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Kitabı oku: «I minatori dell' Alaska», sayfa 20

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XXXVI – UN NEMICO MISTERIOSO

Per quattordici giorni i minatori continuarono a scavare, seguendo il filone aurifero e accumulando l’oro in grande quantità; al quindicesimo quel lavoro febbrile, faticosissimo, cessò improvvisamente. Dopo aver trovato parecchie tasche, ossia buche ripiene di pepite di diverse dimensioni che variavano dalla grossezza di una fava a quella di un piccolo pisello, si trovarono dinanzi a un enorme blocco di quarzo durissimo, assolutamente inattaccabile. Quella massa rocciosa si stendeva in direzione di un profondo burrone confinante con una delle due cascate, ed era così grossa e così solida da sfidare non solo i picconi, ma anche le mine. Dopo aver cercato a più riprese di scavare a diverse profondità con la speranza di trovare più sotto la continuazione del filone, dovettero convincersi dell’inutilità dei loro sforzi. Ritornarono al principio del claim facendo diversi assaggi, per trovare da quella parte la continuazione del filone, e dopo numerose buche riuscirono a trovare ancora la sabbia aurifera. S’accorsero ben presto che non aveva la ricchezza dello strato aurifero fino allora seguito, poiché lo sluice, in due giornate di lavoro non diede che due chilogrammi d’oro.

– Corna di bisonte!… – esclamò Bennie. – Seicento dollari sono molti, ne convengo, e certo i claims della California più ricchi non producono di più, tuttavia sono pochi per noi. Continuando così, non diventeremo mai milionari.

– Possiamo accontentarci di guadagnarci cento dollari al giorno per ciascuno, amico Bennie – disse Armando. – Voi diventate molto esigente.

– Sono pochi, Armando.

– Trovatemi voi dunque un paese dove uno zappatore possa guadagnare tanto.

– Avete ragione, però eravamo abituati a guadagnare troppo per accontentarci di queste miserie.

– Le chiamate miserie!… Oh!… Il milionario!…

– Per noi, sì, signor Falcone; a quanto ammonta l’oro che abbiamo estratto in questi giorni?

– A centosessanta chili – rispose il meccanico.

– Ossia?…

– A centomila dollari.

– Addio milioni!

– Abbiamo appena cominciato, Bennie.

– Sono diciassette giorni che lavoriamo, signore.

– E non siete contento? Pensate che avete in tasca quasi ventimila dollari.

– Non si compera una città con questa somma.

– Allora cercate un claim più ricco.

– Credo che non si debba faticare molto a cercarlo, amici miei.

Un «oh» di stupore accolse quelle parole.

– Parlate, Bennie!… – dissero tutti.

– Prima una domanda; credete, signor Falcone, che nel Barem si trovi dell’oro?

– Certamente: ho esaminato l’altro giorno le sue sabbie, ed ho trovato delle pagliuzze d’oro.

– Da dove credete che provenga il prezioso metallo?

– Dai fianchi del Dom.

– Avete osservato la cateratta più grande?

– Sì.

– Alla sua base s’è formata come una immensa vasca, probabilmente assai profonda.

– È vero, Bennie.

– Ebbene, signore, sapete che cosa penso?…

– No, non sono un indovino.

– Che dentro quella vasca debba trovarsi accumulato l’oro trascinato dalla cascata.

Falcone guardò il canadese; era stato vivamente colpito da quella riflessione.

– Ma… sì… può essere… anzi così deve essere, – disse poi.

– E perché allora non andremo a pescare quelle ricchezze?

– Caramba!… – esclamò don Pablo. – Forse ci sono tesori immensi in quel bacino, accumulatisi da secoli e secoli.

– Andiamoli a prendere – disse Back.

– Adagio, amico – rispose Falcone. – Bisognerà prima vedere se potremo mettere le mani su quei tesori. Non avete pensato alla cateratta.

– La devieremo – disse Bennie.

– E poi?

– Vuoteremo il bacino.

– Ci vorranno dei mesi. Però andiamo prima a vedere se c’è la possibilità, con qualche mina, di ottenere il nostro scopo. Quanta polvere possediamo?

– Dodici chilogrammi, senza contare le ottocento cartucce dei nostri fucili – rispose Bennie.

– Venite, amici.

Si diressero verso la cascata che rimbombava a destra della vallata, e giunti al margine del salto, si misero a osservarla attentamente per vedere se ci fosse la possibilità di tentare il lavoro progettato.

Il fiume che scendeva dalla montagna, si precipitava nel bacino inferiore da un’altezza di ben settanta metri, con un rombo assordante. La grande colonna d’acqua andava a raccogliersi in un’ampia vasca circolare, irta di punte rocciose, molto profonda, a quanto pareva, quindi sfuggiva attraverso a un numero infinito di canaletti, i quali passavano sotto una roccia enorme, per poi raccogliersi tre o quattrocento metri più avanti al di là di quell’ostacolo. Quel serbatoio aveva quasi la forma d’un imbuto, però le sue sponde erano così ripide che nessuno avrebbe potuto scenderle, senza l’aiuto di una scala o di una fune. Falcone, dopo un attento esame, si convinse che c’era la possibilità di intraprendere, con buona fortuna, il lavoro ideato dal canadese.

– Sì, – disse, dopo aver riflettuto. – Scavando una mina alla base di quella grande roccia che ostacola il libero passaggio delle acque, si potrebbe vuotare rapidamente il bacino. Quell’ostacolo, già roso dall’acqua, non può offrire molta resistenza e deve cedere sotto l’urto di una grossa carica di polvere. L’unica difficoltà consiste nel deviare la cascata.

– Vi sembra impossibile? – chiese Pablo.

– Forse con un’altra mina si potrebbe riuscire.

– Tentiamo, signore.

– Inonderemo però la vallata.

– Che cosa ce ne importa? Le acque s’apriranno ben presto una nuova strada per rigettarsi nel Barem.

– Seguitemi.

Falcone risalì la riva del fiume per due o trecento passi, cercando un posto propizio per aprire un nuovo varco alle acque. In quel luogo il fiume scorreva fra due sponde rocciose che lo rinserravano come in una morsa.

Esaminò a lungo il corso, rimontando sempre la corrente, poi si fermò nel punto dove il fiume descriveva una brusca curva. Essendo il pendìo del letto molto accentuato, le acque andavano a urtare contro la riva sinistra con tanta furia, da far tremare perfino le rocce che le costringevano a deviare.

– Là, – disse Falcone, indicando la curva. – Se in quel luogo si aprisse un passaggio, la corrente si precipiterebbe attraverso l’apertura, abbandonando definitivamente la cascata.

– Basterà una mina? – chiese Bennie.

– Ne faremo esplodere parecchie in un colpo solo.

– Se riusciremo, diventeremo milionari, signor Falcone. Io sono certo che in fondo alla cascata c’è la cassaforte della montagna.

– Che noi saccheggeremo – disse il messicano, ridendo.

– Senza scrupoli, signore.

– Andiamo a esaminare la riva opposta, amici.

Essendo la corrente rapidissima e profonda e le acque troppo gelate per affrontarle impunemente, furono costretti a improvvisare un ponte servendosi di due giovani pini, i cui tronchi bastavano per attraversare il fiume. Raggiunta la riva sinistra, esaminarono le rocce che dovevano far saltare. L’impeto della corrente le aveva già indebolite e in parte disgregate, quindi non dovevano offrire grande resistenza. Anche senza le mine, un giorno o l’altro avrebbero dovuto egualmente cadere sotto l’urto costante e furioso della massa d’acqua. I cinque minatori, soddisfatti del loro esame, si misero alacremente all’opera. Sei mine furono aperte dietro l’argine roccioso, molto profonde, per poter aprire un grande varco, e caricate ognuna di un chilogrammo di polvere, poi furono preparate le micce. Verso sera furono accese, poi i cinque minatori ripassarono rapidamente il fiume per non venire travolti dall’acqua irrompente attraverso lo squarcio. Le esplosioni non si fecero attendere. I sei chilogrammi di polvere s’accesero quasi simultaneamente, con un rimbombo assordante che si ripercosse nella vallata e nei boschi della montagna L’argine, sventrato dalla forza della esplosione, cedette per un tratto di sessanta metri, lasciando un varco più profondo del letto del fiume Le acque, trovando uno sfogo, si rovesciarono furiosamente attraverso lo squarcio e si precipitarono giù per la china, tutto abbattendo nella loro corsa, e stendendosi per la pianura.

– Hurrà!… hurrà!… – gridarono i minatori che, dalla riva opposta avevano assistito allo scoppio.

– L’oro è nostro!… – esclamò Bennie, gettando in aria il suo cappello. – Fra pochi giorni scenderemo nella cassaforte della montagna!…

Poco dopo, il fragore assordante della cascata cessava bruscamente.

Il fiume ormai aveva abbandonato il vecchio letto e seguiva il nuovo, incanalandosi fra le rocce della vallata e raggiungendo il Barem seicento metri più avanti.

– Alla cascata!… – gridò Falcone

I cinque minatori si diressero verso quella specie d’imbuto gigantesco, e videro che l’acqua era quasi del tutto scomparsa. Solamente qualche rigagnolo, di nessuna importanza, scendeva ancora, lambendo le nere rocce del salto. Però alla base delle rocce rimaneva un bacino largo quaranta e più metri, e lungo quasi altrettanto, probabilmente assai profondo.

– Domani scenderemo, e faremo sparire anche quell’acqua – disse il signor Falcone. – Con una poderosa mina apriremo un varco attraverso la rupe.

– E domani sera saremo milionari!.. – esclamò Bennie, con entusiasmo.

– Voi correte troppo, mio bravo canadese.

– Come!.. Ne dubitate?

– Veramente no, però desidero prima vedere il fondo del bacino per accertarmi.

– Vi dico che troveremo delle masse d’oro, signor Falcone.

– Delle rocce formate tutte di minerale giallo, – disse il meccanico, ridendo. – Che fretta, Bennie!..

– È la febbre dell’oro, signore, – rispose il canadese ridendo. – Che cosa volete? Fa girare la testa!…

Essendo tutti stanchissimi, si ritirarono sotto la tenda e, dopo una parca cena, si sdraiarono sulle loro coperte, senza prendersi cura di destinare gli uomini per la guardia notturna. Non avendo scorto nessun animale pericoloso e nessuna traccia umana, già da qualche sera avevano rinunciato a quelle veglie noiose, ritenendole inutili. Dormivano da parecchie ore, sognando fiumi d’oro e milioni in numero favoloso, quando gli orecchi acuti del canadese furono colpiti da alcuni nitriti. Avendo l’abitudine di dormire con un occhio solo, fu pronto ad alzarsi in piedi, mettendo le mani sul fucile che teneva sempre al fianco.

– Se i cavalli della prateria hanno nitrito, devono aver sentito qualcosa, – mormorò.

Non volendo allarmare i compagni, non svegliò nessuno, e riuscì adagio adagio da quella specie di caverna. La notte era tutt’altro che limpida, non essendoci nè luna, nè stelle, però si poteva scorgere qualcosa a una distanza di trenta o quaranta passi. Guardò sotto la tettoia, e vide che i quattro cavalli erano alzati.

– Che qualche orso sia venuto a ronzare in questi dintorni? – si chiese il canadese. – Finora non abbiamo scorta alcuna traccia di plantigradi. Tuttavia sarebbe il ben venuto, e aumenterebbe considerevolmente le nostre provviste.

Tenendo un dito sul grilletto, fece il giro della tettoia, senza però scorgere nessuno. Un po’ rassicurato, stava per rientrare nella tenda, credendo fosse stato un falso allarme, quando udì il suo mustano nitrire nuovamente.

– Per mille corna di bisonte!… – esclamò il canadese. – Il mio cavallo deve ben avere un motivo per essere così inquieto!

Passò sotto la tettoia, e con suo grande stupore urtò contro alcuni fasci di legna, accatastati in un angolo e che era ben certo di non aver mai visto.

– Mille demoni!… – esclamò, lanciando all’intorno uno sguardo inquisitore. – Chi ha messi qui questi fasci? A che cosa devono servire? Corna di bufalo!… Questo mistero mi fa bollire il sangue!…

Si lanciò verso la tenda, gridando:

– Armando!… Signor Falcone!… I suoi compagni, svegliati di soprassalto da quelle grida, furono pronti a balzare fuori, portando con loro le armi.

– Che cosa succede, Bennie? – chiese Falcone.

– Delle cose inesplicabili, – rispose il canadese.

– Cosa volete dire?

– Qualcuno di voi ha portato dei fasci di legna sotto la tettoia?…

– No – risposero tutti a una voce.

– Siete certi di ciò che dite?…

– Certissimi.

– Ebbene, qualcuno ha cercato di dar fuoco alla tettoia.

– Qualcuno!… E chi?… – chiese il meccanico.

– Non lo so.

– Qualche indiano, forse?…

– Uhm!… – fece Bennie, crollando il capo. – A che scopo? – Per rovinarci i cavalli e forse arrostire anche noi.

– E derubarci dell’oro, – soggiunse Armando.

– È impossibile, signori, – disse don Pablo. – Gli indiani di queste regioni non apprezzano ancora l’oro.

– E chi volete che sia stato?…

– Qualche minatore che ci ha seguiti, spiati e che cercava di immobilizzarci distruggendo i nostri viveri, e rovinandoci anche i cavalli, per impedirci d’inseguirlo.

– E dove si sarà nascosto quel cane?… – gridò Bennie.

– Vi sarà sfuggito.

– È probabile, con questa notte oscura.

– Signori miei, bisogna vegliare anche di notte – disse il messicano.

– E domani batteremo i dintorni, – aggiunse Falcone.

– Frugheremo tutti i boschi – disse Bennie. – Se troveremo qualche furfante vi giuro che gli mando sessanta grammi di piombo nel cranio.

Dopo aver fatto il giro delle rocce ed essersi spinti fino alla cascata, senza aver trovato nulla, i minatori fecero ritorno alla tenda, però due di loro rimasero a guardia della tettoia, sperando di poter sorprendere il briccone.

XXXVII – FRA L’ORO E LA MORTE

L’indomani, quantunque fossero divorati dal desiderio di vuotare la vasca della cascata, Bennie e Armando, Back e don Pablo si mettevano in marcia per esplorare i boschi, essendo risoluti a sbarazzarsi di quel pericoloso individuo che attentava alla loro vita e alle loro ricchezze. Falcone, invece, rimase a guardia della caverna e dei cavalli. Mentre i due messicani si dirigevano verso le montagne, il canadesi e il suo giovane amico, si misero a perlustrare la vallata, visitando i boschi di pini, di cedri e di abeti che crescevano da ambo le parti. Dopo aver esaminato i dintorni, si spinsero sotto i boschi che fiancheggiavano la parte meridionale della valle. Si rimisero in caccia dietro la selvaggina umana, procedendo però con grande precauzione per non venire sorpresi e accolti a colpi di fucile, attraversata la radura, si gettarono nella foresta, ed essendo il suolo umidissimo, scopersero due tracce, così distinte da non potersi ingannare sulla loro qualità.

– Sono le orme di due bianchi – disse Bennie

– Che siano del californiano e del suo amico, il bushranger? – chiese Armando.

– Corna di bufalo!… Se li troviamo, li abbatteremo senza esitare, giovanotto.

Erano giunti al margine della vallata, dinanzi a un massiccio di rupi gigantesche, che s’alzavano verso le montagne. Là gli alberi diventavano rari, e non si vedevano che magri cespugli di cornioli, ribes e rose canine. I due cacciatori si erano fermati dietro il tronco di un cedro, guardando attentamente quelle rocce, per timore di cadere in qualche agguato. Le cime cessavano davanti a una rupe, la quale mostrava numerose fenditure che permettevano di scalarla. Guardando verso la cima, Bennie scorse una spaccatura abbastanza larga da permettere il passaggio a un uomo, e che pareva si addentrasse nel macigno, formando una specie di caverna.

– Che sia il loro rifugio?… – si chiese.

Bennie stava per proporre ad Armando di dare la scalata alla lupe, quando dalla spaccatura vide uscire una leggera colonna di fumo.

– Ah!… – esclamò. – Non mi ero ingannato!

– Sì, sono là dentro, – mormorò Armando.

– E non hanno sospettato la nostra presenza.

– Così deve essere, poiché si sarebbero ben guardati dall’accendere il fuoco.

– Andiamo a sorprenderli, Armando.

– Sì, andiamo, Bennie.

I due cacciatori cambiarono le cartucce ai fucili per essere certi dei loro colpi, e si misero a strisciare nascondendosi prontamente dietro le rocce. Il fumo continuava a uscire però sempre leggero, anzi accennava a diminuire, e nessun rumore si udiva uscire dal crepaccio. Bennie e il suo compagno, strisciando e arrampicandosi con precauzione, per non far rotolare qualche pezzo di roccia, in breve giunsero dinanzi alla spaccatura. Balzare in piedi con i fucili imbracciati, pronti a far fuoco e slanciarsi dentro, fu cosa di un solo istante.

– Fermi o vi uccido!… – urlò il canadese.

Nessuno rispose a quell’intimazione minacciosa. I due cacciatori si trovarono in una spaziosa caverna circolare illuminata da alcuni tizzoni che bruciavano in mezzo a quell’antro. Con loro vivo stupore non videro nessuno. Se mancavano gli uomini, trovarono però numerosi oggetti che indicavano chiaramente come quella caverna fosse abitata. Appese alle pareti c’erano fiocine, ramponi, qualche coltello col manico d’avorio e delle reti; poi, sparsi al suolo, si vedevano dei sandali da neve usati dagli indiani, sacchi di pelle contenenti vestiti o provviste, del pesce secco o affumicato, e alcune pelli d’orso nero, di volpe, di ghiottoni e di lupo. Un grido di stupore e insieme di delusione sfuggì dalle labbra del canadese.

– Per centomila corna di bufali!… – esclamò. – Abbiamo preso un granchio colossale!…

– Voi volete dire che questa caverna non ha servito di dimora a uomini appai tenenti alla nostra razza, – disse Armando.

– Questa è un’abitazione di indiani, Armando.

– Allora ci siamo ingannati.

– Completamente.

– E dove saranno andati gli abitanti?

– Forse a caccia.

– E quelle orme?

– Sono state lasciate dagli indiani.

– Erano impronte di stivali forniti di chiodi, Bennie.

– Forse i pellirosse di queste regioni avranno compreso che le nostre calzature sono più comode. Sono contento di questa scoperta, poiché mi libera da un grosso peso che mi gravava sullo stomaco. Dagli indiani non possiamo temere un brutto tiro.

– Aspetteremo il loro ritorno?

– Perderemmo un tempo prezioso, Armando. Lasciamo che si godano in pace la loro caverna.

– Rimane, però, una cosa di spiegare.

– E quale?

– E quei fastelli di legna trovati sotto la tettoia?

– Possono essere stati abbandonati da qualche indiano venuto forse a spiarci senza avere cattive intenzioni. Gli abitanti di queste regioni non sono ostili. Armando, anzi rispettano l’uomo bianco. Ritorniamo e andiamo a vuotare il bacino della cascata.

Ormai rassicurati, lasciarono la caverna e fecero ritorno all’accampamento, informando della scoperta Falcone, Back e don Pablo, già ritornati dalla loro escursione, senza aver veduto nulla. Essendo tutti del parere di non doversi occupare di quegli indiani, decisero di riprendere i loro lavori per vuotare la vasca della cascata. Pranzarono alla lesta, poi munitisi di una solida fune a nodi, si recarono al margine del salto d’acqua per discendere nel fondo di quella specie di burrone. Per prudenza avevano portate con loro le armi, più tutta la polvere che possedevano per preparare la mina. Legarono la fune al tronco di un pino che cresceva a breve distanza dalle rocce, poi Bennie si calò nell’abisso. Gli altri furono pronti a seguirlo, portando i picconi e una lunga miccia. Il bacino, che doveva contenere tutte le ricchezze dei filoni d’oro della montagna, misurava almeno novanta metri di circuito, ed era molto profondo. Per squarciarlo, fu deciso di scavare una mina della profondità di tre metri, per essere più sicuri dell’esito. Un’altra, invece, doveva collocarsi sotto l’enorme roccia che divideva l’abisso del Barem, affinchè l’acqua fuggisse più agevolmente. I cinque minatori si misero subito alacremente al lavoro, desiderando, prima di sera, di mettere le mani sul supposto tesoro. Per tre ore percossero con lena febbrile le rocce, maneggiando furiosamente i picconi, e alle quattro pomeridiane le due mine erano pronte.

– Prepariamoci a risalire – disse Falcone – L’esplosione sarà tremenda e forse dei pezzi di roccia crolleranno.

In quell’istante giunse fino ai loro orecchi il nitrito del mustano di Bennie.

– Oh!… – esclamò il canadese. – Che cos’ha il mio cavallo, per essere inquieto?

– Che qualche indiano si avvicini?… – chiese Armando.

– S’accomodi pure, – rispose Bennie. – Abbiamo ben altro da fare, ora, che occuparci di lui.

– Fuoco alle mine, amici, e poi fuggiamo – disse il signor Falcone. Le micce sono così lunghe che avremo tutto il tempo per allontanarci – disse Back. – Bruceranno per cinque minuti.

Il canadese e il giovane messicano, a un cenno del meccanico, diedero fuoco alle micce, poi tutti si lanciarono verso la fune. Armando fu il primo a salire, ma invece di arrampicarsi fino al margine superiore dell’abisso, si fermò su una specie di piattaforma alta sette metri, per aiutare i compagni. Già tutti lo avevano raggiunto e stavano per scalare il secondo tratto, alto oltre sette metri, quando tutto a un tratto la fune, troncata verso la cima da una mano traditrice, cadde nell’abisso, prima ancora che qualcuno dei minatori avesse pensato ad afferrarla. Un urlo di furore e d’angoscia era sfuggito da tutti i petti.

– Hanno tagliata la fune?… – aveva urlato Back, precipitando in mezzo ai compagni, essendosi issato per qualche metro.

– Tradimento!… – aveva urlato Bennie.

Don Pablo, pronto come un lampo, s’era slanciato verso la fune per riprenderla, ma era arrivato troppo tardi. Quel pezzo di corda era caduto nel bacino, scomparendo sotto le acque.

– Miserabili!… – tuonò il canadese. – Gettate un’altra fune o vi uccidiamo tutti!…

Un riso sardonico fu la risposta. Udendolo, don Pablo era diventato pallido.

– La risata del californiano!… – aveva esclamato. – Siamo perduti!

Bennie e Armando si erano lanciati verso la parete rocciosa con la speranza di aggrapparsi alle sporgenze, issarsi fino al margine superiore e scagliarsi sul miserabile. S’accorsero però subito che mai sarebbero riusciti a compiere una simile impresa.

– Canaglia!… Lancia una fune o ti impiccheremo!… – urlò il canadese.

In lontananza si udì il miserabile gridare:

– Saltate tutti assieme alla mina!… Buona notte!…

Solo allora i cinque disgraziati minatori s’accorsero del tremendo pericolo che li minacciava. Sotto di loro, alla distanza di pochi metri le due miccie fumavano, accostando la fiamma alle due cariche di polvere. Due o tre minuti ancora e sarebbe stata finita per tutti.

– Siamo perduti!… – aveva ripetuto don Pablo, tergendosi le stille di freddo sudore che gli imperlavano la fronte. – Fra poco noi verremo lanciati in aria.

– E quel furfante è fuggito!… – ruggì Bennie.

– Con il nostro oro!… – aggiunse Falcone.

– Signore, tentiamo qualcosa, – disse Back al meccanico. – Non dobbiamo attendere la morte, senza far nulla.

– Non c’è nulla da fare, – disse don Pablo. – Questa roccia non si può scalare.

– Cerchiamo almeno di spegnere le mine – disse Bennie.

– Bisognerebbe scendere, mentre la parete è diritta, senza crepacci, senza sporgenze.

– Se provassi a saltare?…

– Vi uccidereste – disse Falcone. – Vi sono sette metri d’altezza e sotto si trovano delle punte rocciose che vi fracasseranno le gambe.

– Allora siamo condannati a morire!…

Falcone non rispose non sapeva che cosa dire. Ormai la morte gli sembrava inevitabile, ora che la fune non si poteva più riprendere. Un breve silenzio seguì quell’esplosione di impotente furore. I cinque disgraziati, stretti contro la roccia, guardavano con terrore i due fili di fumo che sfuggivano dai fori delle mine. Ogni secondo che passava sembrava lungo come un’ora. Già ormai cominciavano a rassegnarsi alla loro terribile sorte, quando una voce umana echeggiò sull’orlo superiore dell’abisso. Bennie, all’udirla, mandò un urlo da belva puntando subito il fucile in alto, credendo che il californiano fosse tornato per assistere alla loro agonia. Cieco d’ira, stava per far fuoco quando udì Falcone gridare:

– Degli indiani!… Amici!… Bennie!… Forse siamo salvi!…

Quattro indiani erano comparsi sull’orlo dell’abisso e guardavano con curiosità quegli uomini radunati su quella piattaforma.

– Una corda!… Gettate una corda!… – urlò Bennie. – Fate presto o siamo perduti.

Uno di quegli indiani rendendosi conto di quanto stava accadendo, si tolse dai fianchi una lunga e solida correggia e la lasciò pendere, mentre i suoi compagni ne tenevano una estremità.

– Su, lesti!… – gridò Falcone.

– A voi. Armando!… disse Bennie. – Non perdete un istante!…

Il giovanotto si aggrappò alla corda e si sentì sollevare rapidamente in aria. Senza neppure ringraziare quei bravi indiani, giunti a buon punto per salvarli da una spaventosa morte, si slanciò verso la caverna, vi entrò precipitosamente e andò a vedere i crepacci che dovevano contenere l’oro. Il prezioso metallo era sparito!… Si precipitò fuori gridando:

– Siamo stati derubati!… Bennie e i suoi compagni arrivarono correndo.

– Canaglie!… – urlò il canadese. – Ce la pagheranno.

Si guardò intorno. Il suo cavallo, quello di Back e quello di don Pablo galoppavano incontro ai padroni; il quarto invece era scomparso. I tre primi erano forse riusciti a fuggire, ma l’ultimo era stato preso e probabilmente condotto via dal californiano.

– A cavallo!… – gridò Bennie.

– A me Armando!… Venite don Pablo!… Signor Falcone, Back, seguiteci come potete!…

Il canadese, il giovane messicano e il nipote del mecanico balzarono in arcione e partirono al galoppo, mentre i loro due compagni, dopo un breve consiglio, si arrestarono per sorvegliare i viveri che si trovavano nella caverna. I tre cavalli, spinti a corsa sfrenata, in pochi minuti attraversarono la valle in tutta la sua lunghezza e giunsero al margine dei grandi boschi.

– Eccoli!… – gridò Bennie che era in testa a tutti. – Al galoppo!… Al galoppo!…

A sei o settecento metri da loro, in mezzo a una prateria di muschio, tre cavalli galoppavano faticosamente. I due primi erano montati da due uomini che furono subito riconosciuti per il californiano e per il bushranger, il terzo invece era carico di un sacco voluminoso e molto pesante. Al grido di Bennie, i due furfanti si erano voltati, poi si erano messi a percuotere spietatamente le loro cavalcature per fare loro affrettare il passo e raggiungere il margine della foresta.

– Fermatevi, o facciamo fuoco!… – aveva gridato il canadese.

Due bestemmie furono la risposta.

– Ah!… non volete arrendervi!… – gridò Bennie. – Allora vi uccideremo!…

Con un mirabile volteggio balzò a terra, lasciando che l’animale, trasportato dal proprio slancio, continuasse la corsa e s’inginocchiò mirando attentamente il californiano. I due banditi, credendo di non essere a tiro di fucile, bastonavano sempre le loro cavalcature per gettarsi nel bosco, ma il terzo animale, che portava il carico d’oro, faticava a seguirli. A un tratto si udì uno sparo.

Il californiano, colpito nel cranio dall’infallibile palla del vecchio cacciatore di prateria, aprì le braccia poi precipitò dalla sella, mandando un urlo di dolore. Il suo compagno, spaventato, lasciò andare il cavallo che portava il sacco d’oro e si mise a spronare furiosamente quello che montava. Fortunatamente don Pablo e Armando non erano scesi d’arcione. Vedendo il furfante fuggire, lanciarono i loro animali al galoppo, guadagnando rapidamente via.

– Arrenditi!… – gli gridò Armando.

– No – rispose il bandito.

– Ti uccideremo!…

– Provatevi!…

Era giunto presso una roccia che si alzava isolata su quella piccola pianura. Con un volteggio fu a terra tenendo nella destra il winchester e nella sinistra un lungo coltello. Prima che il suo cavallo fuggisse con due coltellate lo fece cadere, poi si nascose dietro il corpo del povero animale, sdraiandosi al suolo.

– Adagio, Armando!… – gridò don Pablo. – Quel bandito ha dodici palle nel suo fucile!…

In quel momento si udì Bennie gridare:

– Muori, cane!…

Poi rimbombarono alcuni colpi di rivoltella. Il messicano e Armando si volsero e videro il canadese correre verso di loro, tenendo in pugno l’arma ancora fumante.

– Bennie!… – gridò Armando.

– Quel gaglioffo è morto, – rispose il canadese. – All’altro ora!…

– Armando!… A destra!… – comandò don Pablo. – Guardatevi!…

Uno sparo rintronò, poi un secondo. Il giovane italiano udì due palle fischiare a breve distanza. Balzò di sella e si gettò dietro a un macigno che si trovava a breve distanza. Don Pablo lo aveva imitato, nascondendosi in una depressione del suolo. Il bushranger, dopo quei due colpi di fucile andati a vuoto, era tornato a nascondersi dietro al cavallo, non lasciando vedere nemmeno la punta del suo berretto di pelle di raccoon.

– Crede di abbatterci come oche, quel brigante!… – disse Bennie, che si avvicinava ai suoi amici, strisciando a terra. – Fra poco lo manderemo a tener compagnia al californiano.

– L’avete ucciso? – chiese Armando.

– Con la prima palla l’avevo solamente ferito, la rivoltella ha fatto il resto. Il miserabile è spirato senza poter dire amen. Amici miei, poiché il terreno è favorevole, cerchiamo di circondare il bushranger, costringendolo a scoprirsi.

I tre minatori, approfittando delle depressioni del suolo, si divisero, strisciando in tre diverse direzioni. Una rauca imprecazione li avvertì che il bushranger si era accorto del loro progetto.

Questi, infatti, abbandonando ogni prudenza, balzò in piedi e aprì un vero fuoco di fila, sparando ora contro Bennie, ora contro Armando e verso il messicano.

– Fuoco!… – gridò il canadese.

Tre colpi di fucile risposero agli spari del winchester.

Il brigante, colpito da uno o più proiettili, fece un salto in avanti mandando un urlo feroce, scaricò ancora un colpo a casaccio, poi piombò giù, con il viso contro terra.

– Il colpo di grazia!… – gridò Bennie, sparando un’altra volta.

Quest’ultima palla era inutile il bushranger era caduto per non più rialzarsi!..

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
360 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain

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