Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 9», sayfa 11
Fu lo scettro di Bizanzio la ricompensa dei delitti d'Andronico; lo tenne tre anni e mezzo in circa, fosse in qualità di protettore, o di sovrano dell'Impero. Fu il suo regime un miscuglio singolare di vizi e di virtù. Quando seguiva le passioni, era il flagello del popolo, quando consultava la ragione, n'era il padre. Mostravasi giusto e rigoroso nell'esercizio della giustizia privata: abolì una vergognosa e funesta venalità, e siccome aveva abbastanza discernimento per far buone scelte, e abbastanza fermezza per punire i colpevoli, così innalzaronsi alle dignità persone di merito; distrusse l'uso inumano di spogliare gl'infelici naufraghi, e d'impadronirsi perfino della loro persona: le province oppresse da tanto tempo, o neglette, si ravvivarono in seno dell'abbondanza e della prosperità; ma mentre milioni di uomini, lontani dalla capitale, decantavano la felicità del suo regno, i testimoni delle sue barbarie giornaliere lo maledicevano. Mario e Tiberio hanno pur troppo avverato quell'antico proverbio, che l'uomo il quale dall'esilio passa all'autorità, è avido di sangue. Andronico lo avverò per la terza volta. Esiliato dalla patria, rammentavasi egli di tutti quelli de' suoi nimici e rivali che avean parlato male di lui, gioito delle sue miserie, o ch'eransi opposti alla sua fortuna; unica sua consolazione era allora la speranza della vendetta. La necessità, a cui si condusse, di condannare il giovane Imperatore e la madre di lui, lo trasse all'obbligo funesto di liberarsi de' loro amici, che odiar doveano l'assassino, e lo poteano punire; l'abitudine dell'omicidio gli tolse la volontà, o il potere di perdonare. L'orribile descrizione del numero delle vittime, ch'egli immolò col veleno o col ferro, che fece gettare in mare, o tra le fiamme, darebbe un'idea della sua crudeltà che farebbe più impressione che il titolo de' giorni dell'Alcione (giorni tranquilli) applicato all'intervallo, assai raro nel suo regno, d'una settimana in cui cessò dal versar il sangue dei popoli. Cercò di scolpare colle leggi e pe' Giudici una parte de' suoi delitti; ma avea lasciata cadere la maschera, e non poteano più i sudditi ingannarsi circa l'autore delle loro calamità. I più nobili de' Greci, e quelli precipuamente che per loro nascita od alleanza poteano aspirare alla succession de' Comneni, si salvarono dall'antro del mostro: si ricovrarono a Nicea od a Prusa, in Sicilia o nell'isola di Cipro; e la loro fuga passando già per rea, aggravarono il delitto coll'inalberare il vessillo della rivoluzione, e coll'assumersi il titolo d'Imperatori. Con tutto ciò sfuggì Andronico al pugnale e alla spada de' suoi più tremendi nemici; sottomise e gastigò le città di Nicea e di Prusa; bastò il sacco di Tessalonica a ricondurre all'obbedienza i Siciliani; e se quei ribelli che ripararono nell'isola di Cipro, si trovarono sicuri dai colpi dell'Imperatore, giovarono non poco colla loro distanza anche ad Andronico. Da un rivale senza merito, e da un popolo inerme fu egli rovesciato dal trono. Avea la prudenza o la superstizione d'Andronico pronunciata la sentenza di morte d'Isacco l'Angelo, che discendeva da Alessio il Grande dal lato di donne; fatto forte dalla disperazione, difese Isacco la propria libertà e la vita; dopo aver morto il carnefice, che veniva ad eseguire l'ordine del tiranno, si ricovrò nella chiesa di Santa Sofia. A poco a poco s'empiè il santuario d'una moltitudine curiosa ed afflitta, che nella sorte d'Isacco prevedeva quella della quale era essa minacciata. Ma dai gemiti passando bentosto alle imprecazioni, e dalle imprecazioni alle minacce, osarono dimandarsi a vicenda: «Perchè mai temiamo? perchè obbediamo? Noi siamo tanti, ed egli è solo; la nostra pazienza è ciò che ci tiene in ischiavitù.» Allo spuntare del dì, tutta la città era in tumulto; si forzarono le prigioni; i meno ardenti cittadini, o i più servili, animaronsi alla difesa della patria, e Isacco, secondo di tal nome, fu dal santuario condotto al soglio. Andronico, ignaro del proprio pericolo, riposavasi allora delle cure dello Stato nelle isole deliziose della Propontide. Avea contratto un matrimonio poco decente con Alice o Agnese, figlia di Luigi VII, Re di Francia, e vedova dell'infelice Alessio; era la sua società, più conveniente a' suoi gusti che a' suoi anni, composta della giovine moglie, e di quelle concubine che gli erano più care. Al primo avviso della rivolta corse a Costantinopoli, impaziente di spargere il sangue de' rei; ma il silenzio del palazzo, il tumulto della città, l'abbandono generale in che vedeasi, gli recarono lo spavento all'animo. Pubblicò un'amnistia generale; non vollero i sudditi nè ricevere perdono, nè perdonare: propose di abbandonare la corona a suo figlio Manuele; ma non poteano le virtù del figlio espiare le colpe del padre. Il mare eragli ancora aperto alla fuga; ma la nuova della rivolta erasi diffusa lunghesso la costa; cessato il timore, l'obbedienza era pure cessata. Un brigantino armato inseguì, e prese la galea imperiale. Andronico, carico di ferri, con una lunga catena al collo, venne trascinato ai piedi d'Isacco l'Angelo. Vane furono la sua eloquenza e le lagrime delle donne che l'accompagnavano; non potè sottrarsi alla morte; ma in vece di dare a tale sentenza le forme decenti d'una punizione legale, l'abbandonò il nuovo monarca alla folla numerosa di quelli, che furono dalla sua crudeltà privi d'un padre, d'un marito, d'un amico. Gli strapparono i denti e i capelli, gli cavarono un occhio, e gli tagliarono una mano; debole riparazione delle loro perdite! per dargli morte più dolorosa lasciarono qualche intervallo da una tortura all'altra. Fu posto sopra un cammello, e senza temere non venisse alcuno in sua difesa, venne condotto in trionfo per tutte le vie della capitale, e la feccia del popolo rallegravasi di calpestare la maestà d'un principe decaduto. Oppresso da colpi e da oltraggi, fu Andronico finalmente impeso pei piedi fra due colonne che sosteneano una la figura d'un lupo, l'altra quella d'una scrofa; quanti stender poterono il braccio su quel nimico pubblico, esercitarono tutti con gioia sul corpo di lui atti d'una crudeltà brutale o studiata, sinchè alla fine due Italiani, mossi da pietà, o spinti da rabbia, gl'immersero le spade nel petto, e terminarono così il suo gastigo in questo Mondo. Durante un'agonia sì lunga e penosa, non disse che queste parole: «Signore, abbi pietà di me; perchè vuoi tu sfracellare una canna spezzata?» In mezzo a que' tormenti si dimentica il tiranno; l'uomo il più reo inspira allora pietà, nè si può biasimare la sua rassegnazione pusillanime, poichè un Greco soggetto al cristianesimo non era più il padrone della propria esistenza.
A. D. 1185
Ho parlato a lungo del carattere e delle avventure straordinarie d'Andronico; ma troncherò qui la serie de' principi, ch'ebbe l'Impero greco dal regno di Eraclio in poi. I rami usciti dello stipite de' Comneni a poco a poco disparvero; e la linea maschile non continuò che nella posterità d'Andronico, la quale, in mezzo alla pubblica confusione, usurpò la sovranità di Trebisonda, così oscura nella storia, e tanto famosa nei romanzi. Un cittadino privato di Filadelfia, Costantino l'Angelo, era giunto alla fortuna e agli onori coll'unirsi ad una figlia dell'Imperatore Alessio. Andronico, suo figlio, non segnalossi che colla viltà. Isacco, suo nipote, punì il tiranno, e gli succedette; ma fu deposto da' suoi vizi e dall'ambizione di suo fratello; la loro discordia agevolò ai Latini il conquisto di Costantinopoli, la prima grand'epoca della caduta dell'Impero d'Oriente.
Se si calcola il numero e la durata dei regni, troverassi, che diede un periodo di sei secoli sessanta Imperatori, contando insieme le donne che possedettero il soglio, e levando dalla lista alcuni usurpatori, che non furono mai riconosciuti nella capitale, e alcuni principi che non vissero abbastanza a godere del loro retaggio. In tal guisa il termine di mezzo d'ogni regno sarebbe d'un decennio, cioè molto al di sotto della proporzione cronologica di Newton, il quale, secondo l'esempio delle monarchie moderne più regolarmente costituite, portava a diciotto o venti anni la durata d'un regno. Non ebbe l'Impero di Bizanzio nè riposo, nè prosperità che quando potè seguire l'ordine della successione ereditaria. Cinque dinastie, cioè: la razza di Eraclio, le dinastie d'Isauro, d'Amorio, i discendenti di Basilio e i Comneni, ciascuna alla lor volta, si perpetuarono sul trono durante cinque, quattro, tre, sei e quattro generazioni. Molti di questi principi contarono dalla loro infanzia gli anni del loro regno; Costantino VII, e i suoi due nipoti occupano un secolo intiero. Ma negli intervalli delle dinastie bizantine, la successione è rapida ed interrotta; guari non andava che le geste e il nome d'uno dei Candidati erano offuscati dalle imprese d'un competitore più felice. Più vie conduceano al soglio. Vedevasi l'opera d'una ribellione rovesciata dai colpi dei cospiratori, o corrosa dal tacito lavoro del raggiro. I favoriti dei soldati o del popolo, del senato o del clero, delle donne o degli eunuchi, vestivano successivamente la porpora. Vili erano i modi co' quali salivano alla dignità suprema, spregevole e tragico era sovente il lor fine. Un Essere della natura dell'uomo, dotato delle medesime facoltà, ma d'una vita più lunga, darebbe un'occhiata di compassione e di disprezzo ai delitti e alle follìe dell'ambizione umana, che, entro termini sì brevi, ambisce tanti godimenti precari e di sì curta durata. Ond'è che l'istoria sublima e dilata l'orizzonte delle nostre idee. L'opera di alcuni giorni, la lettura di alcune ore ci schierarono d'innanzi sei secoli intieri, e la durata di un regno, d'una vita non abbracciò che un momento. Sta sempre la tomba di dietro al soglio; l'atto colpevole d'un ambizioso non precede che d'un istante quello per cui vedesi quindi spogliato della preda, e l'immortale ragione, superstite alla loro esistenza, sdegna li sessanta simulacri de' Re che ci passarono davanti lasciando appena una debole immagine nella nostra mente. Riflettendo però che in tutti i secoli e in tutte le contrade ha l'ambizione sottomesso del pari gli uomini alla sua irresistibile potenza, cessa il filosofo di maravigliare; ma non si limita solo a condannare sì fatta vanità, indaga pure il motivo d'una bramosìa tanto universale dello scettro. In quella successione di principi, che tennero l'un dopo l'altro il trono di Bizanzio, non puossi a ragione attribuirla all'amor della gloria, o della umanità. La sola virtù di Giovanni Comneno si mostrò benefica e pura. I più illustri de' sovrani, che precedono o seguono quel rispettabile Imperatore, marciarono, con certa destrezza e vigore, pei sentieri tortuosi e sanguinolenti d'una politica d'amor proprio. Chi esamina attentamente i caratteri imperfetti di Leone l'Isauro, di Basilio I, d'Alessio Comneno, di Teofilo, di Basilio II, e di Manuele Comneno, bilanciansi la stima e la censura in modo quasi uguale; il rimanente della folla degli Imperatori non potè fondare speranze che sull'obblivione della posterità. È stata forse la felicità personale il fine e l'oggetto della loro ambizione? Non rammenterò le massime vulgari sull'infelicità dei Re; ma noterò senza timore, che la lor condizione è di tutte la più terribile, e la meno suscettiva di speranza. Davano le rivoluzioni dell'antichità a queste passioni opposte molto maggior latitudine, che non ponno avere nel Mondo moderno, dove la ferma e regolare costituzion degli Imperi non lascia punto credere che noi possiamo veder facilmente rinovarsi lo spettacolo dei trionfi d'Alessandro, e della caduta di Dario. Con tutto ciò, per una particolare sciagura de' principi di Bizanzio, furono essi esposti a pericoli domestici, senza mai sperare conquisti stranieri. Una morte più barbara e più vergognosa di quella dell'ultimo dei colpevoli, precipitò Andronico dall'apice delle grandezze; ma i più illustri de' suoi predecessori aveano avuto assai più da temere dai sudditi che da sperare dai nemici. Era l'esercito sfrenato senza coraggio, turbolenta la nazione senza libertà. Premeano i Barbari dell'Oriente e dell'Occidente le frontiere della monarchia, e la perdita delle province fu seguita dalla servitù della capitale.
La succession degl'Imperatori romani, dal primo dei Cesari fino all'ultimo dei Costantini, abbraccia più di quindici secoli; non v'ha monarchia antica, come quelle degli Assirii e de' Medii, dei successori di Ciro e d'Alessandro, che offra esempio d'un Impero il quale abbia sì lungamente durato, senza soggiacere al giogo d'uno straniero conquisto.
L'Autore (V. p. 165) disegnando coll'espressione dicitori di buona ventura gli Ebrei, che si erano fatti cristiani e seguivano l'Evangelo (giacchè questo greco vocabolo altro non significa che buon'annuncio), vuol mostrare che questi cristiani volevano l'abolizione dell'introdottosi culto delle Immagini; giacchè nelle province dell'Impero romano d'Oriente non v'era più a quell'epoca, cioè nell'ottavo secolo il culto degli Idoli del Politeismo che i cristiani avevano detestato; ma egli dà a gran torto il nome di Idoli alle Immagini cui prestavano e prestano culto i cattolici; v'è qui non picciolo errore, e perciò ci crediamo in dovere di dar la vera idea, e notizia del culto delle Immagini, e dell'Iconoclastia, intendendo, che questa nota serva d'istruzione storica positiva a' lettori per tutti quei luoghi dove l'Autore scrive di questa materia.
Premettiamo, che veramente (Petavius Theolog. Dogmatum de Incarnatione lib. 15, e Pagi Critica T. I, p. 42) le Immagini non appartengono alla sostanza della religione; la Chiesa poteva ammetterle, e non ammetterle. Nei primi tempi del cristianesimo, per le persecuzioni, e perchè agli occhi ed alle menti de' Cristiani era presente il culto degli Idoli dal qual dovevano star lontani, non furono in uso Immagini, e templi, di che anzi erano rimproverati da Gentili, siccome quelli che non avevano nè luoghi di culto, nè segni di lor religione; e ce lo dice Minucio Felice scrittore del terzo secolo: cur nullas aras habent, templa nulla, nulla nota simulacra? a ciò i cristiani rispondevano: pensate voi che noi occultiamo ciò che veneriamo, per non aver nè templi nè altari? a che far simulacri a Dio, mentre l'uom stesso n'è l'immagine? a che fabbricar templi a Dio mentre il Mondo tutto non può contenerlo? non è meglio far che sia suo tempio il nostro animo? Il Concilio Illiberitano nel principio del quinto secolo proibì l'uso delle Immagini col canone 37. Placuit picturas in ecclesia esse non debere, ne quod colitur, et adoratur in parietibus depingatur. Alcuni credono doversi riferire cotal proibizione alle Immagini soltanto della Divinità, e della Trinità; il decreto è veramente generale.
Poscia a poco a poco si fabbricarono chiese, e nel quinto e sesto secolo, divenuto dominante il cristianesimo, s'introdusse il culto delle Immagini; ma non in tutti i luoghi, e non nel medesimo tempo si andò introducendo perchè, per una parte non v'era più pericolo d'idolatria, e che fossero le Immagini, dagli uomini rozzi, considerate per la loro rassomiglianza come Idoli del politeismo, e per l'altra esse servirono a propagare la memoria di Cristo, di Maria, e de' Santi, e ad animare coll'esempio i Fedeli. Si estese molto cotal culto nelle Chiese Orientali, ed Occidentali, ma molti fra i Vescovi, preti e secolari, non n'erano persuasi, attenendosi all'antica massima, e consuetudine. Le cose erano in questo stato quando l'Imperatore Leone Isaurico l'anno 726 (imitando il suo predecessore Filippico, cui aveva resistito il Papa Costantino che lo aveva nel suo Concilio di Roma dichiarato apostata) si mosse con rigorosi editti, e con maggior forza contro il culto delle Immagini; ei lo considerava a torto come un'idolatria, e credeva purificare la religione. Mandò i suoi uffiziali, e soldati nelle Chiese di Costantinopoli, e della Grecia, e indi anche in Italia a toglier via le Immagini. Il Papa Gregorio II scrisse all'Imperatore spiegandogli il senso del culto delle Immagini, e giustificandolo: Et dicis nos parietes et lapides, et tabellas adorare: non ita est ut dicis Imperator; sed ut memoria nostra excitetur et ut stolida, imperita, crassaque mens nostra erigatur, et in altum provehatur per eos, quorum haec nomina et quorum appellationes, et quorum eae sunt imagines, et non tanquam Deos, ut tu dicis, absit. Gregorii II Epist. in Collect. magna Conc. Labbe. Gregorio disse dunque a Leone che non intendeva che i credenti venerassero o adorassero quelle Immagini per se stesse, ma come degne di culto a cagione delle cose rappresentate, onde la debole mente umana sia per mezzo di cotali rappresentazioni aiutata ad innalzarsi all'intuizioni degli archetipi, che non cadevano più sotto i sensi. Nella stessa lettera poi gli racconta le sollevazioni ch'egli si era procacciate col togliere la Immagini al culto del popolo. Leone convocò un Concilio di Vescovi da dirsi Conciliabolo, che decretò contro il culto delle Immagini, e depose S. Germano Patriarca, che n'era sostenitore, e pose in suo luogo Anastasio. Gregorio III sostenne pure con zelo il culto delle Immagini: ovunque vi furono sollevazioni, incendi, e massacri per la formazione di due patiti, opposti e ferocissimi. Costantino Copronimo figlio di Leone Isaurico fu più fiero del padre; convocò un altro Concilio da dirsi pure Conciliabolo, l'anno 754, ove fu condannato il culto delle Immagini. L'Imperatrice Irene vedova di Leone IV nella minorità del figlio Costantino, di consenso del Papa Adriano I, convocò il Concilio generale VII, di Nicea II l'anno 787; (Divalis sacra directa a Costantino et Irene augustis ad Sanctissimum Hadrianum Papam senioris Rome etc. Labbe T. 8. p. 645); in esso fu spiegato, e ristabilito il culto delle Immagini, e molti Vescovi iconoclasti, vale a dire avversi al culto delle. Immagini, e che lo avevano condannato negli anzidetti Concilii, si ritrattarono, furono ammessi alla loro sedi, e fu condannato tutto ciò ch'era stato decretato, e fatto nei due anteriori Concilii. Ma tuttavia il partito Iconoclasta continuò a mantenersi forte specialmente in Germania, in Francia, in Inghilterra; i Vescovi per altro di queste province sembravano tener il mezzo fra questi due partiti. Carlomagno che inclinava all'Iconoclastia fece comporre quattro libri contro il culto della Immagini, e li mandò al Papa Adriano, che vi rispose vigorosamente sostenendo il Concilio generale di Nicea II; ad onta di ciò Carlomagno convocò un Concilio nazionale di trecento Vescovi a Francfort l'anno 794, il quale sosteneva la dottrina dei quattro libri, e condannò il culto delle Immagini. Finalmente il greco prete Teofane ci narra gli Atti del Concilio di Costantinopoli nell'anno 842: Postquam defuncto Teophilo Imperium ad ejus uxorem Thedoram, et filium eorum Michaelem, admodum adolescentem, deletum esset, in pietatis studium curamque maxime incubuit foemina veri Dei munere (ut nomen eius indica) data etc. (Labbe Sac. Conc. Magna Collect.) Adunò Teodora nel suo palazzo un numeroso Concilio di Vescovi, di Monaci e di Grandi; vi fu approvato il Concilio generale VII, di Nicea II, già convocato da Irene, che aveva ristabilito il culto delle Immagini; fu cacciato dalla sede Giovanni Patriarca di Costantinopoli Iconoclasta, ed eletto Metodio stato sostenitore delle Immagini: e di Giovanni sbalordito, segue a dirci Teofane, qua quidem celeri et imperata rerum mutatione Joannes, qui tunc impie munus Pontificium administrabat, stupore, ac mentis caligine captus parum abfuit quin ipse sibi manus inferret, mortemque conscisceret. Così fu definitivamente ristabilito il culto delle immagini dopo 120 anni di tumulti, di ribellioni, e di massacri. L'autorità del Concilio Generale VII, di Nicea II, è superiore di gran lunga e per ragione, e per regola della Chiesa a quella degli altri Concilii, o Conciliaboli contrarii, e tanto più lo è perchè giudicò conformemente ai Papi Costantino, Gregorio II, Gregorio III, Adriano I, ed a tutti gli altri Papi contemporanei, e perchè fu per giunta confermata dal Concilio di Costantinopoli dell'anno 842: quindi ogni buon cattolico deve seguir la massima di doversi prestar culto alle Immagini, determinata per tal modo definitivamente dalla Chiesa nei secoli VIII, IX. (Nota di N. N.)