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Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 7», sayfa 8

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AVVERTIMENTO
apposto dal Traduttore Pisano al Capitolo XXXIII del Gibbon

Eccoci al termine della promessa traduzione di ciò, che è stato pubblicato finora dal Sig. Eduardo Gibbon intorno alla Storia della decadenza dell'Impero Romano. Il Lettore avrà certamente ammirato in quest'opera una erudizione estesa e profonda, uno stile nervoso e vivace, e nell'Autore di essa una mente capace di cose grandi. Auguriamo pertanto al medesimo vita ed ozio per ultimarla; ma lo esortiamo ad essere nel tempo stesso più rispettoso per la Religione divina di Gesù Cristo, e per gl'illustri Campioni che la sostennero coi loro scritti immortali, colla Santità della vita, e bene spesso col proprio sangue. Nuocerà sempre alla fama di uno Scrittore, che parla sovente di una Religione, la quale teme soltanto di non essere ben conosciuta, il mostrare appunto di non conoscerla, e molto più il ravvisarla. Se ciò debba dirsi del Sig. Gibbon si può rilevare da molte annotazioni o staccate od in forma di lettera, che abbiamo fatte negli otto precedenti volumi, e singolarmente dalla solida Confutazione in 2 Tomi in 4.º del Sig. Ab. Niccola Spedalieri, a cui parimenti appartiene il Saggio, da noi inserito nel Tomo terzo. In quest'ultimo Tomo l'A. Inglese sfoga l'antico livore nazionale non tanto contro dei Monaci, quanto contro la stessa primitiva istituzione del Monachismo: e con intollerabile ardire ispira dei dubbi intorno al domma della Trinità Sacrosanta; quasi che mancandoci il memorabile Testo di S. Giovanni321 = Tres sunt qui testimonium dant in coelo Pater, Verbum, et Spiritus S., et hi tres unum sunt = non se ne avesse altra prova. Coloro che son versati nelle scienze sacre, ed ai quali non sono ignote le opere dei Bull, dei Bianchini, de' Maffei, Calmet ec. non hanno bisogno dei nostri lumi per condannare una critica sì sfrenata. Per gli altri che amano la brevità in cotal genere di discussioni, più delle nostre, abbiamo creduto opportune le riflessioni fatte sopra i due articoli sopraccennati da Monsignor Claudio Fleury322, Autore citato più volto dal Sig. Gibbon, ed a cui non può darsi la taccia di superstizioso o di credulo senza ingiustizia. Ecco pertanto ciò che egli dice dei Monaci primitivi323.

Dopo i Martiri viene uno spettacolo egualmente maraviglioso, e sono i Solitari. Comprendo sotto questo nome i Monaci, gli Anacoreti, e quelli, che nei primi tempi si chiamavano Asceti. Questi si ponno dir Martiri della penitenza, e le lor sofferenze son tanto più maravigliose, quanto più volontarie e più lunghe; poichè in luogo di un supplizio di poche ore, essi hanno portata fedelmente la loro Croce per lo spazio di cinquanta, o sessant'anni. Trattando di essi, mi sono esteso forse troppo, se considero il gusto degli Eruditi, o de' curiosi, che poco valutano l'orazione, e le pratiche di pietà. Credo per altro, che la vita dei Santi formi una gran parte della Storia Ecclesiastica, e risguardo questi Santi Solitari come il modello della perfezione Cristiana. Essi erano veri Filosofi, come sovente gli chiama l'antichità. Si separavano dal Mondo per meditare le cose celesti; non come quegli Egiziani descritti da Porfirio324, che sotto un sì gran nome non intendevano altro, che la Geometria325, o l'Astronomia: nè come i Filosofi Greci, che si ritiravano per ricercare i segreti della natura, per ragionare sulla morale, o per disputare del Sommo Bene, e della distinzione delle virtù.

I Monaci (ricordevoli dei detti della incarnata Sapienza eterna, incontro a cui altro non sono che importuni gracidatori i Filosofanti del secolo) rinunziavano al Matrimonio, e alla Società degli uomini, per liberarsi dall'imbarazzo degli affari, e dalle tentazioni che sono inevitabili nel commercio del Mondo; per pregare, cioè contemplare la grandezza di Dio, meditare i suoi benefizi e i precetti della santa sua Legge e purificare il lor cuore. Tutto il loro studio era la Morale, cioè a dire la pratica delle virtù: non si disputava, non si disprezzava alcuno, e appena si parlava. Ascoltavano con docilità le istruzioni de' loro Anziani; parecchi non sapevano neppur leggere, e meditavano la Scrittura sulle lezioni che avevano sentite. Si nascondevano dagli uomini, per quanto potevano, non cercando che di piacere a Dio. La sola fama delle loro virtù e spesso de' lor miracoli gli faceva conoscere: e noi non sapremmo neppure per la maggior parte, che essi fossero stati al Mondo, se Dio non avesse suscitati dei curiosi326, come Rufino e Cassiano, che sono andati a cercarli nel fondo delle loro solitudini, e gli han sforzati a parlare.

Del restante non possono esser sospetti di alcuna specie d'interesse. Si riducevano a una estrema povertà; guadagnavano col lavoro il poco, che lor bisognava per vivere; e degli avanzi facevan limosina. Taluni avevano delle eredità, che coltivavano colle proprie mani: ma i più perfetti temevano, che l'amministrazione delle masserie e delle rendite non gli facesse ricadere nell'imbarazzo degli affari che avevano abbandonato; e preferivano i lavori semplici e sedentari per vivere alla giornata. Talvolta ricevevano delle limosine per supplire alla tenuità de' loro guadagni: non vedo per altro che ne dimandassero. Erano fedeli alle osservanze e consideravano come essenziali la stabilità ed il lavoro delle mani. Ciascun Monaco stava attaccato alla sua Comunità e ciascun Anacoreta alla sua Cella, sempre che ragioni ben forti non gli costringessero a uscirne: perchè nulla è tanto contrario alla orazione perfetta ed alla purità del cuore, che si eran proposta, quanto la leggierezza e la curiosità327. Nel tener lontana la moltitudine de' pensieri, ed in rendere la loro anima stabile e tranquilla si prendevano una tal cura, che schivavano fino i luoghi di bella vista, e le piacevoli abitazioni; e se la passavano la maggior parte del tempo rinserrati nelle loro cellette. Stimavano necessario il lavoro non solo per non essere di aggravio ad alcuno, ma anco per conservare l'umiltà e per fuggire la noia.

Le comunità erano numerose328, e si aveva per massima di non moltiplicarle in un medesimo luogo; sì per la difficoltà di trovar Superiori, come anco per ischivare la gelosia e le divisioni. Ogni Comunità era governata dal suo Abate; e talvolta vi era un Superior Generale che aveva la soprintendenza a molti Monasteri, sotto il nome di Esarco, di Archimandrita, o altro simile: erano però tutti sotto la giurisdizione de' Vescovi, e in allora non si parlava di esenzione. I Monaci non facevano un Corpo a parte distinto da quello de' Secolari e del Clero, senza passare dall'uno all'altro. Era cosa ordinaria il prendere i più santi tra' Monaci, per farli Sacerdoti e Chierici. I Monasteri erano un fondo, in cui i Vescovi erano sicuri di trovar soggetti eccellenti; e gli Abati preferivano di buon grado il vantaggio generale della Chiesa al particolare della loro Comunità329. Tali erano i Monaci tanto celebrati da S. Gio. Grisostomo, da S. Agostino e da tutti i Padri; ed il loro istituto ha continuato, come si vedrà in seguito, per molti secoli a cagione della sua purità. Tra essi principalmente si conservò la pratica della pietà più sublime, e descritta negli Autori i più antichi dopo gli Apostoli330, come nel libro del Pastore, e in Clemente Alessandrino, specialmente nella descrizione, che questi fa del vero contemplativo, da esso chiamato Gnostico. Questa pietà interiore, che sul principio era più comune tra' Cristiani, coll'andar del tempo si rinserrò quasi tutta ne' Monasteri. Un giusto numero di tali Monaci, da prescriversi da coloro, che Dio destina al governo dei Popoli, ed alla protezione e difesa di S. Chiesa sarà sempre uno degli ornamenti della medesima non meno, che di uno Stato cristiano.

Dopo la disciplina (prosiegue l'illustre Scrittore)331 consideriamo anche la dottrina degli Antichi, sì riguardo alla sua sostanza, come alla maniera, con cui s'insegnava. La dottrina in sostanza è quella stessa, che noi crediamo ed insegniamo al presente: avete potuto vederla dagli estratti de' Padri, che ho riferiti, e la vedrete ancor meglio, consultando in fonte le loro opere. Essi hanno primieramente stabilita la Monarchia, cioè l'Unità di Principio sì contro i Pagani, avvezzi ad immaginarsi più Deità, come ancora contro certi Eretici quali erano i Marcioniti e i Manichei, che imbarazzati in trovar la cagione del male, mettevano due principj indipendenti l'uno dall'altro, l'uno buono e l'altro cattivo.

La Trinità è provata contro i Sabelliani, gli Arriani e i Macedoniani. Non già che si sia spiegato questo Mistero, che è incomprensibile alla nostra fiacca ragione; ma si è solo mostrata la necessità di crederlo. È certo che Gesù Cristo è stato sempre adorato dai Cristiani come loro Dio. Ciò si vede dalle Apologie332, dagli Atti de' Martiri, e dalle testimonianze de' Pagani medesimi; come dalla lettera di Plinio a Traiano, e dalle obbiezioni di Celso e di Giuliano l'Apostata. È certo altresì, che i Cristiani hanno sempre adorato un solo Dio: dunque Gesù Cristo è un Dio stesso col Padre Creatore dell'Universo. È certo pure, che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, e che uno non può essere insieme Padre e Figlio, riguardo a se stesso; il che viene con gran forza dimostrato da Tertulliano contro Prassea. Se così fosse, il discorso di Gesù Cristo sarebbe assurdo e insensato, allorchè dice, che egli procede dal Padre; che il Padre l'ha mandato; che il Padre e lui non sono che una sostanza. Sarebbe lo stesso che dire: Io procedo da me; io ho mandato me stesso; io ed io siamo una sola sostanza. Non può dunque darsi a queste parole altro senso, se non dicendo, che Gesù Cristo è una Persona distinta dal Padre, benchè sia il medesimo Dio. La sua autorità basta per farci credere, ch'ella è così, quantunque non possiamo comprenderne il come.

Il Figlio, essendo Dio, deve esser perfettamente eguale, e perfettamente simile al Padre, e ciò è stato provato contro gli Arriani: altrimenti sarebbero due Dei: un grande e un piccolo: e questo non sarebbe in effetto se non se una creatura, quantunque, perfetta voglia supporsi, e sempre inferiore a quella, che ci dà la Scrittura del figlio di Dio. Contro i Macedoniani,333 che ammettevano la Divinità del Figlio, e negavano quella dello Spirito Santo, è stato mostrato, che lo Spirito Santo procede dal Padre, ed è mandato dal Padre egualmente che il Figlio; ma che egli è persona distinta dal Figlio, poichè in nessun luogo si dice, ch'Egli sia Figlio, o che sia generato. Egli è pur nominato nella forma del battesimo: andate, battezzate in nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo. Dunque questo è una terza Persona, ma il medesimo Dio.

In tal guisa i Padri hanno provato il Mistero della Trinità. Non con ragioni filosofiche, ma coll'autorità della Scrittura, e della Tradizione. Non con principii metafisici, da' quali si suol conchiudere, che la cosa debba esser così; ma colle parole espresse di Gesù Cristo, e colla pratica costante di adorar il Figlio assieme col Padre, e di glorificare lo Spirito Santo assieme col Padre e col Figlio. È vero tuttavolta che hanno ragionato molto sopra tal mistero; perchè a questo venivano sforzati dagli Eretici, che impiegavano tutta la sottigliezza dell'umano discorso per rovesciarlo. Quindi nasce, che i Padri si sono spiegati in varie guise, giusta la diversità delle obbiezioni che volevano sciogliere. Bisognava parlare in una maniera co' Pagani, nell'altra cogli Eretici, ed in maniere diverse con ciascun Eretico in particolare: e questa diversità di espressioni, di cui i Padri hanno dovuto servirsi secondo i tempi e le congiunture, ha incitato qualche moderno ad abbandonare con troppa leggierezza i Padri Anteniceni per ciò che riguarda la presente materia della Trinità. Credo per altro di aver date ne' miei dieci primi libri quelle notizie, che bastano per giustificare a sufficienza questi Padri.

PREFAZIONE DELL'AUTORE334

Adempisco presentemente la mia promessa, e conduco a termine il disegno che mi son proposto di scriver l'Istoria della Decadenza e Rovina del Romano Impero, tanto in Occidente quanto in Oriente. S'estende tutto il periodo di essa dal tempo di Traiano e degli Antonini, fino alla presa di Costantinopoli fatta da Maometto secondo; e include un ragguaglio delle Crociate, e dello Stato di Roma ne' secoli di mezzo. Son passati dodici anni, da che fu pubblicato il primo Volume di quest'Opera: dodici anni, secondo il mio desiderio, = di salute, di ozio, e di costante applicazione335 =. Ora posso meco stesso congratularmi d'essermi liberato da un lungo e laborioso dovere, e sarà pura e perfetta la mia soddisfazione, se fino al termine dell'Opera mi continuerà il favore del Pubblico.

La mia prima intenzione fu di riunire sotto un sol punto di vista i molti Autori d'ogni secolo e linguaggio, da' quali ho tratto i materiali di questa Storia; e sono tuttavia persuaso, che quest'apparente ostentazione si sarebbe più che compensata dall'utilità reale di essa. Che se ho rinunziato a tale idea, se ho evitato un'impresa, che ha incontrato l'approvazione di un Maestro dell'arte336, io posso trovar la mia scusa nell'estrema difficoltà di assegnare una giusta misura ad un catalogo di questa sorta. Una semplice lista de' nomi e dell'edizione non avrebbe soddisfatto nè me stesso, nè i miei Lettori; i caratteri de' principali scrittori dell'Istoria Romana e Bizantina si sono annessi opportunamente ai fatti, ch'essi descrivono; ed una ricerca più copiosa e più critica, quale in vero meriterebbero, avrebbe richiesto un elaborato volume, che appoco appoco sarebbe divenuto una general biblioteca d'Istorici. Per ora dunque mi contenterò di rinnovar le mie serie proteste, che ho procurato sempre di attignere dalle prime sorgenti; che la mia curiosità, non meno che un sentimento di dovere, mi ha sempre stimolato a studiare gli originali; e che se qualche volta ciò non mi è riuscito, ho esattamente notato quella secondaria testimonianza, dall'autorità di cui dipendeva il passo o l'avvenimento, di che si trattava.

Io presto rivedrò le rive del lago di Losanna, paese a me noto e caro fin dalla mia prima gioventù. Sotto un Governo dolce, in un'amena regione, in una vita d'ozio e d'indipendenza, ed in mezzo a un Popolo di costumi facili ed eleganti, ho goduto, e posso tuttavia sperar di godere, i variati piaceri del ritiro e della società. Ma io mi glorierò sempre del nome e del carattere d'Inglese: sono altero della mia nascita in un paese libero ed illuminato, e l'approvazione di esso è il migliore e più onorevole premio delle mie fatiche. Se ambissi altro patrocinio, che quello del Pubblico, dedicherei quest'Opera ad un Ministro di Stato, che in una lunga, procellosa, ed alla fine infelice amministrazione ebbe molti politici contraddittori, senza quasi un nemico personale; che nel cadere dalla potenza ha conservato molti amici fedeli e disinteressati; e che oppresso da una dura infermità gode il pieno vigore della sua mente, e la felicità dell'incomparabile suo naturale. Lord North mi permetterà d'esprimere nel linguaggio della verità i sentimenti dell'amicizia: ma sì la verità, che l'amicizia tacerebbero, s'ei dispensasse ancora i favori della Corona.

In una remota solitudine può la vanità pur sussurrarmi all'orecchio, che i miei Lettori forse dimanderanno, se giunto al fine di quest'Opera, io do loro un perpetuo addio. Dirò tutto quello, che so io medesimo, e che potrei confidare al più intimo de' miei amici: presentemente hanno ugual peso i motivi tanto d'agire, quanto di restare in quiete, nè consultando i miei più segreti pensieri, posso decidere da qual parte sia per preponderar la bilancia. Io non posso dissimulare, che sei gran tomi in quarto debbono aver esercitato, e possono aver esaurito l'indulgenza del Pubblico; che nel reiterare simili prove un Autore, che ha avuto un successo felice, corre molto più il rischio di perdere, di quel che possa sperare di guadagnare; che io vado presentemente a declinare negli anni; e che i più rispettabili fra' miei Nazionali, quegli che io desidero d'imitare, giunti presso a poco al medesimo periodo della lor vita, han tralasciato di scriver l'Istoria. Ciò non ostante io rifletto, che gli Annali de' tempi antichi e moderni possono somministrar molti ricchi ed interessanti soggetti; che io tuttavia ho della salute e del comodo; che mediante l'uso di scrivere deesi acquistare qualche facilità e perizia, e che nell'ardente investigazione della verità e delle cognizioni, non mi sono accorto d'alcuna decadenza. Per uno spirito attivo è più penosa l'indolenza che la fatica; le ricerche però di gusto e di curiosità occuperanno e divertiranno i primi mesi della mia libertà. Queste tentazioni mi hanno qualche volta deviato dal rigoroso dovere anche d'una piacevole e volontaria impresa: ma ora il mio tempo sarà tutto a mia disposizione, e nell'uso o abuso, che farò dell'indipendenza, io non temerò più i rimproveri nè di me stesso, nè de' miei amici. Io giustamente pretendo un anno di Giubbileo: presto passeranno la prossima state, e l'inverno seguente; e la sola esperienza potrà decidere, se io preferirò la libertà e variabilità di studiare, al disegno ed alla composizione d'un'opera regolare, che anima la quotidiana applicazione dell'Autore nel tempo che la ristringe a certi confini. Possono influire sulla mia scelta il capriccio ed il caso; ma tale è la destrezza dell'amor proprio che sempre saprà applaudire all'attiva mia industria, od al filosofico mio riposo.

Downing-Street.
Primo Maggio 1788.

P. S. Prenderò qui l'occasione di far due osservazioni quanto all'uso delle parole, che io finora non ho sufficientemente avvertito: 1. Ogni volta che io mi servo dell'espressioni di là dalle Alpi, dal Reno, dal Danubio ec., generalmente suppongo di trovarmi a Roma, e di poi a Costantinopoli, senza fare attenzione, se questa relativa Geografia possa convenire o no alla locale variabile situazione del Lettore, o dell'Istorico. 2. Ne' nomi propri d'origine straniera, specialmente orientale, sarebbe sempre mio disegno di esprimere nella versione Inglese una copia fedele dell'originale. Ma spesso conviene abbandonar questa regola, che si fonda sopra un giusto riguardo per l'uniformità e la verità; quindi se ne limiteranno, o estenderanno l'eccezioni, secondo l'uso della lingua ed il genio dell'interpetre. Sovente i nostri alfabeti possono esser mancanti: un suono duro, un'ingrata distribuzione di lettere potrebbe offender l'orecchio o l'occhio de' nostri Nazionali; ed alcune parole, manifestamente corrotte, si sono stabilite, e quasi naturalizzate nella lingua volgare. Il Profeta Mohammed, per esempio, non si può spogliar più del famoso, quantunque improprio nome di Maometto; non si riconoscerebbero quasi più le notissimo Città d'Aleppo, di Damasco, e del Cairo nelle strane denominazioni di Haleb, Damashk, ed Al Cahira; si son formati i Titoli e gli Ufizi dell'Impero Ottomano dalla pratica di trecento anni; ed ormai siamo soliti d'unire i tre Monosillabi Chinesi Con-fu-tzee nel rispettabile nome di Confucio, come pure di adottare la corruzion Portughese di Mandarino. Io però sono inclinato a variare l'uso di Zoroastro e di Zerdusht a misura che ho tratto le mie notizie dalla Grecia o dalla Persia; dopo il nostro commercio coll'Indie, si è restituito al trono di Tamerlano il genuino Timour; i nostri più corretti Scrittori hanno tolto dal Koran il superfluo articolo Al; ed adottando la voce Moslem invece di Musulmano, evitiamo nel numero plurale un'ambigua terminazione337. In questi, ed in mille altri esempi son troppo minute le cause della distinzione fra un vocabolo e l'altro; ma, se non posso esprimerli, sento i motivi della mia scelta.

CAPITOLO XXXIX

Zenone ed Anastasio, Imperatori d'Oriente. Nascita, educazione, e prime imprese di Teodorico Ostrogoto. Sua invasione e conquista d'Italia. Regno in Italia de' Goti. Stato dell'Occidente. Governo militare e civile. Senatore Boezio. Ultime azioni e morte di Teodorico.

Dopo la caduta del Romano Impero in Occidente, gli oscuri nomi, e gl'imperfetti Annali di Zenone, d'Anastasio e di Giustino, che l'un dopo l'altro montarono sul trono di Costantinopoli, debolmente segnano l'intervallo di cinquant'anni fino al memorabile Regno di Giustiniano. Nel medesimo periodo risorse e fiorì l'Italia sotto il governo d'un Re Goto, che avrebbe potuto meritare una statua fra' migliori e più valorosi degli antichi Romani.

Teodorico l'Ostrogoto, ch'era il decimoquarto nella discendenza della stirpe reale degli Amali338, era nato nelle vicinanze di Vienna339 due anni dopo la morte d'Attila. Una recente vittoria aveva restituito l'indipendenza agli Ostrogoti; ed i tre fratelli Walamiro, Teodemiro e Widimiro, che unitamente governavano quella guerriera Nazione, avevano separatamente stabilito le loro sedi nella fertile, quantunque desolata Provincia della Pannonia. Gli Unni tuttavia minacciavano i ribelli lor sudditi; ma fu rispinto il precipitoso loro attacco dalle sole forze di Walamiro, e giunsero le nuove di tal vittoria al campo lontano del suo fratello in quell'istesso fausto momento, in cui la concubina favorita di Teodemiro gli aveva partorito un figlio ed erede. Teodorico nell'ottavo anno della sua età, fu dal padre con ripugnanza rilasciato pel pubblico interesse come ostaggio d'un'alleanza, che Leone Imperatore di Oriente aveva comprato per un annuo sussidio di trecento libbre d'oro. Fu educato il Reale ostaggio a Costantinopoli con premura ed affetto. S'assuefece il suo corpo a tutti gli esercizi della guerra, si dilatò il suo spirito per l'uso d'una culta conversazione, frequentò le scuole de' più abili Maestri; ma sdegnò o trascurò le arti della Grecia, e restò sempre tanto ignorante ne' primi elementi delle lettere, che fu inventato un rozzo istrumento per far la sottoscrizione dell'idiota Re d'Italia340. Giunto all'età di diciotto anni, fu restituito a' desiderj degli Ostrogoti, che l'Imperatore cercava di guadagnare per mezzo della liberalità e della confidenza. Walamiro era morto in battaglia; Widimiro, fratello minore, aveva condotto in Italia e nella Gallia un'armata di Barbari, e tutta la Nazione riconosceva per Re il padre di Teodorico. I feroci di lui sudditi ammirarono la forza e la statura del giovine loro Principe341: ed ei tosto provò loro, che non avea punto degenerato dal valore de' suoi Antenati. Alla testa di seimila volontari partì segretamente dal campo, andando in cerca di avventure, discese il Danubio fino a Singiduno o Belgrado, ed in breve tornò da suo padre con le spoglie d'un Re Sarmata, ch'egli aveva vinto ed ucciso. Tali trionfi però non producevano altro che gloria, e gl'invincibili Ostrogoti eran ridotti ad un'estrema angustia per mancanza di vesti e di cibo. Di comun consenso dunque risolvettero d'abbandonare i loro accampamenti Pannonici, e d'avanzarsi arditamente verso le temperate e ricche vicinanze della Corte Bizantina, che già manteneva nell'orgoglio e nel lusso tante altre truppe di Goti ad essa confederati. Dopo d'aver provato con alcuni atti d'ostilità ch'essi potevano esser pericolosi nemici, o almeno molesti, gli Ostrogoti venderono ad un alto prezzo la loro riconciliazione e fedeltà; accettarono un donativo di terre e di denaro; e fu loro confidata la difesa del basso Danubio sotto il comando di Teodorico, il quale dopo la morte di suo padre successe al trono ereditario degli Amali342.

Un Eroe, proveniente da una stirpe di Regi, dovea disprezzare quel basso Isauro, che fu investito della porpora Romana senz'alcuna dote di spirito o di corpo, e senz'alcuna prerogativa di nascita Reale, o di sublimi qualità. Mancata la linea di Teodosio, potè in qualche modo giustificarsi la scelta di Pulcheria e del Senato da' caratteri di Marciano e di Leone; ma quest'ultimo stabilì e disonorò il suo Regno mediante la perfida uccisione d'Aspar e de' suoi figli, che troppo a rigore esigevano il debito della gratitudine e dell'ubbidienza. L'eredità di Leone e dell'Oriente passò pacificamente nel piccolo di lui nipote, figlio d'Ariadne sua figlia; ed il fortunato Isauro Trascalisseo di lei marito, mutò quel barbaro suono nel Greco nome di Zenone. Dopo la morte del vecchio Leone, s'accostò egli con rispetto non naturale al trono del proprio figlio, umilmente ricevè, come un dono il secondo posto nell'Impero, e tosto eccitò il pubblico sospetto sopra una subitanea ed immatura morte del giovine suo Collega, la vita del quale non poteva più oltre portare in alto la sua ambizione. Ma l'autorità donnesca regolava il suo Palazzo di Costantinopoli, e lo agitavano le femminili passioni: Verina, vedova di Leone, risguardando come suo proprio l'Impero, pronunziò una sentenza di deposizione contro l'indegno ed ingrato servo, al quale aveva ella sola dato lo scettro d'Oriente343. Appena risuonò alle orecchie di Zenone il nome di ribellione, ei fuggì precipitosamente nelle montagne d'Isauria, ed il servile Senato concordemente proclamò Basilisco, di lei fratello, già infamato dalla sua spedizione affricana344. Il Regno però dell'usurpatore fu breve e turbolento. Basilisco pretese d'assassinare l'amante della sua sorella, ed ardì d'offendere l'amante della sua moglie, il vano ed insolente Armazio, che in mezzo al lusso asiatico affettava l'abito, il portamento, ed il soprannome d'Achille345. Cospirando fra loro i malcontenti, richiamarono Zenone dall'esilio; furon tradite le armate, la Capitale, e la persona di Basilisco; e tutta la sua famiglia fu condannata alla lunga agonia del freddo e della fame dall'inumano conquistatore, che non aveva coraggio nè di far fronte, nè di perdonare a' propri nemici. Il superbo spirito di Verina era tuttavia incapace di sommissione, o di riposo. Essa provocò l'inimicizia d'un General favorito, ne abbracciò la causa tosto ch'egli cadde in disgrazia, creò un nuovo Imperatore in Siria ed in Egitto, levò un esercito di settantamila uomini, e continuò sino all'ultimo istante della sua vita in una inutile ribellione, che secondo l'uso di quel tempo, era stata predetta dagli Eremiti Cristiani, e dai Magi del Paganesimo. Nel tempo che le passioni di Verina affliggevan l'Oriente, Ariadne sua figlia distinguevasi con le femminili virtù della dolcezza e della fedeltà; seguitò questa nell'esilio il proprio marito, e dopo il suo ritorno al trono implorò la clemenza di lui in favor della madre. Morto Zenone, Ariadne, figlia, madre e vedova d'Imperatori, diede la mano, ed il titolo Imperiale ad Anastasio, vecchio domestico del Palazzo, che sopravvisse più di ventisette anni al suo innalzamento, e di cui si dimostra il carattere da quest'acclamazione del Popolo: «Regna come hai vissuto346».

Tuttociò, che potea suggerir l'affezione o il timore, fu a larga mano da Zenone profuso al Re degli Ostrogoti, come il posto di Patrizio e di Console, il comando delle truppe Palatine, una statua equestre, un tesoro di più migliaia di libbre d'oro e d'argento, il nome di figlio, e la promessa di una ricca ed onorevole moglie. Finattantochè Teodorico si contentò di servire, sostenne con fedeltà e coraggio la causa del suo benefattore: la rapida marcia di esso contribuì al restauramento di Zenone: e nella seconda ribellione i Walamiri, come solevan chiamarsi, inseguirono e strinsero i ribelli Asiatici in modo, che procurarono alle truppe Imperiali un'agevol vittoria347. Ma questo fedel servo ad un tratto si mutò in un formidabil nemico, ch'estese le fiamme della guerra da Costantinopoli fino all'Adriatico: furono ridotte in cenere molte floride Città e fu quasi distrutta l'agricoltura della Tracia dalla barbara crudeltà de' Goti, che tagliavano a' contadini lor prigionieri la mano destra, con cui guidavan l'aratro348. In tali occasioni toccò a Teodorico l'alto e patente rimprovero d'infedeltà, d'ingratitudine e d'insaziabile avarizia, che non si potrebbe scusare, se non dalla dura necessità della sua situazione. Regnava egli non come Monarca, ma come Ministro di un feroce Popolo, di cui lo spirito non era domato dalla schiavitù, e che non soffriva insulti nè reali, nè immaginari. N'era incurabile povertà, la mentre venivano tosto dissipati i donativi più generosi in un eccessivo lusso, e divenivano sterili i più fertili Stati nelle lor mani; gli Ostrogoti disprezzavano, sebbene invidiassero, i laboriosi Provinciali; e quando mancava loro la sussistenza, ricorrevano ai soliti espedienti della guerra, e della rapina. Il desiderio di Teodorico (secondo almeno la sua protesta) sarebbe stato quello di menare una vita pacifica, oscura, e sommessa ne' confini della Scizia; ma la Corte di Bizanzio l'indusse con splendide e fallaci promesse ad attaccare una tribù confederata di Goti, che s'erano impegnati nel partito di Basilisco. Marciò dunque dai suoi quartieri nella Mesia, essendo stato solennemente assicurato, che prima di giungere ad Adrianopoli avrebbe incontrato un abbondante convoio di provvisioni, ed un rinforzo di ottomila cavalli, e di trentamila fanti, mentre le Legioni dell'Asia erano accampate ad Eraclea per secondare le sue operazioni. Furono però sconcertate queste misure dalla reciproca gelosia. All'avanzarsi che fece il figlio di Teodemiro nella Tracia, trovò un'inospita solitudine, ed i Goti, suoi seguaci, con un grave bagaglio di cavalli, di muli, e di carri vennero, per inganno delle loro guide, condotti fra le rupi ed i precipizi del Monte Sondis, dove fu egli assalito dalle armi e dalle invettive di Teodorico, figlio di Triario. Da una vicina eminenza il suo artificioso rivale arringava il campo de' Walamiri, ed infamava il lor Capitano con gli obbrobriosi nomi di fanciullo, di pazzo, di traditore spergiuro, e di nemico del proprio sangue, e della sua nazione. «Non sapete voi (gridava il figlio di Triario) che la costante politica de' Romani è quella di distruggere i Goti con le lor proprie spade? Non vedete, che quegli di noi, che in questo non natural combattimento resterà vincitore, sarà esposto, e giustamente invero, all'implacabile loro vendetta? Dove son que' guerrieri, miei e tuoi propri congiunti, le vedove de' quali ora si lagnano, che sacrificarono le loro vite alla tua temeraria ambizione? Dov'è la ricchezza, che avevano i tuoi soldati, quando, partendo dalle native lor case, principiarono ad arruolarsi sotto le tue bandiere? Ciascheduno di essi aveva in quel tempo tre o quattro cavalli; ora ti seguitano a piedi come schiavi pei deserti della Tracia quegli, che tentati furono dalla speranza di misurar l'oro a staio, quei bravi uomini, che son liberi e nobili come tu stesso». Un linguaggio così adattato all'indole de Goti, eccitò il clamore ed il malcontento; ed il figlio di Teodemiro, temendo di restar solo, fu costretto ad abbracciare i suoi fratelli, e ad imitare l'esempio della perfidia romana349.

321.I. Joan. Cap. 5 N. 7.
322.Discors. 2 sopra la Stor. Eccl.
323.§. 3 al luog. cit.
324.Porph. de Vita Pitag.
325.Trattato degli Studi n. 4.
326.Hist. l. XX n. 3.
327.Cass. Coll. 24 Ist. XX n. 6.
328.S. Basil. reg. fus. n. 35.
329.Ist. l. XIX n. 8 n. 17.
330.Ist. l. 2 n. 44 l. IV. 41.
331.§. XI.
332.Ist. l. III n. 19. XV n. 45.
333.Ist. l. XIV n. 31 Athan. ad Serap.
334.I tre ultimi volumi in 4.º dell'Opera di E. Gibbon uscirono in luce nel 1788. In fronte ad essi vi sta la Prefazione che qui si legge che della Opera intera formava sei volumi in 4.º
335.Vedi la Prefazione dell'Autore al Volume I di quest'Opera in fine.
336.Vedi la Prefazione del Dott. Robertson alla sua Storia d'America.
337.Quest'osservazione ha luogo quanto alla Lingua Inglese, non già quanto all'Italiana.
338.Giornandes (de reb. Getic. c. 13, 14 pag. 629, 630 Edit. Grot.) ha tratto l'origine di Teodorico da Gapt, uno degli Ansi o Semidei, che visse verso il tempo di Domiziano. Cassiodoro, ch'è il primo, che celebri la stirpe Reale degli Amali (Var. VIII 5, IX 25, X 2, XI 1) conta il nipote di Teodorico per decimosettimo nella discendenza. Peringsciold (Commentatore Svezzese di Cochloeus. vit. Theodor. pag. 271 Stockholm 1699) s'affatica per combinare questa genealogia con le leggende, o tradizioni della sua patria.
339.Più esattamente sulle rive del lago Pelso (Nieusiedlersee) vicino a Carnunto, quasi nel medesimo luogo, dove Marco Antonino compose le sue meditazioni (Giornand. c. 52 p. 659. Severin, Pannonia illustrata p. 22. Cellarius, Geogr. antiq. Tom. 1 p. 350).
340.In una lastra d'oro s'incisero le prime quattro lettere (ΘΕΟΔ) del suo nome, e quindi postala sulla carta, il Re faceva scorrere la sua penna per le incisioni di quella (Anonym. Valesian. ad calcem Ammiani Marcellin. p. 722). Questo fatto, autenticato dalla testimonianza di Procopio, e almeno de' Goti contemporanei (Gothic. l. 1 c. 2 p. 311) prevale assai alle vaghe lodi d'Ennodio (Sirmond., Oper. Tom. 1 p. 1596) e di Teofane (Chronograp. p. 112).
341.Statura est, quae resignet proceritate regnantem (Ennod. p. 1614). Il Vescovo di Pavia (voglio dire quell'Ecclesiastico che desiderava d'esser Vescovo) passa in seguito a celebrar la carnagione, gli occhi, le mani ec. del suo Sovrano.
342.Descrivono lo Stato degli Ostrogoti, ed i primi anni di Teodorico, Giornandes (c. 52, 56 p. 689, 696) e Malco (Excerpt. Legat. p. 78, 80) che lo chiama erroneamente figlio di Walamiro.
343.Teofane (p. 111) inserisce nella sua storia una copia delle Sacre lettere di lei alle province: ιστε οτι βασιλεον εμετερον εστι… και οτι προχειρησαμεθα βασιλεα τρασκαλλισαιον ec. (sapete, che nostro è l'Impero… e che facemmo Trascalisseo Imperatore, ec.). Tali donnesche pretensioni avrebber fatto stupire gli schiavi de' primi Cesari.
344.cap. XXXVI Tom. VI p. 136.
345.Suidas Tom. I p. 332, 333 Edit. Kuster.
346.Le storie contemporanee di Malco, e di Candido si son perdute: ma se ne conservarono alcuni estratti o frammenti presso Fozio (LXXVIII, LXXIX p. 100, 102), presso Costantino Porfirogenito (Excerpt. Legat. p. 78, 97), ed in vari articoli del Lessico di Suida. Quanto a' regni di Zenone e d'Anastasio la Cronica di Marcellino (Imago Historiae) è originale: e debbo confessare, almeno rispetto agli ultimi tempi, le mie obbligazioni alle vaste ed esatte Collezioni del Tillemont (Hist. des Emp. Tom. VI pag. 472, 652).
347.In ipsis congressionis tuae foribus cessit invasor, cum profugo per te sceptra redderentur de salute dubitanti. Ennodio poi giunge fino (p. 1596, 1597 Tom. 1 Sirmond.) a trasportare il suo Eroe (forse sopra un dragon volante?) nell'Etiopia, oltre il tropico di cancro. Quel che dicono il Frammento Valesiano (pag. 717), Liberato (Brev. Eutych. c. 25 p. 118), e Teofane (p. 112), è più sobrio e ragionevole.
348.Viene specialmente imputato questo crudele uso ai Goti Triarj, meno (forse più) barbari, per quanto sembra, de' Walamiri; ma si accusa il figlio di Teodemiro della rovina di molte Città Romane (Malco, Excerpt. Legat. p. 95).
349.Giornandes (cap. 56, 57 p. 696) espone i servigi di Teodorico, ne confessa le ricompense, ma dissimula la sua ribellione, di cui ci sono stati conservati questi curiosi ragguagli da Malco (Excerpt. Legat. p. 78, 97). Marcellino, famigliare di Giustiniano, sotto il quarto Consolato del quale (an. 534) compose la sua Cronica (Scaligero Thesaur. tempor. P. II p. 34, 57) scuopre il suo pregiudizio, e la sua passione; in Graeciam debacchantem… Zenonis munificentia pene pacatus… beneficiis numquam satiatus, etc.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 eylül 2017
Hacim:
510 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain