Kitabı oku: «I minatori dell' Alaska», sayfa 19
– Non può negarlo poiché è veramente il suo nome. – Egli ha lavorato con me nei placers del Bonanza e lo conosco benissimo. Poi, volgendosi verso il minatore:
– Grazie del vostro intervento, gentleman. Credo che la vostra testimonianza basterà per impiccare quel furfante.
– Impiccare me!… – urlò il californiano. – Prendi!…
Prima che i giudici e i minatori avessero avuto il tempo di gettarsi su di lui e disarmarlo, il californiano aveva estratta la rivoltella, facendo fuoco su don Pablo. Il messicano, con uno slancio da giaguaro, si era gettato dietro a un tavolo, evitando la palla. Bennie e Armando spianarono i fucili, però non poterono servirsene, poiché il bushranger, con una scossa poderosa, aveva atterrato il palo centrale della tenda, facendo crollare l’intera tela. Fra le grida dei minatori e dei giudici si udirono al di fuori dei colpi di rivoltella. Bennie, il giovane messicano e Armando, sventrata la tenda con pochi colpi di coltello, si lanciarono all’aperto per impedire al bushranger e il suo degno compagno di prendere il largo. Quando si trovarono fuori, era però troppo tardi. I due furfanti, approfittando della confusione, si erano posti in salvo, rifugiandosi nella foresta.
XXXIV – UN MOMENTO TERRIBILE
La sera stessa, approfittando della nebbia che era tornata a scendere sul campo d’oro, don Pablo e i suoi compagni abbandonavano silenziosamente l’accampamento, per dirigersi verso le sorgenti del Barem.
Orizzontandosi con la bussola, marciarono l’intera notte verso est, ansiosi di non venire seguiti dai minatori e specialmente dal californiano che, fino allora, non aveva perduto le loro tracce. Quando spuntò il sole, si trovavano a trentadue miglia dal Bonanza, in mezzo ai grandi boschi di pini e di cedri. Fatta una breve fermata per allestire la colazione e per concedere un po’ di riposo ai cavalli, ripresero il cammino due ore dopo, decisi a non accamparsi che sulle rive del Barem. Questa seconda marcia fu forse la più faticosa di tutte quelle che avevano compiuto dalla loro partenza dal Piccolo lago degli Schiavi, avendo dovuto attraversare terreni pantanosi, boschi fittissimi, corsi d’acqua molto freddi, e burroni profondi, con certe salite tagliate quasi a picco. Quando si accamparono, uomini ed animali erano sfiniti.
– Ancora un’ora e avrei mandato a casa del diavolo tutti i tesori dell’Alaska, – disse Bennie. – È stata una marcia da galeotti.
– Necessaria, però, – disse don Pablo. – Se non avessimo camminato così velocemente, saremmo stati raggiunti da qualche banda di minatori.
– E forse anche dal californiano – aggiunse Armando.
– Che ci abbia ancora seguiti? – chiese Bennie.
– È probabile, – rispose il giovane messicano.
– Sangue di bisonte!… È una mignatta quell’uomo?
– Credo peggio.
– Vuole vendicarsi di voi o prendere parte alla raccolta dell’oro.
– L’uno e l’altro, anzi vi consiglio di tenervi in guardia, ora che si è unito a quel bushranger.
– Che riesca a scoprirci?
– Ci ha seguito così bene da Dawson al Bonanza, malgrado tutte le nostre precauzioni, che temo che ci trovi ancora.
– Lo desidererei per poterlo impiccare, don Pablo.
– Purché invece non ci giuochi qualche brutta sorpresa! Quel furfante è capace di tutto.
– Terremo aperti gli occhi.
– E dormiremo con un occhio solo – aggiunse Armando.
– In guardia, amici, anche di notte.
– Conserveremo i nostri quarti, – disse Bennie. – Quanto distiamo ancora dalle sorgenti del Barem?
– Fra tre giorni ci saremo.
– E raccoglieremo oro a palate?
– Se non a palate, certo a manate, – disse don Pablo.
– Vi ricordate esattamente il luogo?
– Il mio amico me lo ha descritto così minutamente da non potermi ingannare: tre montagne sormontate dal Dom e due cateratte che si precipitano ai due lati della valle.
– Allora domani attraverseremo il Barem e continueremo a marciare finché avremo forza nelle gambe, – disse Falcone. – La buona stagione è brevissima qui e faremo bene ad affrettarci.
In quel momento i cavalli fecero udire dei nitriti e cominciarono a tendere le corde, dando segni d’inquietudine.
– Che cosa c’è? – chiese Bennie.
– Che abbiano fiutato qualche nemico? – chiese Armando. – I nostri mustani non sono animali da inquietarsi per un nonnullla.
Don Pablo si era alzato, tenendo in mano il fucile e aveva tatto alcuni passi innanzi scrutando le macchie dei cornioli, e guardando in mezzo ai tronchi dei cedri e dei pini.
– Nulla? – chiesero Armando e Bennie, raggiungendolo.
– Mi sembra che la foresta sia deserta, – disse il messicano.
– Non è sotto gli alberi che si nasconde il pericolo – gridò Back. – I cavalli tendono gli orecchi verso il fiume.
– Andiamo a vedere, – disse Bennie risolutamente. – Fate buona guardia voi.
Mentre Falcone e Back facevano il giro della tenda esplorando le macchie vicine, il messicano e i due cacciatori si spinsero verso il Barem, guardando attentamente sotto i giganti della foresta. Nessun rumore sospetto giungeva ai loro orecchi. Solamente si udivano le acque dei fiumi rompersi sulle ghiaie delle rive e in alto gemere le punte dei pini scosse dal gelido vento del settentrione. Giunti al Barem, i tre esploratori si curvarono sulla sponda scrutando le acque, però l’oscurità era così fitta, a causa dell’ombra cupa proiettata dai grandi alberi, da non lasciar scorgere quasi nulla.
– Che i nostri cavalli si siano ingannati? – chiese il giovane messicano.
– I vostri forse sì, non però i nostri mustani che abbiamo condotti dalle praterie del sud – rispose il canadese. – Quelli sono abituati a fiutare il pericolo e a segnalarlo.
– Eppure non si vede nulla di sospetto, qui.
– Tacete…! – disse Armando. Tutti tacquero tendendo gli orecchi e udirono, a quaranta o cinquanta passi sopra la corrente, un sordo tonfo, che pareva prodotto dalla caduta di un corpo pesantissimo.
– Qualcuno si è gettato nel fiume – disse Bennie.
Si lanciarono verso quella direzione, tenendo i fucili imbracciati per essere pronti a far fuoco, e giunti là dove avevano udito il tonfo, scesero la riva.
– Nulla – disse Armando.
– Eppure qualcuno si è tuffato – disse Bennie.
– Che sia stato un animale? – chiese don Pablo.
– Forse.
– E perché non un uomo? – chiese don Pablo.
– Qualche indiano?
– No, Bennie, il nostro nemico.
– Il californiano!… – Corna di bufalo!… Volete che sia giunto qui? È impossibile che abbia scoperto le nostre tracce!…
– Lo voglio credere, però ho dei sospetti. Quell’uomo è capace di averci seguiti.
– Allora che si affoghi.
– Che cosa facciamo? – chiese Armando.
– Torniamo al campo e vegliamo attentamente, – rispose il messicano. – Forse si tratta di un animale.
– Almeno lo preferirei – disse Bennie.
Esplorarono la riva per tre o quattrocento metri, sempre infruttuosamente, poi fecero ritorno alla tenda. Non essendo certi con quale nemico avevano a che fare, accesero altri due fuochi per illuminare il campo da tutti i lati, quindi incaricarono Armando e Back del primo quarto di guardia. Il cow-boy e il giovane accesero le loro pipe, si avvolsero nelle coperte, essendo la notte freddissima, e si sedettero. I cavalli, tranquillizzati dopo l’esplorazione dei loro padroni, si erano sdraiati presso la tenda; quello di Bennie, però, era rimasto in piedi, da vero cavallo della prateria. Nessun rumore sospetto si udiva nella foresta. Perfino il vento si era calmato, lasciando immobili le alte cime dei cedri e dei pini. Erano già trascorse due ore senza che nulla di nuovo fosse accaduto, quando Back vide il cavallo di Bennie alzare vivamente la testa, poi curvare a più riprese gli orecchi, come se cercasse di raccogliere qualche vago rumore.
– C’è qualche cosa di nuovo, – mormorò il messicano, sbarazzandosi della coperta. – Chi può aggirarsi nel bosco con questo freddo intenso a quest’ora?
Il cavallo, in quel momento mandò un leggero nitrito e si mise a tendere la corda che lo teneva legato al palo della tenda. Armando si era alzato.
– Back, – disse – il cavallo è inquieto.
– E anche gli altri cominciano a dare segni d’agitazione – rispose il messicano.
– Che qualcuno si avvicini?…
– Lo credo.
– Chi può essere quel seccatore che cerca di accostarsi di soppiatto al campo?…
– Sarà un po’ difficile saperlo.
– E perché, Back?
– La nebbia è calata nel bosco.
– È vero. Volete che svegliamo Bennie?
– Aspettiamo, Armando.
Entrambi si erano allontanati di alcuni passi dalla tenda e cercavano di distinguere ciò che aveva prodotto quell’allarme. Disgraziatamente, durante quelle due ore, la nebbia era nuovamente scesa e così fitta da impedire di scorgere i tronchi degli alberi a una distanza di sei o sette passi.
– Non si vede assolutamente nulla, – disse Back. – Sempre nebbia in questo brutto paese.
– Udite nulla?…
– Solamente il rompersi della corrente.
– Eh!…
– Caramba!…
– Un urlo d’orso grigio, Back
– Sì, Armando.
– Che quel bestione cerchi di sorprenderci?..
– Ripieghiamo sul campo e svegliamo i compagni. Non saremo mai troppi per quei bestioni.
Ma il loro avvertimento sarebbe stato superfluo. Il canadese aveva ormai udito l’urlo del feroce animale ed era balzato fuori, dopo aver fatto alzare don Pablo e Falcone.
– Un grizzly, è vero. Armando? – chiese.
– Sì, Bennie, – rispose il giovanotto.
– Lo preferisco al californiano. Dov’è?…
– Passeggia fra la nebbia.
– Al diavolo la nebbia.
– Guardate!… – gridò Back. In mezzo all’umida cortina scorsero confusamente una forma gigantesca, che pareva dirigersi verso i fuochi dell’accampamento. Bennie e il giovane messicano, che si trovavano più vicini, puntarono precipitosamente i fucili e fecero fuoco. In mezzo al nebbione si udì echeggiare un urlo acuto, feroce, poi più nulla
– È caduto?… – chiese il canadese.
– Io non l’ho potuto vedere – rispose Back.
– Se non fosse stato ucciso, ci sarebbe piombato addosso – osservò Armando.
– Andiamo a vedere – disse Bennie.
Seguito da Armando e da Pablo si lanciò verso il luogo dove aveva visto apparire l’ombra gigantesca.
– Cerchiamo, – disse.
– Siate prudente, – consigliò il giovane messicano. – Questi animali sono astuti.
Il canadese si era messo a girare attorno a un enorme tronco di pino, mentre i suoi due compagni perlustravano una macchia di cornioli. Aveva già compiuto il giro senza aver trovato nulla, quando tutto d’un tratto sentì due zampacce piombargli sulle spalle. Con una rapida mossa, tentò di sottrarsi a quel brutale abbraccio per voltarsi e puntare il fucile, ma non gli fu possibile poiché le due zampe, gravitando con forza irresistibile, in un lampo lo piegarono al suolo.
– Aiuto, Armando!… – urlò il povero cacciatore.
Il giovane e il messicano si lanciarono verso di lui e si trovarono di fronte a un orso grigio di statura gigantesca. Il feroce animale si era rizzato sulle zampe posteriori per piombar loro addosso. I due cacciatori, sorpresi da quell’improvvisa apparizione, scaricarono a casaccio i fucili, poi vedendo che l’animale non era caduto ripiegarono rapidamente verso l’accampamento, chiamando in loro aiuto Back e Falcone. Bennie, intanto, aveva approfittato di quel momento. Non avendo riportata alcuna ferita, si era subito alzato e aveva seguito i suoi amici; però il fucile era rimasto sul terreno, essendogli mancato il tempo di raccoglierlo. I cinque uomini si radunarono attorno al primo fuoco, quattro armati di fucile e il canadese di rivoltella, pronti a impegnare la lotta. Contrariamente ai suoi istinti bellicosi il grizzly non sembrava avere, almeno per il momento, alcun desiderio di ritentare l’assalto. Lo si udiva, però, grugnire a breve distanza e talvolta tra la nebbia si mostrava confusamente, scomparendo subito dietro i tronchi dei pini
– Siete ferito, Bennie? – chiesero premurosamente Armando e suo zio.
– No, – rispose il canadese – Gli artigli del bestione mi hanno lacerato soltanto la giacca. Aspetto però l’occasione propizia per vendicarmi del brutto momento che mi ha fatto passare.
– Sembra che non abbia fretta di accontentarti – disse Back.
– Lo vedo.
– Anzi mi pare che si sia già allontanato, – soggiunse don Pablo – Non sento più nulla.
– Ne avrà avuto abbastanza.
– Non lo credo Bennie – disse Armando. – Abbiamo fatto fuoco precipitosamente, senza mirare e, forse, senza colpirlo.
– Tacete, Armando.
Il canadese, tenendo in pugno la rivoltella, si spinse innanzi alcuni passi, tendendo gli orecchi e udì un tonfo.
– Si è gettato nel fiume, – disse, tornando presso i compagni.
– Che abbia varcato il Barena – chiese il signor Falcone.
– Forse.
– Allora possiamo dormire.
– Con un occhio solo, però.
– E il vostro fucile? – chiese Armando.
– Lo raccoglieremo domani, non è un boccone per gli orsi.
Certi ormai di non venire più disturbati, Bennie, Pablo e Falcone si sdraiarono sotto la tenda, mentre Armando e Back riprendevano i loro posti accanto ai fuochi, non essendo ancora finito il loro quarto di guardia. La notte trascorse senza altri allarmi, segno evidente che l’orso aveva attraversato il Barem, abbandonando definitivamente la partita. Forse le palle di Armando e di don Pablo lo avevano colpito e si era ritirato nel suo covo in attesa della guarigione. Spuntato il giorno, dopo alcune tazze di thè, il drappello si dispose a cercare un guado, volendo passare sulla riva opposta del Barem. Temendo che l’orso avesse il suo covo nei dintorni, il giovane messicano rimontò la riva per un cinque o seicento metri; poi, avendo trovato un punto dove l’acqua non era profonda più di un metro, comandò a tutti di salire sui cavalli, per evitare un bagno. I poveri animali, quantunque molto carichi, entrarono animosamente nelle acque gelate del fiume raggiungendo felicemente la riva opposta e prendendo terra in un luogo dove crescevano numerosi cespugli incassati fra i grossi tronchi di alcuni vecchi pini. Il giovane messicano, che era avanti a tutti, cercò di costringere il cavallo ad addentrarsi fra quelle piante. Invece di obbedire, l’animale si piantò sulle zampe posteriori e tentò di fare un rapido volteggio per rientrare nel fiume
– Ohè!… Don Pablo!… – gridò Bennie – È impazzito il vostro destriero?
Il messicano stava per rispondere, quando una massa enorme, sorta improvvisamente dietro un tronco atterrato, si gettò su di lui, mandandolo a gambe levate assieme alla sua cavalcatura.
– Corna di bisonte!… – urlò il canadese – Il grizzly!…
L’animale che aveva atterrato il messicano, era infatti l’orso grigio che li aveva assaliti durante la notte. Il bestione li aveva certamente spiati e vedendoli attraversare il fiume si era imboscato per piombare su di loro a tradimento. Vedendo il messicano a terra, invece di gettarsi su di lui o sul cavallo, con un balzo attraversò la macchia e rizzatosi sulle zampe posteriori, si precipitò giù dalla riva gettandosi in mezzo al drappello. L’assalto fu così repentino che i minatori non ebbero il tempo di afferrare i fucili. Per maggior disgrazia, i cavalli, pazzi di terrore, si scagliarono confusamente nel fiume e scivolando sul fondo melmoso caddero l’uno sull’altro, gettando i cavalieri nell’acqua. Il momento era terribile. Il feroce grizzly ritto sulla riva, si era arrestato, come se fosse indeciso sulla scelta della vittima. Un istante ancora e qualcuno avrebbe provato le zanne dure come l’acciaio e i lunghi artigli del mostro. Bennie e Armando, caduti in acqua, l’uno a destra e l’altro a sinistra, si erano prontamente rimessi in piedi: Back, invece, era stato gettato in un luogo dove la corrente era profonda e rapida, e era stato costretto a nuotare; Falcone, meno fortunato, era caduto sulla riva ed era rimasto sotto il cavallo che montava.
– A me, Armando!… – gridò il canadese.
Aveva impugnato il bowie-knife e la rivoltella e si era slanciato coraggiosamente, a corpo morto, addosso alla belva.
– Eccomi!… – rispose Armando, strappando un’ascia che pendeva dalla sella di un cavallo. Il canadese puntò risolutamente la rivoltella, però le cartucce, bagnate, non presero fuoco. Stava per scagliarsi nuovamente contro il grizzly, col coltello in pugno, quando rimbombò uno sparo. Il giovane messicano, liberatosi dal cavallo che gli era caduto addosso, aveva raccolto il fucile e aveva fatto fuoco, colpendo l’orso nel cranio. Quella palla però non bastò per quel gigantesco animale. Quantunque ferito, si volse verso il messicano e lo caricò disperatamente.
– Fuggite!… – gridò Bennie.
Don Pablo non aveva atteso il consiglio. Con due salti si era gettato dietro il tronco di un enorme pino e si era messo a correre all’intorno, cercando contemporaneamente di ricaricare l’arma. Il grizzly, reso furioso per la ferita che gli insanguinava il muso, s’era messo a inseguirlo, sperando di raggiungerlo. Girava rapidamente attorno al pino, avventando colpi di zampa che strappavano pezzi di corteccia, e urlando spaventosamente. Don Pablo, però, lesto come uno scoiattolo, si sottraeva a quegli attacchi, correndo con maggior velocità. Bennie, Armando e i loro compagni, avevano intanto cambiate rapidamente le cartucce ai loro fucili.
– Badate, Pablo!… – grido il canadese.
Avevano puntato le armi, però non osavano far fuoco. L’orso e il messicano giravano così vertiginosamente attorno all’albero, che quando il primo scompariva, il secondo subito si mostrava. Un momento di ritardo bastava per colpire l’uomo invece che l’animale.
– Pablo, scostatevi!… – gridò Bennie.
– No – rispose il messicano
– Non possiamo far fuoco!…
– Lo farò io.
– Avete caricata l’arma?
– Si.
– Fuoco dunque!…
Il messicano, in quell’istante, si voltò. L’orso non era che a tre passi e stava per afferrarlo. Puntò il fucile appoggiandolo al petto dell’avversario e fece fuoco precipitosamente, poi balzò indietro, girando attorno al tronco. Il gigantesco animale, colpito forse mortalmente, si arrestò un istante. Subito quattro spari echeggiarono. Il grizzly vacillò, tentò di rimettersi in equilibrio aggrappandosi con i poderosi unghioni, poi stramazzò al suolo mandando un ultimo pauroso urlo.
– Ecco una colazione ben guadagnata – disse Bennie. – Signori vi offro due prosciutti che nulla avranno da invidiare a quelli dei più grassi maiali.
XXXV – LA FEBBRE DELL’ORO
Tre giorni dopo il drappello, attraversate nuove e più folte foreste, nuovi pantani e burroni difficilissimi, giungeva presso la foce del Barem, in una valla profonda fiancheggiata da due cateratte e fronteggiata dall’aspra catena del Dom. Quel luogo, forse mai visto nemmeno dagli indiani, i quali d’altronde si tenevano solamente sulle rive dei grandi fiumi, essendo più pescatori che cacciatori, era selvaggio e anche bello. Pini maestosi coprivano i fianchi della vallata, lanciando le loro cime a sessanta metri dal suolo, proiettando una fitta e tetra ombra sui pendii, mentre delle vere foreste di cedri e di abeti si stendevano sui monti. Falcone e i suoi compagni si erano fermati, guardando con un misto di ammirazione e di timore quel cupo vallone.
– È qui, sotto i nostri piedi, l’oro? – chiese finalmente Bennie, mentre i suoi occhi percorrevano senza posa le rocce della valle, come se avesse cercato di scoprire il prezioso metallo che rinserravano.
– Sì, – rispose don Pablo. – La montagna di fronte, le due cateratte, il Barem in mezzo: il minatore non ha mentito.
– Mano alle zappe!… – gridò il canadese. – Voglio veder l’oro!
– Calmatevi, Bennie, – disse Falcone, ridendo. – Nessuno ci porterà via il nostro oro.
– Mi sento bruciare i piedi, signor Falcone.
– Vi credo, però non dobbiamo essere così impazienti. Innanzi tutto, non sappiamo ancora quale sia il luogo dove si svolge il filone aurifero.
– È vero, – disse Pablo. – Bisognerà prima fare degli assaggi.
– E montare lo sluice – aggiunse Armando.
– E mettere a bollire le pentole, – disse Back. Non abbiamo ancora fatto colazione.
– Al diavolo la colazione!.. – esclamò Bennie. – Chi avrà voglia di mangiare pensando che, sotto di noi, ci sono dei milioni da raccogliere?
I minatori scoppiarono in una risata.
– Ridete!… – esclamò Bennie. – Oh!… I flemmatici!… Non provate dunque la febbre dell’oro?
– Forse più tardi, – disse Falcone. – Suvvia, prepariamo il nostro campo innanzi tutto e poi la colazione.
Dovendo fermarsi là fino al termine della buona stagione, cioè un paio di mesi e forse più, cercarono un posto comodo che li mettesse anche al coperto dai venti freddissimi della regione artica e, in caso d’attacco da parte di qualche banda di indiani o di bushranger, permettesse loro di difendersi meglio. Avendo scoperta una roccia scavata, con numerose fessure che parevano fatte appositamente per servire da nascondiglio, fu scelta per l’accampamento. Si trovava a breve distanza dalla riva sinistra del Barem, sicchè potevano anche sorvegliare lo sluice, contando di collocarlo in quel luogo. La tenda fu rizzata davanti alla caverna, che fu destinata ai cavalli. Per quel giorno nessuna esplorazione fu tentata, avendo occupato interamente il tempo a prepararsi l’alloggio, a far grosse provviste di muschio che doveva servire da letto, di legna per la cucina e a collocare al coperto le casse. L’indomani invece montarono lo sluice, quel prezioso strumento che, con tante fatiche, avevano condotto dalle praterie degli Stati Uniti. Lo sluice non è altro che una specie di cassa, ordinariamente circolare, che viene montata su due solidi pali per mezzo di robusti arpioni di ferro fuso. Internamente è diviso in parecchi scompartimenti, otto, dieci o anche dodici. Il primo, il più ampio, riceve la terra frammista a pezzi di roccia, che viene levata dal claim, ossia dal pozzo aurifero. Lo strumento deve essere collocato presso le rive di un torrente o di un fiume, e l’acqua che passa sullo sluice disgrega rapidamente la terra. I pezzi di roccia vengono portati via dalla corrente, ma la sabbia e l’oro passano attraverso una latta bucherellata e precipitano nel secondo scompartimento. Un’altra latta bucherellata più minutamente, permette il passaggio all’oro e ai frammenti più piccoli. Qui, però, si trova già una certa quantità di mercurio, il quale assorbe subito il metallo prezioso, impedendogli di venire portato via dall’acqua. Il passaggio così continua finché l’oro si raccoglie, quasi puro, nell’ultimo scompartimento dove si trovano parecchie scanalature piene di mercurio, della profondità di otto millimetri. Con questo sistema si può essere certi che nemmeno un atomo di metallo sfugge, mentre con quello antico della ciotola di legno, buona parte delle pagliuzze se ne andavano con l’acqua. Non fu che al terzo giorno che i minatori si misero all’opera per fare gli assaggi, al fine di accertarsi della maggiore o minore ricchezza dei filoni d’oro che dovevano distendersi sotto la valle. Questo lavoro, detto di prospection, è il più difficile e insieme il più faticoso. Per formarsi un’idea quasi esatta della direzione dei filoni, è necessario scavare a casaccio numerose buche che affondano fino all’incontro dello strato aurifero, indicato per lo più dalla presenza di una sabbia bigia o rossastra. I minatori, ansiosi di conoscere la ricchezza del sottosuolo di quella selvaggia vallata, si misero animosamente all’opera, scavando una prima buca in prossimità del fiume. L’incontro dello strato sabbioso non si fece attendere molto A due metri di profondità Bennie e il giovane messicano scoprirono un largo filone di sabbia grigiastra amalgamata ad alcune pagliuzze d’oro. Un evviva fragoroso avvertì il signor Falcone, Armando e Back che il giacimento aurifero era stato subito trovato. Sei secchie di quella terra furono subito issate e portate nello sluice. Tutti i minatori erano accorsi ansiosi di conoscere la ricchezza di quelle sabbie aurifere. L’acqua disgregò le sabbie, portando via i frammenti di roccia e la materia rimasta precipitò, di crivello in crivello, fino all’ultima cassa, contenente le scanalature piene di mercurio.
– Attenzione, signori!… – gridò Bennie – Fra pochi istanti conosceremo la ricchezza del filone che abbiamo scoperto.
– Io non so se sia la febbre dell’oro che comincia a invadermi, ma sento che il mio cuore batte forte, – disse Armando.
– È l’emozione che prova il giocatore quando punta una grossa posta, – disse don Pablo.
Back e Falcone avevano intanto chiuso il passaggio d’acqua, e levate le lastre traforate, spazzolandole accuratamente per far cadere nell’ultimo scompartimento le goccioline di mercurio che si trovavano sospese, e che dovevano contenere delle particelle d’oro. Levata la cassa, si vide ondeggiare il mercurio amalgamato al prezioso metallo, mescolato però con alcuni piccoli frammenti di ghiaia rimasti galleggianti. Bennie e il giovane messicano, i più abili in simili operazioni, versarono quell’amalgama in un piatto di legno, la sbarazzarono dei corpi estranei, poi lo versarono in un sacchetto fatto con tela grossa e ruvida.
– Perché la mettete lì dentro? – chiese Armando che seguiva attentamente quelle diverse operazioni.
– Per sbarazzare l’oro dal mercurio, – rispose Bennie
– E vedremo poi l’oro?
– Non ancora; Back, è pronta la padella? ,
– Sì – rispose il messicano. Il canadese prese a due mani il sacchetto, lo mise sopra il piatto di legno, e cominciò a torcere la tela a tutta forza. Il mercurio, così compresso, sfuggì da tutti i pori cadendo, come una pioggia d’argento liquido, nel recipiente. Quando Bennie aprì il sacco, mostrò ai compagni stupiti, un blocco pesante un mezzo chilogrammo, ma che pareva d’argento, anziché d’oro.
– Corna di bisonte!… – esclamò il canadese facendo un salto.
– Caramba! – esclamò don Pablo.
– Il filone è d’una ricchezza prodigiosa!…
– Sì, Bennie!…
– Il minatore non vi ha ingannato!…
– No!… No!… Canarios!… Noi diventeremo ricchi come Cresi.
– È tutto oro quello? – chiese Armando. – Un mezzo chilogrammo d’oro con poche secchie di terra!
– Abbi pazienza un momento, – disse il signor Falcone. – Non è tutto oro, essendo ancora amalgamato a del mercurio, però ti dico che il filone da noi scoperto è di una ricchezza inverosimile. Se contiene il 25 od il 30 per cento di mercurio, possiamo dire di aver messo le mani su una miniera favolosa.
Back aveva acceso rapidamente alcuni rami resinosi e messo sopra la fiamma una padella di ferro. Bennie prese il prezioso blocco e lo lasciò cadere. Il mercurio in pochi minuti, si volatilizzò, e nel fondo del recipiente apparve l’oro raccolto dallo sluice, di una splendida tinta fulva. Un grido di meraviglia e di gioia sfuggì a tutti i petti:
– L’oro!… L’oro!… Quanto oro!… E realmente la quantità di metallo prezioso trovato nella padella dopo l’evaporizzazione del mercurio, era veramente prodigiosa. Nè Bennie, nè Back, nè don Pablo avevano mai veduto, in una sola battuta, ricavare quasi un mezzo chilo d’oro con sole sei secchie di sabbia aurifera. Si poteva ormai credere che il terreno di quel vallone fosse un vero impasto di terriccio e di minerale.
– Amici, signor Falcone, Armando, noi saremo ricchi come nababbi, tanto ricchi da poter comperare bastimenti, case, campagne… ma che case!… Delle città intere!…
– Se tutte le battute rendessero tanto, si potrebbe credervi, Bennie – disse Falcone. – La ricchezza mineraria di questa valle supera tutte quelle della California, dell’Australia e dell’Africa meridionale. Vedremo se il filone continuerà.
– Ne troveremo degli altri, per centomila corna di bisonte! Amici, lavoriamo, o io mi metto a danzare una giga così furiosa da rompermi le gambe. Bisogna che mi muova, che zappi, che gridi, che balli!…
– Calma, Bennie, – disse Armando, ridendo – Finora non abbiamo guadagnato che un paio di biglietti da mille.
– Sotto questa terra ci sono milioni.
– Li raccoglieremo; senza però diventare pazzi.
– Al lavoro, – disse Falcone. Bennie e Back ridiscesero nel claim, mentre Armando e Pablo si incaricavano di ritirare le secchie piene di sabbia aurifera. Falcone fu invece destinato alla direzione dello sluice, lavoro meno faticoso e più adatto alla sua pratica meccanica. Durante l’intera giornata i cinque minatori non posarono nè i badili, nè i picconi, nè le secchie, lavorando febbrilmente per strappare alla terra i tesori che teneva sepolti. Alla sera l’oro fu versato nelle padelle, depurato degli ultimi residui di mercurio, e quindi pesato con una bilancia che Falcone aveva portato con sè.
In quelle dieci ore di lavoro avevano ricavato dodici chili di oro, quasi puro, guadagnando settemila dollari. Quella sera al campo ci fu un po’ di baldoria per festeggiare il lieto avvenimento. L’ultimo prosciutto d’orso fu divorato assieme a una deliziosa zuppa di fagiuoli, e poi venne data la stura a una delle sei bottiglie di whisky che avevano portato con loro.