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Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 9», sayfa 10

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Voleva Irene soppiantare il maggiore de' suoi figli per favorire la principessa Anna, sua figlia, la quale malgrado della sua filosofia, non avrebbe ricusato il diadema; ma non patirono gli amici della patria, che uscisse la successione fuor della linea maschile; il legittimo erede levò il suggello reale di dito al padre, che non se n'avvide, o che vi acconsentì; e l'Impero si sottomise al signore del palazzo. L'ambizione e la vendetta spinsero Anna Comnena a tramare la morte del fratello regnante; ma pei timori e scrupoli di suo marito essendo andato a voto il disegno, adirata esclamò, avere la natura confuso i sessi, e dato a Briennio l'anima d'una donna. Giovanni ed Isacco, figli d'Alessio, conservarono a vicenda quella fraterna amicizia, che era virtù ereditaria nella lor famiglia, e il cadetto si contentò del titolo di Sebastocratore, cioè d'una dignità per poco uguale a quella dell'Imperatore, ma spoglia d'autorità. I diritti della primogenitura fortunatamente erano accoppiati a quelli del merito; per la carnagione bruna, per l'asprezza dei lineamenti e la picciola statura al nuovo Imperatore fu dato il soprannome ironico di Calo Giovanni o sia Giovanni il Bello, che poi la gratitudine dei sudditi applicò in una maniera più seria alla sua bell'anima. Scoperta che fu la trama, doveva Anna perdere la sua fortuna e la vita; ma fu risparmiata dalla clemenza dell'Imperatore. Dopo avere coi propri occhi esaminata la pompa e i tesori del palazzo di lei, egli dispose di queste ricche spoglie in favor del più degno amico che avesse. Era questo Axuc, schiavo turco d'origine, il quale ebbe tanta generosità da ricusare il donativo, e da intercedere per quella che si volea punire. Il suo magnanimo padrone commosso dalla virtù del suo favorito, ne seguì il bell'esempio; e i rimproveri o le doglianze d'un fratello offeso furono la sola punizione della principessa. Da quel punto non vi fu più sotto il suo regno nè cospirazione, nè rivolta: temuto dai Nobili, amato dal popolo, non ebbe più Giovanni la dura necessità di punire i nemici della sua persona, o di perdonare. Durante la sua amministrazione, che fu di venticinque anni, rimase abolita la pena di morte nell'Impero romano; legge misericordiosa, cara all'umanità del filosofo contemplatore, ma rade volte, in un Corpo politico, vasto, e corrotto, consentanea alla pubblica sicurezza. Severo per sè stesso, indulgente per gli altri, era Giovanni casto, sobrio, frugale; nè il filosofo Marc'Aurelio avrebbe sdegnato le semplici virtù, che questo principe attingea dal cuore, senza averle imparate nelle scuole. Spregiò e scemò il fasto della Corte bizantina, vizio oppressivo pel popolo, e vituperevole agli occhi della ragione. Regnando lui, nulla ebbe l'innocenza a temere, e il merito potè sperare tutti i vantaggi. Senza arrogarsi gli offici tirannici d'un censore, riformò a poco a poco, ma in modo sensibile, i pubblici e privati costumi di Costantinopoli. Quel naturale perfetto, non ebbe che la taccia dell'anime nobili, il genio delle armi e della gloria militare; ma dalla necessità di cacciare i Turchi dall'Ellesponto e dal Bosforo possono venir giustificate almeno nei principii le frequenti spedizioni di Giovanni il Bello. Il Soldano d'Iconio fu chiuso nella sua capitale, e respinti i Barbari nelle montagne, le province marittime dell'Asia furono liberate felicemente dai nemici, almeno per qualche tempo. Marciò più volte da Costantinopoli verso Antiochia ed Aleppo con un esercito vittorioso, e negli assedii e nelle battaglie di questa guerra santa i suoi alleati, i Latini, stupirono del valore e dell'imprese d'un Greco. Già cominciava a compiacersi dell'ambiziosa speranza di rinovare gli antichi limiti dell'Impero; aveva calda la mente dei pensieri dell'Eufrate e del Tigri, del conquisto della Siria e di Gerusalemme, quando un caso singolare troncò la sua vita e con essa la pubblica felicità. Stava egli inseguendo un cignale nella valle d'Anazarbo; mentre lottava contro l'animale furibondo, già trafitto dalla sua chiaverina, gli cadde dal turcasso un dardo avvelenato, che gli ferì leggiermente la mano: sopravvenne la cancrena, la quale terminò i giorni del migliore e del più grande dei principi Comneni.

Una morte immatura avea rapito i due figli maggiori di Giovanni il Bello e gli restavano Isacco e Manuele; guidato da giustizia, o da predilezione, preferì egli il più giovane, e dai soldati, che aveano applaudito al valore di quel principino nella guerra coi Turchi, fu ratificata la scelta. Il fedele Axuc partì frettolosamente per Costantinopoli, si assicurò della persona d'Isacco, e lo relegò in una prigione onorevole; poi col donativo di quattrocento marchi d'argento, comperò il voto di quelli ecclesiastici, che reggevano il clero di Santa Sofia, e che erano assolutamente autorevoli per la consecrazion dell'Imperatore. Non tardò Manuele a giugnere nella capitale coll'esercito composto di vecchi soldati fedeli; suo fratello fu pago del titolo di Sebastocratore: i sudditi ammirarono l'alta statura, e le maniere marziali del nuovo sovrano, e s'abbandonarono alla speranza che all'attività e al vigore giovanile congiungesse la sapienza dell'età matura. Ma presto videro coll'esperienza, che non aveva ereditato se non se il coraggio e i talenti del padre, ma che le virtù sociali di questo erano state con lui sepolte nella tomba; per tutto il tempo ch'egli regnò, cioè por trentasett'anni, fece sempre la guerra, con vario successo, ai Turchi, ai Cristiani e alle popolazioni del deserto situato al di là del Danubio. Combattè sul monte Tauro, nelle pianure dell'Ungaria, sulla costa dell'Italia e dell'Egitto, sui mari della Sicilia e della Grecia. Le conseguenze de' suoi trattati furono sentite da Gerusalemme sino a Roma, e nella Russia; e la monarchia di Bizanzio divenne per qualche tempo oggetto di riverenza, o di terrore, per le Potenze dell'Asia e dell'Europa. Educato Manuele nella porpora e nel lusso orientale, avea pur conservato il ferreo temperamento guerresco, di cui non si trova di leggieri esempio da paragonarsegli, fuorchè nelle vite di Riccardo I, Re d'Inghilterra, e di Carlo XII, Re di Svezia. Tanta era la forza e l'abilità sua nel maneggio dell'armi, che Raimondo, nomato l'Ercole d'Antiochia, non potè brandire la lancia, nè tenere lo scudo del greco Imperatore. In un famoso torneo fu veduto sopra un destriero focoso correre e rovesciare al primo passo due Italiani, che avevan fama di robustissimi fra i cavalieri più gagliardi. Primo sempre all'assalto, ed ultimo a ritirarsi, facea tremare del pari amici e nemici, quelli per la sua salute, gli altri per la propria. In una delle sue guerre, dopo aver messa una imboscata in fondo a una selva, era andato avanti per trovare un'avventura pericolosa, non avendo con sè che suo fratello, e il fido Axuc, che non avevano voluto abbandonare il sovrano. Dopo breve zuffa, mise in fuga diciotto cavalieri; ma cresceva il numero de' nemici, e il rinforzo spedito in suo aiuto s'avanzava con passo lento e dubbioso; quando Manuele, senza ricevere ferita alcuna, s'aperse la via per mezzo a uno squadrone di cinquecento Turchi. In una battaglia cogli Ungaresi, impaziente della lentezza de' suoi battaglioni, strappò la bandiera dalle mani dell'alfiere, che precedea la colonna, e fu il primo e quasi il solo a passare un ponte che lo dividea dal nimico. Nel paese medesimo, dopo aver condotto l'esercito al di là della Sava, rimandò i battelli con ordine al Capo del navile, pena la vita, di lasciarlo vincere o morire su quella terra straniera. All'assedio di Corfù, rimorchiando una galera che avea presa, e stando sulla parte più esposta del vascello, affrontò una grandine incessante di sassi e di dardi, senz'altra difesa che un largo scudo, ed una vela aperta; era inevitabile la sua morte, se l'ammiraglio Siciliano non avesse ingiunto ai suoi arcieri di avere rispetto ad un eroe. Dicesi, che un giorno uccidesse colle sue mani più di quaranta Barbari, e ritornasse nel campo trascinando quattro prigionieri turchi attaccati agli anelli della sua sella; sempre il primo qualvolta si trattava di proporre, o d'accettare un duello, trafiggea colla sua lancia, o fendea per mezzo colla sciabla i campioni giganteschi che osavano resistere al suo braccio. La storia delle sue geste, che può considerarsi per modello o per copia de' romanzi di cavalleria, dà sospetto della veracità dei Greci; nè io per comprovare la credenza che si debbe averne, rinuncierò a quella che posso meritare; osserverò tuttavolta, che nella lunga serie dei loro annali, Manuele è quel solo principe, che abbia data occasione a così fatte esagerazioni. Ma al valor d'un soldato non seppe congiungere l'abilità, o la prudenza d'un Generale; dalle sue vittorie non risultò veruna conquista, che utile fosse o durevole, e quegli allori, che avea mietuti, combattendo coi Turchi, s'appassirono nell'ultima campagna, in cui perdette l'esercito sulle montagne della Pisidia, e fu debitor della vita alla generosità del Soldano. Il carattere per altro più singolare dell'indole di Manuele, si vede nel contrapposto, e nell'alternativa d'una vita or laboriosa, ora indolente nelle più dure fatiche, e nei sollazzi più effeminati. In guerra parea che ignorasse che si può vivere in pace; e nella pace sembrava inetto a far guerra. In campagna dormiva al sole o sulla neve; nè uomini, nè cavalli potean resistere agli stenti ch'egli durava nelle sue lunghe corse militari; egli dividea, ridendo, l'astinenza e il regime frugale delle sue soldatesche; ma appena tornato a Costantinopoli si dava tutto alle arti, ed ai piaceri d'una vita voluttuosa: negli abiti, nella tavola e nel suo palazzo spendeva più che non aveano fatto i suoi predecessori, e passava i lunghi giorni della state nell'isole deliziose della Propontide ozioso, e in braccio agli amori incestuosi, di cui godeva colla nipote Teodora. I dispendii d'un principe guerriero e dissoluto sprecarono l'entrate pubbliche, e vennero moltiplicando le gabelle; e nelle estremità a cui fu ridotto il campo nella sua ultima impresa contro i Turchi, dovè sopportare in bocca d'un soldato posto alla disperazione un amarissimo rimbrotto. Lagnossi il principe perchè l'acqua d'una fontana, alla quale spegneva la sete, era lorda di sangue cristiano: «Non è la prima volta, o Imperatore, gridò una voce fra la soldatesca, che tu bevi il sangue de' tuoi sudditi cristiani». Manuele Comneno si maritò due volte: sposò primieramente la virtuosa Berta o Irene, principessa d'Alemagna; indi la bella Maria, principessa d'Antiochia, francese o latina d'origine. Dalla prima moglie ebbe una figlia, da lui destinata a Bela, principe d'Ungaria, ch'era educato a Costantinopoli sotto il nome d'Alessio, e avrebbe potuto questo matrimonio trasmettere lo scettro romano ad una stirpe di Barbari guerrieri, o independenti; ma come tosto Maria d'Antiochia ebbe dato un figlio all'Imperatore, ed un erede all'Impero, rimasero aboliti i diritti presuntivi di Bela, e gli fu negata la moglie promessa: allora il principe ungarese ripigliò il suo nome, rientrò nel reame de' suoi padri, e manifestò tante virtù ch'ebbero ad eccitare la gelosia dei Greci col rincrescimento d'averlo perduto. Il figlio di Maria fu nominato Alessio, e in età di dieci anni, salì al trono di Bizanzio, quando la morte del padre ebbe posto termine alla gloria della razza dei Comneni.

A. D. 1180

Qualche volta gl'interessi e le passioni contrarie aveano disturbata l'amicizia fraterna dei due figli d'Alessio il Grande. Dall'ambizione fu tratto Isacco Sebastocratore a fuggire ed a ribellarsi. La fermezza e la clemenza di Giovanni il Bello lo ricondussero a sommessione. Leggieri e di poca durata furono gli errori d'Isacco, padre degl'Imperatori di Trebisonda; ma Giovanni, il maggiore de' suoi figli, abiurò la sua religione per sempre. Irritato per un insulto ch'ei credeva avere, a torto od a ragione, ricevuto dallo zio, abbandonò il campo de' Romani, e rifuggissi a quello de' Turchi. Venne premiata la sua apostasia dal matrimonio colla figlia del Soldano, dal titolo di Chelbi, o Nobile, e dal retaggio d'una sovranità: e nel quindicesimo secolo si gloriava Maometto II di discendere dalla famiglia de' Comneni. Andronico, fratello cadetto di Giovanni, figlio d'Isacco, e nipote d'Alessio Comneno è uno degli uomini più singolari del suo secolo, e le avventure di lui formerebbero materia di stranissimo romanzo. Fu amato da tre donne di regia stirpe, e per giustificarne l'inclinazione debbo notare, che questo amante fortunato aveva tutte le proporzioni, in cui consiste la forza e la bellezza; quello che gli mancava di grazia e d'amabilità era compensato da un maschio contegno, da un'alta statura, da muscoli atletici, dalla sembianza e dalle maniere d'un soldato. Si mantenne sano e vigoroso sino ad un'età molto matura, in grazia della temperanza e degli esercizi che faceva. Un tozzo di pane e un bicchiere d'acqua erano spesso la sua cena, o se assaggiava d'un cignale o d'un capriolo cucinato colle sue mani, era solamente quando se l'era guadagnato con una caccia laboriosa. Abile a maneggiare le armi, non conosceva paura; la sua persuasiva eloquenza sapeva acconciarsi a tutti gli eventi e a tutti gli stati della vita; aveva formato il suo stile, ma non i costumi, sul modello di S. Paolo: in ogni azion criminosa, non gli mancava mai coraggio a risolvere, destrezza a regolarsi, forza ad eseguire. Morto l'Imperator Giovanni, si ritirò coll'esercito romano. Attraversando l'Asia Minore, mentre, per caso, o a bella posta, girava per le montagne, fu accerchiato da cacciatori turchi, e dimorò per qualche tempo, sia volontario, sia a malgrado suo, in balìa del loro principe. Colle sue virtù, non che co' suoi vizi acquistò il favore di suo cugino; partecipò ai pericoli, ed ai piaceri di Manuele; e mentre l'Imperatore vivea in un commercio incestuoso con Teodora, godeva Andronico le buone grazie d'Eudossia, sorella della mentovata principessa, che avea ceduto alle sue seduzioni. La quale senza riguardo al decoro del sesso, e della condizione sua, si gloriava del nome di concubina d'Andronico, e la Corte od il campo avrebbero potuto ugualmente testificare, ch'ella dormiva o vegliava in braccio al suo amante. Gli fu compagna quand'egli andò nella Cilicia, che fu il primo teatro del suo valore, come della sua imprudenza. Stringeva egli fortemente d'assedio la piazza di Mopsuesta; passava la giornata a dirigere i più temerari assalti, e la notte a godere della musica e del ballo, ed una truppa di commedianti greci era la parte del suo seguito ch'egli pregiava di più. I suoi nemici, più vigilanti di lui, lo sorpresero con una sortita improvvisa; ma intanto che le sue milizie fuggivano in gran disordine, Andronico trafiggea coll'invitta sua lancia i più folti battaglioni degli Armeni. Ritornando al campo imperiale, che stava in Macedonia, fu accolto pubblicamente da Manuele con sembiante di benevolenza, ma con qualche rimprovero in privato. Nondimeno per ricompensare, o consolare il Generale sventurato gli diede l'Imperatore i Ducati di Naisso, Braniseba e Castoria. La sua amante lo accompagnava da per tutto; un giorno, i fratelli di questa, accesi di furore, e bramosi di lavar nel sangue di lui la lor vergogna, piombarono improvvisi sulla sua tenda; Eudossia lo consigliò di vestirsi da donna, e di scampare in tal modo. Il prode Andronico non volle seguirne l'avviso, e balzato dal letto, si aperse colla spada in mano la via in mezzo ai suoi numerosi assassini. In quell'occasione manifestò per la prima volta e ingratitudine e perfidia. Intavolò un indegno negoziato col Re d'Ungaria, e coll'Imperator d'Alemagna; s'accostò alla tenda dell'Imperatore, armato di spada in un'ora sospetta; fingendosi un soldato latino, confessò che volea vendicarsi d'un nemico mortale, e fu sì imprudente che lodò la velocità del suo cavallo, mercè del quale, egli dicea, sperava di escire sano e salvo di tutti i rischii della sua vita. Manuele dissimulò i sospetti, ma terminata che fu la campagna, fece arrestare Andronico, e lo chiuse in una torre del palazzo di Costantinopoli.

Questa prigionia durò più di dodici anni, nel qual tempo pel bisogno d'esercizio e per la smania di divertirsi, non fece che cercar la via di fuggire a sì penosa cattività. Finalmente, stando così solo e pensieroso, scoperse un giorno in un angolo della sua camera qualche mattone rotto; a poco a poco potè aprire un passaggio, e trovò dietro del luogo uno stanzino oscuro e dimenticato; egli vi si appiattò con quel che gli restava di provvisioni; dopo avere accuratamente rimessi al posto i mattoni, e tolto ogni vestigio della sua ritirata. Le guardie, che all'ora solita vennero a far la visita, rimasero maravigliate del silenzio e della solitudine della prigione, e sparsero voce che Andronico era fuggito senza che se ne sapesse il come. Allora furon chiuse le porte del palazzo e della città; andò l'ordine il più rigoroso alle province di assicurarsi della persona del fuggiasco, e sua moglie, pel sospetto che ne avesse favorita la fuga, e alla quale se ne fece vilmente un delitto, fu imprigionata nella torre medesima. Venuta la notte, le parve di vedere uno spettro; riconobbe il marito; si divisero fra loro i viveri, e da questi segreti intertenimenti, che mitigavano le pene della lor prigionia, ebbe origine un figlio. A poco a poco si rilassò la vigilanza dei guardiani commessi alla custodia d'una donna, e Andronico era in piena libertà quando fu scoperto e ricondotto a Costantinopoli, carico di doppia catena. Trovò egli il modo e il momento di fuggire dalla sua prigione. Un giovanetto che lo serviva seppe ubbriacare le guardie, e prendere colla cera l'impronto della chiavi: gli amici di Andronico gli mandarono in fondo ad un barile le chiavi false con un mazzo di corde. Il prigioniere, con gran coraggio e destrezza, se ne valse, aperse le porte, calò giù dalla torre, stette una giornata intera nascosto entro una siepe, e nella notte scalò le mura del giardino del palazzo. Quivi lo aspettava un battello; corse egli a casa sua, abbracciò i figli, si liberò dei ferri, e montando un agile palafreno, si diresse rapidamente verso le rive del Danubio. In Anchiala, città della Tracia, da un amico coraggioso fu provveduto di cavalli e di denaro. Passò il fiume, attraversò in gran fretta il deserto della Moldavia e i monti Carpazii, ed era già presso Haliz, città della Russia polacca, quando fu arrestato da una banda di Valacchi, i quali decisero di condurre questo ragguardevole prigioniero a Costantinopoli. La sua accortezza lo liberò da questo nuovo rischio; col pretesto d'un incomodo, smontò nella notte da cavallo, e ottenne il permesso di ritirarsi in qualche distanza dalla soldatesca. Allora conficcato in terra il suo lungo bastone, lo coperse col suo cappello e con parte de' suoi abiti; si cacciò nel bosco, e ingannati così con quel fantoccio i Valacchi, ebbe agio di rifuggirsi in Haliz. Quivi fu ben ricevuto e guidato a Chiovia, ove resedeva il Gran Duca. Il bravo Greco non tardò a guadagnarsi la stima e la confidenza di Jeroslao; sapeva uniformarsi alle usanze di tutti i paesi, e fece stupire i Barbari colla forza e l'ardimento, che usava in caccia d'orsi e d'alci della foresta. Durante il suo soggiorno in quella contrada settentrionale meritò il perdono dell'Imperatore, che sollecitava il principe delle Russie a unir le sue armi con quelle dell'Impero per far un'invasione nell'Ungaria. I valevoli maneggi d'Andronico giovarono al buon esito di questo rilevante negoziato, e l'Imperatore, a cui promettea fedeltà, s'obbligò con un trattato particolare a porre in dimenticanza il passato. Andronico marciò condottiero della cavalleria russa dal Boristene alle sponde del Danubio. Nonostante il risentimento antico, Manuele avea sempre conservato una certa inclinazione per l'indole marziale e dissoluta d'Andronico; e l'assalto di Zemlin, ove quegli comparve in valore il primo dopo il sovrano, divenne occasione d'un libero ed intiero perdono.

Non così tosto fu ritornato Andronico in patria, gli rinacque in petto la focosa sua ambizione per suo gran danno, e per quello del popolo. Una figlia di Manuele era debole ostacolo alle mire dei principi della casa Comnena, i quali si sentiano più degni del trono; dovea quella sposarsi al Re d'Ungheria, e questo matrimonio offendeva le speranze e i pregiudizi dei principi e dei nobili; ma quando si chiese loro il giuramento di fedeltà per l'erede presuntivo, il solo Andronico sostenne l'onore del nome romano; ricusò di prestare questo giuramento illegittimo, e protestò altamente contro l'adozione d'uno straniero. Il suo patriottismo offese l'Imperatore, ma era d'accordo coi sentimenti del popolo, e il monarca, allontanandolo soltanto da sè con un esilio onorevole, gli diede per la seconda volta il comando della frontiera della Cilicia, colla libertà di disporre delle rendite dell'isola di Cipro. Qui esercitarono gli Armeni ancora il suo coraggio, ed ebbero occasione di avvedersi della sua negligenza. Gittò di sella, e ferì pericolosamente un ribelle, che gli sconcertava ogni opera; ma scorse ben tosto una conquista più facile e più piacevole da farsi, la bella Filippa, sorella dell'Imperatrice Maria, e figlia di Raimondo di Poitou, Principe latino, che regnava in Antiochia. Abbandonando per essa il posto che dovea custodire, passò la state in balli e in tornei: gli sacrificò Filippa l'innocenza, la stima e un matrimonio vantaggioso. Furono i piaceri d'Andronico interrotti dalla collera di Manuele, irritato da quest'affronto domestico; lasciò Andronico l'imprudente principessa in preda al pianto e al pentimento, e seguito da una geldra d'avventurieri intraprese il pellegrinaggio di Gerusalemme. La sua nascita, la sua fama di gran guerriero, lo zelo che manifestava per la religione, tutto lo dava a credere per uno dei campioni della Croce; si affezionò il Re, ed il clero, ed ottenne la signoria di Berito sulla costa di Fenicia. Abitava nel suo vicinato una giovine e bella Regina della sua nazione e famiglia, pronipote dell'Imperatore Alessio e vedova di Baldovino III Re di Gerusalemme. Vide essa il parente, e sentì amore per lui; il suo nome era Teodora; fu questa Regina la terza vittima delle seduzioni d'Andronico, e il disonore di lei fu ancora più manifesto e più scandaloso di quello delle altre due. L'Imperatore, non respirando che vendetta, sollecitava caldamente i suoi sudditi e gli alleati, che avea sulla frontiera di Cilicia, ad arrestare Andronico, e a cavargli gli occhi. Non era più sicuro in Palestina; ma la tenera Teodora lo informava dei pericoli che incorreva, e l'accompagnò nella sua fuga. La Regina di Gerusalemme si mostrò a tutto l'Oriente per concubina d'Andronico, e due figli illegittimi testificarono la debolezza di lei. Si riparò primieramente in Damasco ove, in compagnia del gran Nureddino, e del Saladino suo servo, questo principe, educato nella superstizione dei Greci, imparò a venerare le virtù dei Musulmani. In qualità d'amico di Nureddino, visitò probabilmente Bagdad e la Corte di Persia; e dopo un lungo giro intorno al mar Caspio e alle montagne della Georgia, fermò la sua sede fra i Turchi dell'Asia Minore, nimici ereditari de' suoi concittadini. Andronico, Teodora e la masnada di proscritti ch'era con lui, trovarono un ricovero ospitale nei possedimenti del Sultano di Colonia; gli provò la sua gratitudine con frequenti scorrerie nella provincia romana di Trebisonda; ritornava sempre con una preda ragguardevole di spoglie, e con molti prigionieri cristiani. Amava, nel racconto delle sue avventure, paragonarsi a Davidde, che seppe mercè d'un lungo esilio evitare le insidie dei maligni; ma il Re profeta, osava egli aggiungere, altro non fece che vagare sulla frontiera della Giudea, uccidere un Amalecita, e minacciare nella sua misera situazione i giorni dell'avido Nabal. Le scorrerie d'Andronico s'estesero più oltre; aveva egli diffuso in tutto l'Oriente la gloria del suo nome e della sua religione. Un decreto della Chiesa greca, in pena della sua vita errante o della sua condotta licenziosa, l'avea separato dalla Comunion de' fedeli; prova questa stessa scomunica, ch'egli non abiurò mai il cristianesimo.

Avea deluso o respinto ogni tentativo, fosse palese o nascosto, fatto dall'Imperatore per impadronirsi di lui. La prigionia dell'amante il trasse finalmente nel laccio. Riuscì al governatore di Trebisonda di sorprendere e rapire Teodora; la Regina di Gerusalemme, e i suoi due figli, furono spediti a Gerusalemme, e d'indi in poi trovò Andronico la sua vita errante assai penosa. Implorò perdono e l'ottenne; di più gli si permise di gettarsi ai piedi del suo sovrano, che appagossi della sommissione di quell'animo altero. Colla faccia a terra, deplorò le sue ribellioni con lagrime e gemiti; dichiarò che non si alzerebbe, finchè un suddito fedele venisse a prenderlo per la catena, ch'erasi secretamente attaccato al collo, e a trascinarlo sui gradini del soglio. Destò un segno così straordinario di pentimento lo stupore e la compassione dell'assemblea; la Chiesa e l'Imperatore gli perdonarono i suoi mancamenti; ma Manuele, che a giusto titolo diffidava sempre di lui, l'allontanò dalla Corte e lo confinò ad Enoe, città del Ponto, circondata di fertili vigneti, e situata sulla costa dell'Eusino. La morte di Manuele, e i disordini della minorità apersero bentosto alla sua ambizione la carriera la più favorevole. Era l'Imperatore un giovinetto di dodici in quattordici anni, e per conseguente privo del pari di vigore, di saggezza, e di esperienza. L'Imperatrice Maria, sua madre, abbandonava sè stessa, e le cure dell'amministrazione a un favorito nomato Comneno; e la sorella del principe, chiamata Maria, moglie d'un Italiano onorato del titolo di Cesare, suscitò una congiura e finalmente una sedizione contro la sua odiosa matrigna. Si dimenticarono le province, la capitale fu in fuoco, i vizi e le debolezze di alcuni mesi rovesciarono l'opera d'un secolo di pace e di buon ordine. Ricominciò nelle mura di Costantinopoli la guerra civile; vennero le due fazioni ad una battaglia sanguinosa sulla piazza del palazzo, e i ribelli, chiusi nella Chiesa di Santa Sofia, sostennero un assedio regolare. Ingegnavasi il Patriarca con zelo sincero a guarire i mali dello Stato; i più rispettabili patriotti chiedevano ad alta voce un difensore ed un vendicatore; ripeteano tutte le lingue l'elogio dei talenti, e per fino delle virtù d'Andronico. Affettava egli nel suo ritiro d'esaminare i doveri, che gl'imponeva il suo giuramento: «Se la sicurezza o l'onore della famiglia imperiale è minacciata, diceva egli, userò per lei tutti i rimedii, che posso avere.» Inseriva a tempo, nel suo carteggio col Patriarca e coi patrizi, alcune citazioni tratte dai Salmi di Davide e dall'Epistole di San Paolo; e aspettava con pazienza, che la voce de' suoi concittadini lo chiamasse al soccorso della patria. Quando si trasferì da Enoe a Costantinopoli, il suo seguito, da principio poco numeroso, divenne ben tosto una grossa banda, e poscia un esercito; fu creduto sincero nelle sue professioni di religione e di fedeltà; un abito straniero, che, colla sua semplicità, dava risalto alla sua maestosa corporatura, richiamava alla mente d'ognuno la sua povertà e il suo esilio. Sparvero d'innanzi a lui tutti gli ostacoli; giunse allo stretto del Bosforo dì Tracia; uscì il navile di Bizanzio del porto a ricevere con applausi il salvator dell'Impero. Era il torrente dell'opinione romoreggiante e irresistibile; al primo soffiare del vento tempestoso tutti gl'insetti, avvivati prima da' raggi del favore del principe, si dileguarono. Subita cura d'Andronico fu d'impadronirsi del palazzo, di salutare l'Imperatore, d'imprigionare l'Imperatrice Maria, di punirne il ministro, e di ricondurre il buon ordine e la pubblica tranquillità. Si condusse di poi al sepolcro di Manuele; fu ingiunto agli astanti di rimanere a qualche distanza; e fissandolo essi nell'atteggiamento della preghiera, udirono, o credettero udire parole di trionfo e di risentimento: «Più non ti temo, vecchio nimico; tu m'inseguisti, qual vagabondo, in tutte le contrade della terra. Eccoti deposto in sicurezza sotto i sette ricinti d'una cupola, d'onde non uscirai che al suono della tromba dell'ultimo giorno. Tocca ora a me; calpesterò fra poco le tue ceneri e la tua posterità». La tirannia, che in processo di tempo esercitò, fa credere di fatto che siano stati quelli i sensi che gli dovette inspirare un tal momento, ma non è probabile che li abbia esternati. Nei primi mesi del suo reggimento, coperse i suoi disegni con una maschera d'ipocrisia, che poteva ingannare soltanto la moltitudine. Fecesi l'incoronazione d'Alessio colla solita pompa, e il perfido suo tutore, tenendo in mano il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, dichiarò che vivrebbe, e ch'era pronto a morire pel suo diletto pupillo. Raccomandavasi intanto ai numerosi partigiani di sostenere, che l'Impero che ruinava non poteva che perire sotto il regime d'un fanciullo; che soltanto un principe esperimentato, audace in guerra, abile nella scienza del governo, e ammaestrato dalle vicissitudini della fortuna, potea salvare lo Stato, e che tutti i cittadini doveano costringere il modesto Andronico a caricarsi del peso della corona. Fu tenuto anche il giovine Imperatore d'unire la sua voce alle acclamazioni generali, e di chiedere un collega, che non tardò a deporlo dal grado supremo, a imprigionarlo, e a provare alla fine la veracità di quella imprudente asserzione del Patriarca, che potevasi tenere Alessio come estinto dal momento ch'ei verrebbe affidato al suo tutore. Con tutto ciò la sua morte fu preceduta dalla prigionia, e dalla condanna di sua madre. Dopo avere il tiranno macchiata la fama dell'Imperatrice Maria, ed eccitate contro lei le passioni della moltitudine, la fece accusare e giudicare di una rea corrispondenza col Re d'Ungaria. Lo stesso figlio d'Andronico, giovine pieno d'onore e d'umanità, confessò l'orrore che gl'inspirava quell'atto odioso, e tre dei giudici ebbero il merito di preferire la loro coscienza alla propria sicurezza; ma gli altri, sottomessi alle volontà dell'Imperatore, senza dimandare nessuna prova, e senz'ammettere alcuna difesa, condannarono la vedova di Manuele, e lo sgraziato suo figlio ne segnò la sentenza di morte. Maria fu strozzata; si gittò il suo corpo in mare, e se ne bruttò la memoria nel modo che offende più d'ogni altra cosa la vanità delle donne, disfigurandone la bellezza in una caricatura deforme. Il supplicio di suo figlio non fu lungo tempo differito; fu strangolato colla corda d'un arco. Sordo Andronico alla pietà e ai rimorsi, esaminato il corpo di quell'innocente giovinetto, lo calpestò villanamente, esclamando: «Tuo padre era un birbante, tua madre una prostituta, e tu eri uno stolido.»

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
22 ekim 2017
Hacim:
410 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain