.
28 Tosto che ’l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l’antica prora
de l’acqua più che non suol con altrui.
31 Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».
34 E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango».
37 E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».
40 Allor distese al legno ambo le mani;
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!».
43 Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi ’l volto e disse: «Alma sdegnosa,
benedetta colei che ’n te s’incinse!
46 Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furiosa.
49 Quanti si tegnon or là su gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!».
52 E io: «Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago».
55 Ed elli a me: «Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disio convien che tu goda».
58 Dopo ciò poco vid’ io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
61 Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.
64 Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
per ch’io avante l’occhio intento sbarro.
67 Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
s’appressa la città c’ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo».
70 E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
73 fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno».
76 Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.
79 Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò: «qui è l’intrata».
82 Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
85 va per lo regno de la morta gente?».
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
88 Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno.
91 Sol si ritorni per la folle strada:
provi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada».
94 Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.
97 «O caro duca mio, che più di sette
volte m’hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
100 non mi lasciar», diss’ io, «così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto».
103 E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
106 Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».
109 Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.
112 Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
115 Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.
118 Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
«Chi m’ha negate le dolenti case!».
121 E a me disse: «Tu, perch’ io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’a la difension dentro s’aggiri.
124 Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
127 Sovr’ essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
130 tal che per lui ne fia la terra aperta».
 

Canto IX

 
Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.
4 Attento si fermò com’ uom ch’ascolta;
ché l’occhio nol potea menare a lunga
per l’aere nero e per la nebbia folta.
7 «Pur a noi converrà vincer la punga»,
cominciò el, «se non… Tal ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».
10 I’ vidi ben sì com’ ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
13 ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’ io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
16 «In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?».
19 Questa question fec’ io; e quei «Di rado
incontra», mi rispuose, «che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado.
22 Ver è ch’altra fiata qua giù fui,
congiurato da quella Eritón cruda
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
25 Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’ a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
28 Quell’ è ’l più basso loco e ’l più oscuro,
e ’l più lontan dal ciel che tutto gira:
ben so ’l cammin; però ti fa sicuro.
31 Questa palude che ’l gran puzzo spira
cigne dintorno la città dolente,
u’7 non potemo intrare omai sanz’ ira».
34 E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,
37 dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
40 e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
43 E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
46 Quest’ è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.
49 Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.
52 «Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Teseo l’assalto».
55 «Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
58 Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
61 O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.
64 E già venìa su per le torbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
67 non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’ alcun rattento
70 li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
73 Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo».
76 Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,
79 vid’ io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
passava Stige con le piante asciutte.
82 Dal volto rimovea quell’ aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’ angoscia parea lasso.
85 Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.
88 Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.
91 «O cacciati del ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’ esta oltracotanza in voi s’alletta?
94 Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia?
97 Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».
100 Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d’omo cui altra cura stringa e morda
103 che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
sicuri appresso le parole sante.
106 Dentro li ’ntrammo sanz’ alcuna guerra;
e io, ch’avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
109 com’ io fui dentro, l’occhio intorno invio:
e veggio ad ogne man grande campagna,
piena di duolo e di tormento rio.
112 Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’ a Pola, presso del Carnaro
ch’Italia chiude e suoi termini bagna,
115 fanno i sepulcri tutt’ il loco varo,
così facevan quivi d’ogne parte,
salvo che ’l modo v’era più amaro;
118 ché tra li avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun’ arte.
121 Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n’uscivan sì duri lamenti,
che ben parean di miseri e d’offesi.
124 E io: «Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell’ arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti?».
127 E quelli a me: «Qui son li eresiarche
con lor seguaci, d’ogne setta, e molto
più che non credi son le tombe carche.
130 Simile qui con simile è sepolto,
e i monimenti son più e men caldi».
E poi ch’a la man destra si fu vòlto,
133 passammo tra i martìri e li alti spaldi.
 
7.u’ – сокращение от лат. «ubi» (где); в совр. языке «dove»
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
07 ekim 2021
Yazıldığı tarih:
1320
Hacim:
340 s. 1 illüstrasyon
ISBN:
978-5-9925-1285-4
Telif hakkı:
КАРО
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Metin
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