Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 9», sayfa 9
A. D. 976
Durante quest'usurpazione, o se vuolsi reggenza di dodici anni, i due Imperatori legittimi, Basilio e Costantino, erano arrivati senza fama all'età virile. Per la giovinezza loro non s'era potuto lasciare ad essi l'autorità; s'erano contenuti verso il tutore con quella rispettosa modestia dovuta alla sua età, e al suo merito, e questi, che non avea figli, non pensò a privarli della corona: amministrò fedelmente e saggiamente il lor patrimonio, e però la morte prematura di Zimiscè fu pei figli di Romano una perdita più che un vantaggio. Per difetto d'esperienza dovettero vegetare ancora nella oscurità altri dodici anni, sotto la tutela d'un ministro che prolungò il suo dominio col persuaderli a darsi in braccio ai divertimenti giovanili, e coll'ispirare in essi fastidio per le occupazioni del Governo. Il debole Costantino si rimase per sempre allacciato nelle reti di seduzione, tese d'intorno a lui: ma il suo fratello maggiore, che sentiva gl'impulsi d'un animo grande, e il bisogno d'operare, aggrottò il ciglio, e il ministro disparve. Basilio fu riconosciuto per sovrano di Costantinopoli, e delle province d'Europa. Ma l'Asia era oppressa da Foca e da Sclero, che ora amici ora nemici, ora sudditi ed ora ribelli, si mantenevano independenti, e si ingegnavano di procacciarsi la fortuna di tanti usurpatori che li aveano preceduti. Contro questi nemici domestici primieramente balenò la spada del figlio di Romano, ed essi tremarono davanti a un principe, armato di coraggio e della forza delle leggi. Sul punto di combattere, Foca colto da un dardo, se pure non fu per effetto di veleno, cadde di cavallo nella fronte del suo esercito. Sclero, che due volte era stato carico di catene, e due volte vestito della porpora, bramava di terminar tranquillamente i pochi giorni che gli restavano. Quando questo vecchio, cogli occhi bagnati di lagrime, con piè vacillanti, e appoggiato a due uomini del suo seguito, s'appressò al trono, l'Imperatore con tutta l'insolenza della gioventù e del potere, esclamò: «È questi dunque l'uomo, che abbiam temuto per tanto tempo?» Basilio s'era fatto forte sul trono, ed aveva richiamata la quiete nell'Impero; ma pensando alla gloria militare di Niceforo e di Zimiscè, non potea dormire tranquillo nel suo palazzo. Le lunghe e frequenti imprese da lui fatte contra i Saracini, furono più gloriose che profittevoli allo Stato; ma distrusse il reame dei Bulgari, e pare che questo fosse il più gran trionfo dell'armi romane, dal tempo di Belisario in poi. Pure i suoi sudditi, invece di decantare un principe vittorioso, ne detestarono l'avidità e l'avarizia; e nel racconto imperfetto che ci rimase delle sue imprese, non si vede che il coraggio, la pazienza e la ferocia d'un soldato. Il suo spirito era stato guasto da un'educazione viziosa; ma non avea per questo perduta la sua energia; era ignaro d'ogni maniera di scienze, e pareva, che la ricordanza del suo avolo, così dotto e così debole a un tempo, scusasse il suo disprezzo, o vero o finto, per le leggi e pei giureconsulti, per le arti e per gli artisti. Con tal carattere, ed in quel secolo, dovea prendere la superstizione un dominio saldo e sicuro: dopo le prime sregolatezze della gioventù, Basilio II si sottomise e in Corte e in campo a tutto le mortificazioni d'un romito; portava una cocolla sotto l'abito e sotto l'armatura; fece voto di continenza, e l'osservò, e interdisse a sè stesso per sempre l'uso del vino e della carne. Nell'età di sessantott'anni, sospinto dal suo genio marziale, era in procinto d'imbarcarsi per una santa spedizione contro i Saracini della Sicilia; lo prevenne la morte, e Basilio soprannominato il terrore dei Bulgari, lasciò questo Mondo in mezzo alle benedizioni del clero, e alle imprecazioni del popolo. Dopo lui, suo fratello, Costantino, godette per tre anni circa il potere, o piuttosto i piaceri del regno, e non si prese per l'Impero altra cura che quella di scegliersi un successore; aveva portato sessantasei anni il titolo di Augusto, e il regno di questi due fratelli è il più lungo e il più oscuro della monarchia di Bizanzio.
Per tal successione in retta linea di cinque Imperatori della stessa famiglia, che aveano occupato il trono in un periodo di cento sessant'anni, s'erano affezionati i Greci alla dinastia Macedone, rispettata tre volte dagli usurpatori del potere. Morto Costantino IX, l'ultimo maschio di quella Casa apre una nuova scena meno regolare, in cui la durata del regno di dodici Imperatori non giunge a quella del regno di Costantino IX. Il suo fratel maggiore avea preposto all'interesse pubblico il merito particolare della castità, e Costantino non avea avuto che tre figlie; Eudossia che si fece religiosa, Zoe e Teodora: erano già venute mature d'anni nell'ignoranza e nella verginità, quando nel Consiglio del padre moribondo si trattò di maritarle. Teodora, troppo devota, o di troppo freddo temperamento, non volle dare un erede all'Impero; ma Zoe consentì di presentarsi, vittima volontaria, all'altare. Le fu destinato a marito Romano Argiro, patrizio, leggiadro di persona, e di nome accreditato; al ricusare ch'ei fece un tal onore, gli si dichiarò, che non obbedendo, non gli restava che la scelta fra la morte e la perdita della vista. Era egli ammogliato, e il motivo della sua resistenza era appunto l'amore, ch'avea per la moglie; ma questa donna generosa sagrificò la propria felicità alla sicurezza e grandezza del marito, e chiudendosi in un monastero, tolse di mezzo l'unico ostacolo, che gl'impedia di unirsi alla famiglia imperiale. Dopo la morte di Costantino, passò lo scettro nelle mani di Romano III; ma la sua amministrazione interna, e le sue esterne imprese furono parimenti deboli ed infruttifere; l'età di Zoe, giunta in allora al quarantottesimo anno, la rendette poco atta a dare grandi speranze di posterità; pure acconsentiva ancora ai piaceri amorosi, e di fatto onorava l'Imperatrice del suo favore uno de' suoi ciamberlani, il bel Michele di Paflagonia, il cui primo mestiere era stato quello di cambiator di monete. Per gratitudine o per ispirito di giustizia secondava Romano questo colpevole amore, o credeva di leggieri alle prove della loro innocenza; ma non andò guari, che Zoe verificò quella massima romana, che una moglie adultera è capace d'avvelenare il marito; la morte di Romano, a grande scandolo dell'Impero, fu tosto seguita dal matrimonio di Zoe, e dall'avvenimento del suo amante al trono sotto il nome di Michele IV. Varie furono però le speranze di Zoe; in vece d'un amante pieno di vigore e di gratitudine, non aveva essa posto nel talamo che un miserabile infermiccio, la salute e la ragione del quale erano indebolite da accessi d'epilepsia, e lacerata la coscienza dalla disperazione e dai rimorsi. Si chiamarono in soccorso di Michele i medici i più famosi del corpo e dell'anima; si cercava di divertirne la inquietudine con frequenti viaggi alle acque, e sulle tombe dei Santi i più rinomati. Applaudivano i monaci alle sue mortificazioni, e, toltane la restituzione, (ma a chi avrebb'egli restituito?) impiegò tutti i modi, che allora credeva più opportuni ad espiare la colpa. Mentr'egli andava gemendo e pregando sotto il sacco e la cenere, suo fratello, l'eunuco Giovanni, prendea diletto de' suoi rimorsi, e raccoglieva i frutti d'un delitto, di cui era stato in secreto il più colpevole autore. Non ebbe nella sua amministrazione altro scopo che quello di contentare la propria avarizia; e fu Zoe trattata da schiava nel palazzo dei suoi padri, e da' suoi servi medesimi. Accorgendosi l'eunuco, essere la malattia di suo fratello irremediabile, pensò a far la sorte di suo nipote, che portava anch'egli il nome di Michele, soprannominato Calafate dal mestiere di suo padre, che lavorava alla carena dei vascelli. Seguì Zoe le volontà dell'eunuco; adottò per suo figlio il figlio d'un operaio, e questo erede straniero venne, alla presenza del senato e del clero, vestito del titolo e della porpora dei Cesari. La debole Zoe fu oppressa dalla libertà e dal potere ch'ella ricuperò alla morte del marito; pose quattro giorni dopo la corona sul capo di Michele V, il quale con lagrime e giuramenti le avea promesso d'esser sempre il più pronto e il più obbediente de' suoi sudditi. Il suo regno durò poco, ed altro non offre che un esempio odioso d'ingratitudine verso l'eunuco e l'Imperatrice, suoi benefattori. Si vide con gioia la disgrazia dell'eunuco; ma susurrò Costantinopoli, e lamentossi alla fine altamente dell'esilio di Zoe, figlia di tanti e tanti Imperatori. I vizi di lei vennero dimenticati, ed imparò Michele, che matura un tempo, in cui la pazienza degli schiavi più vili dà luogo al furore ed alla vendetta. I cittadini d'ogni classe tumultuarono in folla, e quella spaventevole sedizione durò pur tre giorni; assediarono il palazzo, sforzarono le porte, levarono di prigione la lor madre Zoe, Teodora di Monastero, e dannarono il figlio di Calafate a perdere gli occhi o la vita. Videro i Greci con maraviglia sedere per la prima volta sul medesimo trono due donne, presiedere al Senato, e dare udienza agli Ambasciatori delle nazioni. Un governo così singolare non durò che due mesi. Le due Imperatrici si detestavano secretamente; avevano esse caratteri, interessi, e partigiani opposti. Sempre contraria Teodora al matrimonio, Zoe invece infaticabile, in età di sessant'anni, consentì tuttavia, pel ben pubblico, a soffrire le carezze d'un terzo marito, e ad incontrare le censure della Chiesa greca. Questo terzo marito prese il nome di Costantino X, e il soprannome di Monomaco, solo combattente, parola ch'ebbe origine certamente dal valore da lui manifestato o dalla vittoria da lui riportata in qualche pubblica, o privata quistione. Ma i dolori della gotta lo tormentavano spesse volte, e un tal regno dissoluto non presentò che un'alternativa d'infermità e di piaceri. La bella vedova Sclerena di nobile famiglia, che aveva accompagnato Costantino al suo esilio nell'isola di Lesbo, andava superba del nome di sua favorita. Dopo le nozze di Costantino, e l'innalzamento di lui al soglio, fu dessa investita del titolo d'Augusta; la magnificenza della sua casa fu proporzionata a quella dignità, ed abitò nel palazzo un appartamento contiguo a quello dell'Imperatore. Zoe (tanta fu la sua delicatezza, ovvero corruzione) permise quello scandaloso convivere, e presentossi Costantino in pubblico fra la moglie e la concubina. Sopravvisse all'una e all'altra; ma la vigilanza degli amici di Teodora, giunse in tempo a sturbare i disegni di Costantino, il quale, sul finir de' suoi giorni, volea cangiare l'ordine della successione; dopo la sua morte, rientrò essa, per consenso dei popoli, in possessione del suo retaggio. Quattro eunuchi governarono in pace, sotto il nome di lei, l'Impero d'Oriente; e volendo prolungare il loro dominio, esortarono l'Imperatrice, in età allora molta avanzata, di nominare Michele VI, suo successore. Dal soprannome di Stratiotico si conosce, aver esso abbracciata la profession militare; ma quel veterano, infermo e decrepito, non poteva vedere che cogli occhi dei suoi ministri, e operare colle lor mani. Mentr'egli andava innalzandosi al trono, Teodora, ultimo rampollo della dinastia macedonica o basilica, scendeva nel sepolcro. Trascorsi velocemente, e sono giunto con piacere alla fine di questo vergognoso e distruttivo periodo di ventott'anni, durante il quale oltrepassarono i Greci il comun limite della servitù, e, quasi vil gregge, furono trasportati da padrone in padrone a capriccio di due femmine vecchie.
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Rompe la notte di quella servitù un qualche lampo di libertà, o una scintilla almeno di coraggio. Avevano i Greci conservato o ristabilito l'uso dei soprannomi, che perpetuano la memoria delle virtù ereditarie; e possiamo oramai distinguere il principio, la successione e le alleanze dell'ultime dinastie di Costantinopoli e di Trebisonda. I Comneni, che sostennero per qualche tempo l'Impero nel suo crollare, si diceano nativi di Roma; ma era la loro famiglia domiciliata da molto tempo in Asia. I loro retaggi patrimoniali trovavansi nel distretto di Castamona, nei dintorni dell'Eusino; ed uno de' loro Capi, impelagato già nel mare dell'ambizione, rivedea con tenerezza e forse con dispiacere il misero tugurio, ma onorevole, de' suoi padri. Il primo personaggio conosciuto di quella stirpe, fu l'illustro Manuele, che, regnante Basilio II, colle sue battaglie, e co' suoi negoziati giunse a calmare le turbolenze dell'Oriente. Lasciò due figli in tenera età, Isacco e Giovanni, che colla certezza del merito legò alla gratitudine e al favore del sovrano. Furono que' nobili giovani diligentemente ammaestrati in tutto ciò che insegnavano i monaci, nelle arti del palazzo, e negli esercizi della guerra; e dopo, aver servito nelle guardie, giunsero ben tosto al comando degli eserciti e delle province. La loro fraterna unione raddoppiò la forza ed il credito dei Comneni. Crebbero lo splendore della loro antica famiglia, unendosi l'uno con una principessa di Bulgaria, ch'era cattiva, e l'altro colla figlia d'un patrizio soprannomato Caronte, a motivo dei moltissimi nemici da lui spediti al fiume Stige. Aveano servito le schiere, loro malgrado, ma sempre fedelmente, una caterva di effeminati Imperatori. Era l'innalzamento di Michele VI un oltraggio a' Generali più prodi di lui; la parsimonia di questo principe, e l'insolenza degli eunuchi aumentavano il disgusto di quelli. Si radunarono di nascosto nella chiesa di Santa Sofia; e si sarebbero raccolti i suffragi di quel Sinodo militare in favore di Catacalone, vecchio e prode guerriero, se, per un sentimento di patriottismo o di modestia, non avesse loro quel rispettabile veterano ricordato, che la nobiltà dei natali e il merito devono essere congiunti in colui che si vuole incoronato. Isacco Comneno unì tutti i voti. I congiurati si separarono senza dilazione, e si condussero nelle pianure della Frigia, capitanando le loro schiere, e i loro rispettivi distaccamenti. Non potè Michele sostenere che una battaglia; ei non avea sotto le sue bandiere che i mercenarii della guardia imperiale, stranieri all'interesse pubblico, ed animati soltanto da un principio d'onore e di gratitudine. Dopo la loro sconfitta, pieno di spavento chiese l'Imperatore un trattato, e tale era la moderazione d'Isacco Comneno, che già vi acconsentiva; ma venne Michele tradito da' suoi ambasciatori, e Comneno avvertito da' suoi amici. Il primo, abbandonato da tutti, si sottomise al voto del popolo; il Patriarca sciolse la nazione dal giuramento prestato di fedeltà; e nel punto ch'ei rase il capo dell'Imperatore, che rilegavasi in un monastero, si congratulò seco, ch'egli cangiasse una corona terrestre col regno de' cieli; cambio però che quell'ecclesiastico non avrebbe probabilmente accettato per sè medesimo. Lo stesso Patriarca coronò solennemente Isacco Comneno; potè la spada, ch'ei fece incidere sulle monete, essere risguardata come un simbolo insultante, se indicar volea il diritto di conquista, ch'avea assicurato il trono a Comneno; ma quella spada era stata sguainata contro i nemici dello Stato, stranieri o domestici. Lo scadimento di salute e di forze ne scemò l'attività; scorgendosi vicino a morire, determinossi di porre qualche intervallo fra il soglio e l'eternità. Ma in vece di lasciare l'Impero in dote a sua figlia, cedeva egli alla ragione ed alla inclinazione che l'eccitavano a consegnare lo scettro nelle mani di suo fratello Giovanni, principe guerriero e patriotta, e padre di cinque figli, che mantener doveano la corona nella famiglia. Nei modesti rifiuti di costui si potè da principio ravvisare un naturale effetto della considerazione e dell'attaccamento che avea pel fratello, e per la nipote; ma, nella sua inflessibile ostinazione in ricusare l'Impero, avvegnachè abbellita dai colori della virtù, condannar si dee una colpevole dimenticanza del proprio dovere, e una vera ingiuria, e non comune, verso la famiglia e la patria. La porpora, che ei non volle mai ricevere, fu accettata da Costantino Ducas, amico della Casa dei Comneni, e che univa a nobili natali l'abitudine delle funzioni civili, e credito in sì fatto genere di cose. Isacco si ritirò in un convento, dove ricuperò la salute, e sopravvisse due anni all'abdicazione, obbediente agli ordini del suo abate. Seguì la Regola di S. Basilio, e fece gli uffizi i più servili del chiostro; ma l'avanzo di vanità, che sotto l'abito monastico conservava tuttavia, venne appagato dalle visite frequenti e rispettose, ch'ei ricevè dall'Imperator regnante, dal quale era venerato qual benefattore e qual Santo.
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Se fu in realtà Costantino XI l'uomo il più degno dello scettro imperiale, bisogna compiangere la degenerazione del suo secolo e del suo popolo. Datosi egli a comporre puerili declamazioni, che non gli poterono ottenere la corona dell'eloquenza, a' suoi occhi più preziosa di quella di Roma, tutto intento agli uffici subalterni di giudice, pose in non cale i doveri di sovrano e di guerriero. Anzi che imitare la patriottica indifferenza degli autori del suo innalzamento, pareva non avere altro a cuore Ducas che il potere e la fortuna dei figli, a danno anche della Repubblica. Michele VII, Andronico I, e Costantino XII, suoi tre figli, ebbero in tenera età il titolo d'Augusti; la morte del padre, avvenuta non guari dopo, lasciò loro l'Impero da dividere. Affidò, morendo, l'amministrazione dello Stato ad Eudossia, sua moglie; ma dall'esperienza aveva egli imparato ch'ei dovea preservare la prole dai pericoli d'un secondo matrimonio; promise Eudossia di non rimaritarsi, e questa solenne protesta, sottoscritta dai principali senatori, fu depositata nelle mani del Patriarca. Non erano trascorsi per anche sette mesi, quando le bisogne d'Eudossia, o quelle dello Stato, parlarono altamente in favore delle maschie virtù di un soldato; aveva il cuore di lei già prescelto Romano Diogene, che dal palco di morte aveva condotto al soglio. La scoperta d'una rea trama l'esponeva a tutto il rigor delle leggi; la bellezza e il valore lo giustificarono agli occhi dell'Imperatrice; lo condannò primieramente ad un esilio poco doloroso, e il secondo giorno lo richiamo per farlo capitano degli eserciti dell'Oriente. Ignorava il Pubblico allora ch'essa gli destinasse la corona, e uno de' suoi mandatarii seppe giovarsi dell'ambizione del Patriarca Sifilino per trargli di mano lo scritto, che avrebbe svelato ad ognuno la mala fede, e la leggierezza dell'Imperatrice. Invocò da principio Sifilino la santità dei giuramenti, e la venerazione dovuta ai depositi; ma gli si diede ad intendere ch'Eudossia far volea Imperatore il fratello di lui; i scrupoli allora si dissiparono, e confessò che la pubblica sicurezza era la legge suprema; cedè lo scritto rilevante, e alla nomina di Romano, perdendo ogni speranza, ei non poteva nè ricuperare la carta che lo salvava, nè disdire il detto, nè opporsi alle seconde nozze dell'Imperatrice. Udivansi però nel palazzo alcuni susurri; i Barbari che lo custodivano agitavano le loro accette in favore della Casa di Ducas, nè si acquetarono mai fino a tanto che furono i giovani principi calmati dalle lagrime d'Eudossia, e dalle solenni proteste che ricevettero della fedeltà del loro tutore, che sostenne con gloria e dignità il titolo d'Imperatore. Narrerò più innanzi l'infruttuoso valore, che egli oppose ai progressi dei Turchi. La sconfitta e prigionia di lui portarono una ferita mortale alla monarchia di Bizanzio; e, posto dal Sultano in libertà, non trovò nè la moglie, nè i sudditi. Era stata Eudossia chiusa in un monastero, e aveano i sudditi di Romano abbracciata quella rigida massima di legge civile, che un uomo in poter del nimico è privo dei diritti pubblici e particolari di cittadino, come colpito da morte. In mezzo alla generale costernazione, fece valere il Cesare Giovanni l'inviolabile diritto de' suoi tre nipoti: Costantinopoli l'ascoltò, e Romano, in potere allora dei Turchi, fu dichiarato nimico della Repubblica, e ricevuto per tale alle frontiere. Non fu più felice contra i suoi sudditi, di quel che era stato contro gli stranieri: la perdita di due battaglie il determinò a cedere il trono sulla promessa d'un trattamento onorevole; ma privi di buona fede e d'umanità, lo privarono i suoi nemici della vista, e sdegnando perfino di stagnare il sangue che usciva dalle sue piaghe, vel lasciarono corrompersi, di modo che fu libero ben tosto dalle miserie della vita. Sotto il triplice regno della Casa di Ducas, furono i due fratelli cadetti ridotti ai vani onori della porpora; era il maggiore, il pusillanime Michele, incapace di reggere le redini del Governo; e il soprannome datogli di Parapinace annunciò il rimprovero che gli si facea, e che divideva con uno de' suoi avidi favoriti, d'avere aumentato il prezzo del grano, e diminuitane la misura. Fece il figlio d'Eudossia nella scuola di Psello, e coll'esempio della madre, qualche progresso nello studio della filosofia e della rettorica; ma il carattere di lui fu piuttosto macchiato che nobilitato dalle virtù d'un monaco, e dal sapere d'un sofista. Incoraggiati dal disprezzo che loro inspirava l'Imperatore, e dalla buona opinione che aveano di sè medesimi, capitanando le legioni dell'Europa e dell'Asia, vestirono due Generali la porpora in Andrinopoli e in Nicea; si ribellarono lo stesso mese; portavano l'ugual nome di Niceforo, ma veniano distinti dal soprannome di Briennio e di Botoniate. Era il primo in allora in tutta la maturità della saggezza e del coraggio; non era il secondo commendevole che per imprese già fatte. Mentre avanzavasi Botoniate con circospezione e lentezza, il suo competitore, più attivo, trovavasi in arme dinanzi le mura di Costantinopoli. Godeva Briennio il credito e il favore del popolo; ma non seppe impedire a' suoi eserciti di saccheggiare ed ardere un sobborgo, e il popolo, che avrebbe accolto il ribelle, rispinse l'incendiario della patria. Questo cangiamento nella pubblica opinione tornò a favore di Botoniate, che s'avvicinò finalmente con un esercito di Turchi alle spiagge di Calcedonia. Si pubblicò per ordine del Patriarca, del Sinodo e del Senato, nelle contrade di Costantinopoli, un invito a tutti i cittadini della capitale, di raunarsi nella chiesa di Santa Sofia, e si deliberò, in quel Concilio generale, tranquillamente e senza disordine, intorno alla scelta d'un Imperatore. Avrebbero potuto le guardie di Michele disperdere quella moltitudine inerme; ma il debole principe, compiacendosi della propria moderazione e clemenza, si spogliò delle insegne reali, ed accettò invece l'abito di monaco, e il titolo d'Arcivescovo d'Efeso. Nacque Costantino suo figlio, e venne allevato nella porpora, e una figlia della Casa di Ducas illustrò il sangue, e consolidò il trono nella famiglia dei Comneni.
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Aveva Giovanni Comneno, fratello dell'Imperatore Isacco, dopo il suo generoso rifiuto della corona, passato il rimanente de' suoi giorni in un riposo onorevole. Lasciava otto figli d'Anna, sua sposa, donna d'un coraggio e d'una abilità superiori al suo sesso, e moltiplicarono tre figlie le alleanze dei Comneni coi più nobili tra i Greci. Una morte immatura tolse dal Mondo il maggiore de' suoi cinque figli Manuele; Isacco ed Alessio giunsero all'Impero, e restaurarono la grandezza imperiale della lor Casa; Adriano e Niceforo, i più giovani, ne godettero senza fatica e senza pericolo. Alessio, il terzo e il più stimabile di tutti, era stato dotato dalla natura delle qualità le più preziose del corpo e dello spirito: sviluppate queste da un'educazion liberale, erano state in processo di tempo esercitate nella scuola dell'obbedienza e dell'avversità. L'Imperatore romano, per affetto paterno, non volle permettergli d'esporsi nella guerra dei Turchi; ma la madre dei Comneni venne compresa con tutta la sua ambiziosa famiglia, in un'accusa di delitto di lesa maestà, e sbandita dai figli di Ducas in un'isola della Propontide. Non andò guari che i due fratelli ne uscirono per segnalarsi, e per venire in favore. Combatterono, senza dividersi, i ribelli e i Barbari, e rimasero affezionati all'Imperatore Michele, fino a tanto che venne egli abbandonato da tutti e da sè medesimo. Nel primo abboccamento ch'egli ebbe con Botoniate «Principe, gli disse Alessio con nobile candore, m'avea reso il dovere vostro nimico, i decreti di Dio e quelli del popolo m'han fatto vostro suddito; giudicate della mia fedeltà futura dalla mia passata opposizione». Onorato dalla stima e dalla confidenza del successor di Michele fe' mostra del suo valore contro tre ribelli che turbavano la pace dell'Impero, o quella almeno degl'Imperatori. Ursello, Briennio e Basilacio, formidabili pei loro numerosi eserciti e per la lor fama di prodi guerrieri, furono vinti l'un dopo l'altro, e, carichi di catene, condotti al piede del trono; e sia qualsivoglia il modo con cui vennero trattati da una Corte timida e crudele, magnificarono essi la clemenza e il coraggio del loro vincitore. Ma ben tosto alla fedeltà dei Comneni s'unirono il timore e il sospetto, nè è facil cosa il bilanciare tra un suddito e un despota il debito di gratitudine, che il primo è pronto ad esigere con una rivolta, e di cui è tentato il secondo di liberarsi per la mano d'un carnefice. Avendo Alessio ricusato di marciare contra un quarto ribelle, marito di sua sorella, cancellò un tale rifiuto il merito od anche la memoria de' suoi servigi. Provocarono i favoriti di Botoniate colle loro accuse l'ambizion che temevano, e la fuga dei due fratelli può avere per iscusa la necessità di difendere la libertà e la vita. Alle donne di quella famiglia venne assegnato un asilo, rispettato dai tiranni; gli uomini uscirono a cavallo dalla città, e inalberarono lo stendardo della ribellione; i soldati, che a poco a poco eransi raunati nella capitale e nei dintorni, erano consegrati alla causa d'un Capo vittorioso e vilipeso: interessi comuni ed alleanze congiunsero a lui la Casa di Ducas. I due Comneni si rimandavano a vicenda il trono, e questa disputa generosa non cessò che colla risoluzione d'Isacco, il quale rivestì suo fratello cadetto del nome e degli emblemi reali. Ritornarono sotto le mura di Costantinopoli piuttosto per minacciare che per assediare quella inespugnabile città; ma corrupero essi la fedeltà delle guardie, e sorpresero una porta, mentre stava difendendosi la flotta contro l'attivo e coraggioso Giorgio Paleologo, che in quella circostanza combattea suo padre, senza riflettere ch'ei sudava pe' suoi discendenti. Alessio venne incoronato, e il vecchio competitore di lui sepolto sotto le tacite volte d'un monastero. Un esercito composto di soldati di diverse nazioni ottenne il saccheggio della città; ma quei disordini pubblici furono espiati dalle lagrime e dai digiuni dei Comneni, che si sottomisero a tutte le penitenze compatibili colla possession dell'Impero.
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La vita dell'Imperatore Alessio è stata scritta dalla prediletta delle sue figlie. La principessa Anna Comnena, inspirata dalla sua tenerezza e dal desiderio lodevole di perpetuare le virtù del padre, s'avvide benissimo che dubiterebbero i lettori della veracità di lei. Protesta a più riprese che oltre i fatti giunti a sua cognizione personale, andò ricercando i discorsi e gli scritti di tutti coloro, che hanno vissuto sotto il regno d'Alessio; che dopo uno spazio di trent'anni, dimenticata dal Mondo, ch'essa medesima ha dimenticato, la sua trista solitudine è inaccessibile alla speranza e al timore, e che la verità, la semplice e rispettabile verità, l'è più sacra che la gloria del padre; ma in vece di quella semplicità di scrivere e di narrare che persuade a credere, uno sfoggio affettato di sapere e di falsa rettorica lascia ad ogni pagina vedere la vanità d'un'autrice. Il vero carattere d'Alessio è coperto sotto un bel cumulo di virtù; un tuono perpetuo di panegirico e d'apologia ci desta sospetto, e ci fa dubitare della veracità dello scritto, e del merito dell'eroe. Non si può nondimeno negare la verità di quest'importante osservazione: che i disordini di quell'epoca furono la disgrazia e la gloria d'Alessio; e che i vizi de' suoi predecessori, e la giustizia del ciclo ammassarono sul regno di lui tutte le calamità, che affligger possono un Impero nella sua decadenza. Avevano i Turchi vittoriosi fondato in Oriente, dalla Persia all'Ellesponto, il regno del Koran e della Mezza Luna: il valore cavaleresco de' popoli della Normandia invadea l'Occidente; e negli intervalli di pace, recava il Danubio nuovi sciami di guerrieri, che acquistato avevano nell'arte militare quello che avevano perduto dal lato della fierezza de' costumi. Non era il mare più tranquillo del Continente, e mentre un nimico aperto assaliva le frontiere, agitavano l'interno del palazzo traditori e congiurati. Spiegarono i Latini improvvisamente lo stendardo della Croce: precipitossi l'Europa sull'Asia, e tale inondazione fu in procinto d'inghiottire Costantinopoli. Durante la procella, governò Alessio il naviglio dell'Impero con pari destrezza e coraggio. Guidava gli eserciti, animoso, accorto, paziente, infaticabile approfittava de' suoi vantaggi, e sapeva risorgere da una rotta con tanto vigore, che niente lo poteva abbattere. Ristabilì la disciplina tra le schiere; e coi precetti e coll'esempio creò una nuova generazione d'uomini e di soldati. Dimostrò ne' trattati coi Latini tutta la sua pazienza e sagacità; l'occhio suo penetrante comprese di volo il nuovo sistema di que' popoli dell'Europa, ch'ei non conosceva; e in un altro luogo verrò esponendo le mire superiori colle quali bilanciò gl'interessi, e le passioni dei capitani della prima Crociata. Durante i trent'anni del suo regno, seppe frenare e compatire l'invidia, ch'egli destava ne' suoi uguali; rimise in vigore le leggi relative alla tranquillità tanto dello Stato che dei particolari; si coltivarono l'arti e le scienze; i confini dell'Impero, si estesero sì in Europa come in Asia; e la famiglia dei Comneni conservò lo scettro fino alla terza e alla quarta generazione. La difficoltà non di meno de' tempi, in che visse, pose in chiaro alcuni difetti del suo carattere, e ne espose la memoria a rimproveri bene o mal fondati. Sorride il lettore agl'infiniti elogi che Anna tributa sì spesso all'eroe fuggiasco; si può, nella debolezza, o nella prudenza a cui lo costrinsero le critiche circostanze, sospettare un difetto di coraggio personale, e i Latini trattano di perfidia e di dissimulazione l'arte ch'egli usò nei negoziati. Il numero grande degli individui d'ambo i sessi, che in allora contava la sua famiglia, accresceva lo splendore del trono, e ne accertava la successione; ma il loro lusso ed orgoglio ributtarono i patrizi, esaurirono il regio erario e oltraggiarono la miseria del popolo. Sappiamo dalla fedele testimonianza d'Anna Comnena, che le fatiche dell'amministrazione distrussero la felicità, e indebolirono la salute d'Alessio: la lunghezza e severità del suo Regno stancarono Costantinopoli, e quando morì, aveva perduto l'amore e il rispetto de' suoi sudditi. Non gli poteva il clero perdonare d'essersi servito delle ricchezze della Chiesa in difesa dello Stato; ma il medesimo clero ne lodò le cognizioni teologiche, e l'ardente zelo per la Fede ortodossa, ch'egli sostenne coi discorsi, colla penna e colla spada. Il suo carattere venne impicciolito dall'animo superstizioso de' Greci; e uno stesso principio, irregolare ne' suoi effetti, lo condusse a fondare uno spedale pei malati e pei poveri, e a comandare il supplicio d'un eretico che fu arso vivo sulla piazza di Santa Sofia. Coloro che avevano seco lui vissuto intimamente, sospettarono perfino delle sue morali e religiose virtù. Allorchè, giunto agli estremi, lo andava Irene, sua moglie, sollecitando a cangiar l'ordine della successione, alzò il capo, e rispose con un sospiro accompagnato da una pia esclamazione sulla vanità di questo Mondo. Sdegnata l'Imperatrice, gl'indirizzò queste parole, che si sarebbero dovuto scolpire sulla sua tomba: «Tu muori come vivesti, da IPOCRITA.»