Kitabı oku: «I misteri della jungla nera», sayfa 15
X. La fregata
L’Hugly, le cui acque sono reputate sacre dalle popolazioni dell’alta India le quali intraprendono di frequente dei lunghi pellegrinaggi, per gettarvi le ceneri dei loro defunti o per bagnarvisi è uno dei più importanti fiumi della grande penisola asiatica. La sua lunghezza non supera le cinquanta leghe, essendo formato dalla riunione dei fiumi Cossimbazar e Djellinghey, i due rami più occidentali del Gange; ma la massa delle acque è considerevolissima, ingrossata sulla destra dal Dorumoudah dal Roupnaram, dal Tingorilly e dall’Hidiely.
Su questo braccio del Gange regna un’attività straordinaria, febbrile, che eguaglia quella dei fiumi giganti dell’America settentrionale. Approfittando dell’alta marea, che si fa sentire molto forte, vascelli, provenienti da tutti i porti del globo lo salgono arrestandosi o a Calcutta, o a Chandernagor o a Hougly, le tre città più importanti collocate sulle sue rive.
Piroscafi, barchi brick, brigantini, golette e slopp, s’incontrano dovunque lungo il suo corso. Non parliamo delle pinasse, dei poular, dei bangle, dei mur-punky, dei fylt’ sciarra, dei gonga e di tutte quelle altre barche più o meno grandi, di costruzione indiana, che si contano a migliaia e che s’incrociano in tutti i versi.
Nel momento però che la baleniera si staccava dalla riva, poche barche solcavano la corrente e quasi tutte provenienti dal sud, che è quanto dire dal mare. Dal nord scendevano invece ammassi di cadaveri che andavano capricciosamente alla deriva, ad arenarsi sulle numerose isole ed isolotti o sulle rive dove cadevano sotto il dente delle tigri e dei sciacalli, sempre pronti a prendere parte a quei giganteschi banchetti che la superstizione indiana offre loro gratuitamente.
– Animo, – disse Tremal-Naik. – Bisogna giungere al forte prima che la spedizione prenda il largo. Se giungiamo tardi, perdete Raimangal.
– Lascia fare a noi, – rispose colui che pareva fosse il capo di quei thugs. – Arriveremo a tempo.
– Quale distanza abbiamo da qui al forte?
– Meno di dieci leghe.
– Quando credi che la spedizione partirà?
– All’alta marea, senza dubbio. Fra una mezz’ora comincerà a montare e correremo più rapidi di uno steamer.
I thugs, robusti garzoni, rotti a tutte le fatiche ed abituati sino dall’infanzia al remo, accomodatisi sui banchi si misero ad arrancare di buon accordo, con colpi secchi e rigorosi.
La baleniera, una bella e solida imbarcazione, costruita appositamente per la corsa, non tardò a filare con notevole velocità, sfiorando appena l’acqua, la cui corrente minacciava di arrestarsi pel prossimo arrivo della marea, la quale sale con tanta furia da causare, non di rado, a Calcutta, un accrescimento di livello superiore ai cinque piedi.
La notte era limpidissima, illuminata da una luna superba e l’aria dolce, rinfrescata di quando in quando da una brezzolina, che scendeva dall’alto corso della fiumana.
Le rive, visibili come in pieno giorno, presentavano di quando in quando delle belle vedute, affatto speciali ai fiumi indiani.
Ora erano boschi magnifici di palmizi, di cocchi dall’aspetto maestoso, colle lunghe foglie disposte a cupola, e di manghi, stretti in mille diverse guise da quegli strani arrampicanti chiamati calami che raggiungono di frequente la lunghezza di centocinquanta metri. Ora erano campi sterminati di senapa, i cui fiori gialli spiccavano chiaramente sotto gli argentei raggi dell’astro notturno; oppure piantagioni di indaco, di zafferano, di sesamo, di scialappa o immense distese di bambù smisurati, in mezzo alle quali andavano e venivano bande di bufali selvaggi, animali veramente formidabili, più temuti delle tigri e che non esitano ad assalire anche un reggimento di gente armata.
Talvolta apparivano miseri villaggi, soffocati sotto una densa vegetazione, oppure cinti da risaie, chiuse tra arginetti alti parecchi piedi, destinati a trattenere le acque, e più spesso rizzati sull’orlo di putridi stagni sopra i quali ondeggiava una nebbia pestilenziale, carica di febbre e di cholera.
Non mancavano però gli eleganti bengalow sui cui tetti piramidali sonnecchiavano bande di cicogne nere, di ibis brune e di mangiatori di ossa, uccelli giganteschi, avidissimi e molto rispettati dagli indiani, i quali, secondo la loro strana dottrina delle trasmissioni, credono che nei loro corpi si trovino le anime dei sacerdoti di Brahma.
Mezz’ora era di già scorsa, da che la baleniera aveva lasciato la piccola insenatura, quando sulla riva destra si udì una voce a gridare:
– Ehi!… Alt!…
Tremal-Naik, a quella brusca intimazione, che non s’aspettava, essendo il fiume deserto, prontamente si alzò.
– Chi è che c›intima di arrestarci? – chiese egli guardandosi attorno. – Qualche fratello forse?
– Guarda laggiù, – disse uno dei remiganti, additandogli la riva.
– Passiamo dinanzi al bengalow del capitano Macpherson.
– Che ci abbiano scoperti?
– Deve essere così. I furbi hanno sospettato qualche cosa e tengono d’occhio le barche che salgono il fiume. Non vedi degli uomini, sulla terrazza?
Tremal-Naik diresse lo sguardo verso il bengalow. Sulla terrazza che dominava il fiume scorse un gruppo di persone. La luna faceva brillare le canne dei loro fucili.
– Ehi!… fermati!… – ripeté la stessa voce.
– Tiriamo innanzi, – disse Tremal-Naik. – Se vorranno attaccarci, ci daranno la caccia.
La baleniera che aveva rallentato la corsa, continuò a risalire. Un clamore assordante s’alzò sulla terrazza.
– Tuoni e fulmini! – urlò un’altra voce.– Fate fuco!
– Sono essi! – gridò un’altra voce.– Fuoco, amici!
Tre o quattro colpi di fucili rintronarono. I thugs, quantunque di già lontani un cinque o seicento braccia, udirono le palle fischiare sopra l’imbarcazione.
– Ah! briganti! – esclamò Tremal-Naik, raccogliendo la carabina.
– Bada! – gridò uno dei thugs. – Si preparano a darci la caccia.
– Penso io a tenerli lontani. Drizzate l’imbarcazione verso quel grab che scende il fiume; forse viene da Calcutta e potrà darci qualche notizia sulla spedizione.
– Attento, Tremal-Naik! – gridò uno dei remiganti.
L’indiano volse lo sguardo verso la piccola rada del bengalow e scorse un mur-punky, montato da cinque o sei sipai e da una mezza dozzina di remiganti.
– Arranca! – comandò egli, montando la carabina.
La baleniera correva sempre con crescente celerità, nondimeno il mur-punky guidato da uomini più abili e forse più leggiero, guadagnava rapidamente strada. A prua era stata rizzata una gabbionata e dietro si erano nascosti i sipai, colle carabine spianate.
– Fermati! – tuonò una voce
– Arranca sempre! comandò Tremal-Naik.
Un sipai alzò la testa. Quel momento bastò: Tremal-Naik puntò rapidamente l’arma e lasciò partire il colpo. Il sipai cacciò un grido, batté l’aria colle mani e piombò in fondo al battello.
– A chi tocca! – gridò Tremal-Naik, raccogliendo un’altra carabina.
Gli fu risposto con una scarica generale. Le palle scrosciarono sui fianchi della baleniera.
Un altro sipai si mostrò e cadde come il primo.
Quella matematica precisione sgomentò i sipai, i quali, dopo essersi brevemente consigliati, virarono di bordo dirigendosi verso la riva opposta.
– Sta’ in guardia, Tremal-Naik,– disse uno dei thugs. – Vi sono dei bengalow inglesi su quella riva.
– Che forniranno a loro degli uomini e delle barche, – aggiunse un secondo.
– Non lasceremo a loro tempo, – disse l’indiano; drizzate la prua al grab.
La nave che scendeva al mare, non era lontana che mezzo miglio.
Era uno di quei vascelli che si costruiscono a Bombay, ove, pare, la navigazione venne fino dai più remoti tempi ridotta a maggior perfezione che negli altri luoghi dell’India, e dove trovansi gli alberi del tek, noti per la loro estrema durezza e dei salici che resistono alle acque per qualche secolo.
La prua di quel grab, di architettura puramente indiana, era assai slanciata ed aguzza, adorna di divinità e di teste d’elefante scolpite con rara maestria. I suoi tre alberi coperti di tela, dagli alberetti al ponte, si curvavano sotto la fresca brezza del settentrione.
In quindici minuti la baleniera lo abbordava sotto l’anca di tribordo.
Il capitano del legno si curvò sul capo di banda, per sapere cosa desideravano.
– Da dove venite? – chiese Tremal-Naik.
– Dalla città bianca – rispose il lupo di mare.
– Da quante ore siete passato dinanzi al forte William?
– Da cinque.
– Avete veduto delle navi da guerra?
– Sì, una fregata: la Cornwall.
– Caricava?
– No, imbarcava soldati.
– Sono essi che vanno a Raimangal, – dissero i thugs.
– Sapete quale sia la destinazione della Cornwall?– chiese Tremal-Naik, coi denti stretti.
– L’ignoro, – rispose il capitano.
– Era accesa la macchina?
– Sì.
– Grazie, capitano.
La baleniera si staccò dal grab.
– Avete udito? – chiese Tremal-Naik, con rabbia.
– Sì, – risposerò i thugs, curvandosi sui remi.
– Bisogna giungere prima che la fregata prenda il largo o tutto è perduto. Arrancate! arrancate!
In quell’istante uno dei thugs gettò un grido di trionfo.
– Udite! – esclamò egli.
Ognuno tese l’orecchio trattenendo il respiro. Al sud si udiva un sordo muggito come l’avvicinarsi d’una burrasca.
– La marea! – gridarono i thugs.
La corrente dell’Hugly si era improvvisamente arrestata. Al sud apparve un’onda spumeggiante, che veniva innanzi colla velocità di un cavallo lanciato al galoppo. Arrivò con un cupo muggito sollevando la baleniera e passò oltre salendo rapidamente verso Calcutta, trascinando ammassi di detriti, di erbe e non pochi tronchi d’albero.
– Alla riva destra!– comandò il capo dei remiganti. – Tra un’ora saremo al forte.
La baleniera raggiunse la riva destra, ove la marea si fa sentire più rapida che sulla riva sinistra, e riprese la navigazione potentemente aiutata dai remi vigorosamente ed abilmente manovrati.
Sorgeva allora l’alba. Ad oriente una luce dapprima biancastra, poi gialla, indi rossastra, s’alzava invadendo rapidamente il cielo. Gli astri, poco prima scintillanti, a poco a poco impallidivano, scomparivano e le urla delle fiere diventavano più rade e più fioche.
Le rive della superba fiumana, man mano che la baleniera avvicinavasi a Calcutta, perdevano il loro aspetto selvaggio. Le grandi foreste popolate da numerose bande di tigri, di bufali selvaggi, di sciacalli e di serpenti e le immense piantagioni di bambù, a poco a poco scomparivano per lasciare il posto a fertilissime campagne coltivate con grande cura, a piantagioni di indaco, di cotone e cinnamomo, a bellissimi e svariati alberi carichi di frutta d’ogni specie, ad eleganti ville ed a grossi villaggi.
Drappelli di ungko, scimmie col petto sporgente, la pelliccia nera, bruna o grigia e il volto quasi umano, apparivano fra le macchie di alberi, dondolandosi fra i rami, facendo salti prodigiosi di dieci e persino quindici metri; poi vedevansi bande di axis, eleganti animali somiglianti ai cervi, col pelo fulvo e picchiettato di bianco; indi tranquilli bufali, che venivano a dissetarsi, e nell’aria od appollaiati sui tetti delle capanne o posati sui rami arcuati dei paletuvieri, uccelli d’ogni sorta e d’ogni grandezza, nibbi, gypaeti, bozzagri, ibis brune, marangoni, folaghe dalle penne porporine ed azzurre, anitre braminiche e giganteschi arghilah, alcuni dei quali affacendati a far scomparire tutto intero qualche corvo impertinente, che aveva osato disputare a loro qualche preda.
– Siamo vicini a Calcutta, – disse un remigante, dopo aver osservato attentamente le due rive.
Tremal-Naik, che da qualche ora era in preda ad una febbrile impazienza, nell’udire quelle parole si alzò di scatto, spingendo lo sguardo verso il nord.
– Dov’è? – chiese egli. – La vedi tu?
– Non ancora, ma fra breve la vedremo.
– Arranca!… arranca!…
La baleniera accelerò la corsa. I thugs, non meno impazienti del loro capo, arrancavano allora con vero furore, piegando le pagaie sotto la potente trazione. Nessuno parlava per non perdere una sola battuta.
Alle otto, un colpo di cannone si udì verso l’alto corso del fiume.
– Cos’è questo? – chiese Tremal-Naik, con ansietà.
– Siamo vicini a Kiddepur.
– Qualche legno da guerra parte e saluta.
– Presto! presto!… Potessimo arrivare a tempo!…
Il fiume cominciava ad animarsi straordinariamente. Barchi brick, brigantini, golette, piroscafi salivano e scendevano la corrente in gran numero. Delle grandi grab, dei grandi pariah della costa del Coromandel le cui barocche costruzioni non permettono di compiere che un sol viaggio all’anno, cioè all’epoca del monsone favorevole; dei leggieri poular di Dacca, rapidissimi forniti di alberi e di una grande vela quadrata; dalle bangle coperte di tetti di stoppia e con alberi di bambù larghissimi e dei magnifici fylt’ sciarra larghi cinquanta e più piedi, riccamente dorati, e condotti da più di trenta rematori, s’incrociavano in mille guise o stavano ancorati lungo le rive dinanzi ai bengalow od ai villaggi.
Tremal-Naik doveva mettere in opera tutta la sua abilità, per non cozzare contro quella folla di bastimenti e di barche che cresceva enormemente, tanto da occupare, talvolta, il fiume intero.
I thugs arrancavano sempre, con crescente furia, tendendo i muscoli in modo tale, da far quasi scoppiare la pelle.
Alle nove la baleniera passava dinanzi a Kiddepur, grosso villaggio che sorge sulla riva sinistra del fiume, e pochi minuti più tardi giungeva in vista di Calcutta, la regina del Bengala, la capitale di tutti i possedimenti inglesi delle Indie, colla sua linea imponente di palazzi, colle sue pagode, colle sue cupole, coi suoi bizzarri campanili, colle sue capanne, coi suoi squares e col forte William, la più grande e robusta fortezza che abbia la penisola, e che ha bisogno d’almeno diecimila uomini per essere difesa.
Tremal-Naik era balzato in piedi come spinto da una molla e guardava con occhio stupefatto quell’agglomeramento straordinario di fabbricati, di giardini e di vascelli.
– La nave? – chiese, con accento selvaggio.– Dov’è la nave?
– Là!… Là.!… guarda!… – esclamò un thug.
Tremal-Naik guardò nella direzione indicata e vide a poca distanza dalle cateratte che mettono l’acqua nei fossati del forte William, una fregata di forme svelte, ma assai impoppata, attrezzata a barco, ed armata di numerosi cannoni, vomitare nubi di fumo dal camino che sembrava troppo stretto.
Sul ponte andavano e venivano soldati di fanteria e marinai, affacendati a stivare botti ed a ritirare le gomene sciolte dai gavitelli. Si capiva anche a prima vista, che la nave preparavasi a partire. Tremal-Naik provò una stretta al cuore.
– Presto, ragazzi!… presto!… – esclamò egli con accento disperato.
I thugs raddoppiarono i loro sforzi. La baleniera, spinta innanzi dalle sei pagaie manovrate con forza sovrumana, non correva più, volava. I bordi gemevano sotto i colpi vigorosi e l’acqua rimbalzava fino sulla poppa.
– Presto!… presto!… – gridava Tremal-Naik, completamente fuori di sé.
Ad un tratto emise un urlo straziante.
– Ada!… Ada!… Perduto!… tutto è perduto!…
La fregata aveva abbandonato il molo e scendeva maestosamente il fiume, vomitando nubi di fumo e mandando lunghi fischi.
I thugs, sfiniti, impotenti di più oltre lottare, si erano arrestati guardando con occhio feroce la nave, che passava a duecento passi dalla imbarcazione.
– Tutto è perduto! – urlò un di loro, tendendo il pugno.
– No, no!… – esclamò Tremal-Naik.
Si curvò, raccolse la carabina, l’armò e diresse la canna sulla fregata. Sul ponte di comando aveva veduto un uomo e l’aveva subito riconosciuto: era il capitano Macpherson.
Già aveva imbracciato l’arme, già stava per far partire il colpo, quando un thug lo atterrò.
– Tu vuoi farci assassinare, – disse lo strangolatore, disarmandolo.
Tremal-Naik si rialzò cogli occhi accesi, le pugna alzate, il viso stravolto.
– Ma non sai tu, miserabile, che se i thugs perdono Raimangal io perdo la mia Ada? – urlò egli.
– Calmati, Tremal-Naik. Vi sono altre navi che si recano nelle Sunderbunds.
– Quali?
– Guarda quella cannoniera. Imbarca cannoni e botti di polvere. Non vedi sul picco la bandiera inglese?
Tremal-Naik vide infatti una grande cannoniera, ancorata dinanzi alla spianata dello Strand, che preparavasi a partire. Un pennacchio di fumo usciva dal camino.
– Se fosse vero!… – mormorò egli con voce tremante. – Al molo! al molo
La baleniera con quattro arrancate approdò dinanzi a Kuti-Bazar.
Proprio nel medesimo istante, un canotto montato da un quartier-mastro della Reale Marina prendeva il largo.
– Ohe! Hider! – gridò un thug.
Il quartier-mastro, indiano pur egli, si volse.
– Olà, amici, dove andate? – chiese egli tornando a riva.
– Chi è quel marinaio? – chiese Tremal-Naik.
– Un affiliato, gli fu risposto.
Hider in quel frattempo era sbarcato. Era un bell’uomo di alta statura, sui quarant’anni, con una barba nerissima e folta, occhi lucentissimi e membra muscolose. Tra le labbra teneva una corta pipa e fumava vigorosamente.
– Amici miei, – disse, avvicinandosi, – qui succedono delle cose assai gravi.
– Lo sappiamo, – disse Tremal-Naik.
– Chi sei tu? – chiese il quartier-mastro, con diffidenza.
Tremal-Naik gli mostrò l’anello che portava in dito. Il marinaio cadde in ginocchio.
– Ordina, inviato di Kâlì, – disse con voce tremante.
– Conosci il capitano Macpherson?
– Forse più di te.
– Sai dove conduce la fregata?
– Nessuno sa ove vada la Cornwall, ma io ho un sospetto.
– La conduce a Raimangal.
– Il quartier-mastro scagliò la pipa a fracassarsi sui sassi.
– A Raimangal!… – esclamò egli. – A Raimangal hai detto?
– Sì, egli va ad assalire Suyodhana.
– Lo sospettavo. Ho fatto imbarcare due affiliati sulla Cornwall.
– Che ordini hanno?
– Di vegliare e di informarci di quanto succede, appena potranno disertare.
– Allora siamo perduti.
Il quartier-mastro non rispose. Non trovava parole.
– Cosa fa quella cannoniera che si sta armando? chiese Tremal-Naik.
– Ci rechiamo a Colombo.
– Bisogna che cada in nostra mano.
– Cosa vuoi fare della Devonshire?
– Per raggiungere la Cornwall prima che getti l’ancora a Raimangal.
– E colarla a fondo?
– Questo è affar mio, – disse Tremal-Naik.
– Comanda.
– Quanti affiliati ci sono a bordo della Devonshire?
– Siamo in sei.
– L’equipaggio ammonta a…?
– Trentadue uomini.
– Bisogna imbarcare almeno dieci affiliati.
– È impossibile! – esclamò Hider.
– Con sei affiliati non si conquista la cannoniera.
– Lo so.
– Cosa imbarcano ora?
– Cannoni.
– E poi?
– Delle provviste.
– Imbarcheranno delle botti di biscotto e di acqua, suppongo.
– È vero.
– Sta bene. Invece di botti di biscotto imbarcheranno delle botti contenenti dei thugs. Puoi fare questa sostituzione tu?
– Dirigo io l’armamento della Devonshire.
– Una parola ancora. Quando si parte?
– A mezzanotte, mi disse il capitano.
– Credi tu che si raggiungerà la Cornwall?
– Forzando molto la macchina si potrebbe raggiungerla.
– Mi basta. A questa sera, Hider.
XI. Inglesi e strangolatori.
Agli orologi della città inglese suonava la mezzanotte, quando la Devonshire, che sin dal mattino aveva acceso i suoi fuochi, abbandonava a tutto vapore il molo del forte William, scendendo la nera corrente dell’Hugly.
La notte era assai oscura. Non luna e non stelle in cielo, il quale era coperto da una nera fascia di vapori. Pochi affatto i lumi, la maggior parte immobili, accesi dentro le capanne di Kiddepur, o sulla prua di legni ancorati sotto la riva. Solamente verso il nord si scorgeva uno strano bagliore, una specie d’alba biancastra, dovuta alle migliaia e migliaia di fiamme che rischiarano la città inglese e la città nera che formano Calcutta.
Il capitano, ritto sulla passerella, comandava la manovra con voce metallica, dominando il fragore delle tambure che mordevano furiosamente le acque e il formidabile russare della macchina. Sul ponte, mozzi e marinai, si affaccendavano, al vago chiarore di poche lanterne, a stivare le ultime botti e le ultime casse che ancora ingombravano il ponte.
Già Kiddepur era scomparsa nelle fitte tenebre, già gli ultimi lumi delle barche e dei navigli più non si scorgevano, quando un uomo, che sino allora aveva tenuto la ruota del timone, attraversò quatto quatto il ponte, urtando forte col gomito un indiano che stava chiudendo il boccaporto di maestra.
– Affrettati, – gli disse, nel passargli vicino. La camera è deserta.
– Pronto, Hider, – rispose l’altro.
Pochi minuti dopo i due indiani scendevano la scaletta che conduceva nella camera comune, la quale in quel momento era deserta.
– Ebbene? – chiese brevemente Hider.
– Nessuno ha sospettato di nulla.
– Hai contato le botti segnate?
– Sì, sono dieci.
– Dove le hai collocate?
– Sotto poppa.
– Riunite?
– Tutte vicine l’una all’altra, – disse l’affiliato.
– Hai avvertito gli altri?
– Sono tutti pronti. Al primo segnale si getteranno sugli inglesi.
– Bisogna agire con prudenza. Questi uomini sono capaci di far fuoco alle polveri e far saltare amici e nemici.
– Quando si farà il colpo?
– Questa notte, dopo che avremo dato un buon narcotico al capitano.
– Cosa dobbiamo fare intanto?
– Manderai due uomini a impadronirsi della sala d’armi poi attenderai nella macchina cogli altri due fuochisti. Avremo bisogno della tua abilità.
– Non è la prima volta che lavoro alle caldaie.
– Va bene. Io comincio ad agire.
Hider risalì in coperta e diresse lo sguardo sulla passerella. Il capitano passeggiava innanzi e indietro, colle braccia incrociate sul petto, fumando una sigaretta.
– Povero capitano, – mormorò lo strangolatore, non meritavi un così brutto tiro. Ma bah! Un altro al mio posto, invece di renderti nell’impossibilità di nuocere, ti avrebbe spedito all’inferno con una buona dose di veleno.
Si diresse verso poppa e senza essere veduto discese sotto coperta, arrestandosi dinanzi la cabina del comandante. L’uscio era socchiuso, l’aprì e si trovò in uno stanzino di otto piedi quadrati, tappezzato in rosso ed ammobiliato elegantemente.
S’accostò ad un tavolino, sul quale stava una bottiglia di cristallo, piena di limonata. Un sorriso diabolico gli sfiorò le labbra.
– Ogni mattina la bottiglia risale vuota, bisbigliò. – Il capitano, prima di coricarsi, beve sempre.
Cacciò la mano in petto e trasse una fiala microscopica, contenente un liquido rossastro. Lo fiutò più volte, poi lasciò cadere nella bottiglia tre goccie.
La limonata ribollì diventando rossa, poi riacquistò la sua tinta primitiva.
– Dormirà due giorni, – disse il thug. – Andiamo a trovare gli amici.
Uscì ed aprì una porticina che metteva nella stiva. Un leggier rumore si udì sotto la poppa, seguito da uno scricchiolìo, come di un’arma da fuoco che veniva montata.
– Tremal-Naik, – chiamò il thug.
– Sei tu Hider? – domandò una foce soffocata. Apri, che qui dentro ci asfissiamo.
Il thug raccolse in un angolo una lanterna cieca, colà precedentemente nascosta, l’accese e s’avvicinò alle dieci botti collocate l’una presso l’altra.
I cerchi vennero levati e gli undici strangolatori, mezzo asfissiati, colle membra indolenzite, madidi di sudore per l’eccessivo caldo che regnava là sotto, uscirono. Tremal-Naik si slanciò verso Hider.
– La Cornwall? – gli chiese.
– Corre verso il mare.
– C’è speranza di raggiungerla?
– Sì, se la Devonshire accelera la corsa.
– Bisogna abbordarla, o perderò la mia Ada.
– Ma prima bisogna impadronirsi della cannoniera.
– Lo so. Hai un piano tu?
– Sì.
– Parla, presto, io ardo. Guai, se non raggiungiamo la Cornwall!…
– Calmati, Tremal-Naik. Ogni speranza non è ancora perduta.
– Dimmi quale è il tuo piano.
– Innanzi tutto c’impadroniremo della macchina.
– Ci sono affiliati nella camera delle caldaie?
– Tre, e sono tutti fuochisti. In quattro, non faticheremo troppo a legare l’ingegnere.
– E poi?
– Poi andrò a vedere se il capitano ha bevuto il narcotico che gli versai nella sua limonata. Allora voi entrerete nel quadro di poppa e al primo fischio salirete sul ponte. Gli inglesi, colti lì per lì, si arrenderanno.
– Sono armati?
– Non hanno che i loro coltelli.
– Affrettiamoci.
– Sono pronto. Vado a legare l’ingegnere.
Spense la lanterna, ritornò nel quadro di poppa e risalì sul ponte, proprio nel momento in cui il capitano lasciava la passerella.
– Tutto va bene, – mormorò il thug, vedendolo dirigersi a poppa.
Caricò la pipa e discese nella camera della macchina.
I tre affiliati erano al loro posto, dinanzi ai forni, discorrendo a voce bassa.
L’ingegnere fumava, seduto su di una scranna e leggeva un libriccino. Hider con un’occhiata avvertì gli affiliati di tenersi pronti, e s’avvicinò alla lanterna sospesa alla volta, proprio sopra il capo dell’ingegnere.
– Permettetemi, sir Kuthingon, d’accendere la pipa, – gli disse il quartier-mastro.– Sopra tira un ventaccio che spegne l’esca.
– Con tutto il piacere, – rispose l’ingegnere.
S’alzò per tirarsi indietro. Quasi nel medesimo istante lo strangolatore lo afferrava per la gola e così fortemente, da impedirgli di emettere il più lieve grido, poi con una scossa vigorosa lo rovesciò sul tavolato.
– Grazia, – poté appena balbettare il povero uomo che diveniva nero sotto il ferreo pugno del quartier-mastro.
– Sta zitto e non ti verrà fatto alcun male, – rispose Hider.
Gli affiliati ad un suo cenno lo legarono e lo imbavagliarono, trascinandolo dietro un grande ammasso di carbone.
– Che nessuno lo tocchi, – disse Hider. – Ed ora andiamo a vedere se il capitano ha bevuto il narcotico.
– E noi?– chiesero gli affiliati.
– Non vi muoverete di qui, sotto pena di morte.
– Sta bene.
Hider accese tranquillamente la pipa e salì la scala.
La cannoniera filava allora fra due rive completamente deserte, e il suo sperone fendeva gruppi di vegetali galleggianti.
I marinai erano tutti in coperta e guardavano distrattamente la corrente, discorrendo o fumando. L’ufficiale di quarto passeggiava sulla lunetta, chiacchierando col mastro-cannoniere.
Hider, soddisfattissimo, si stropicciò allegramente le mani e ritornò a poppa, scendendo la scala in punta di piedi.
Presso la cabina del comandante accostò l’orecchio alla porta ed udì un sonoro russare.
Girò la maniglia, aprì ed entrò dopo essersi levato della cintura un pugnale, per difendersi se fosse stato necessario.
Il capitano aveva bevuto quasi tutta la bottiglia di limonata e dormiva profondamente.
– Non lo sveglierà neanche il cannone, – disse l’indiano.
Si slanciò fuori della cabina e discese nella stiva. Tremal-Naik e i suoi compagni lo attendevano colle rivoltelle in pugno.
– Ebbene? – chiese il cacciatore di serpenti, saltando in piedi.
– La macchina è nostra e il capitano ha bevuto il narcotico, – risposte Hider.
– L’equipaggio?
– Tutto in coperta e senz’armi.
– Saliamo.
– Adagio, compagni. Bisogna prendere i marinai fra due fuochi, per impedire che si barrichino sotto il castello di prua. Tu, Tremal-Naik, rimani qui con cinque uomini e io cogli altri raggiungo la camera comune. Al primo sparo salite sul ponte.
– Siamo d’accordo.
Hider impugnò una rivoltella nella dritta e una scure nella sinistra ed attraversò la stiva ingombra di cannoni smontati, di botti e di barilotti. Cinque thugs lo seguirono.
Dalla stiva il drappello passò nella camera comune e salì la scala.
– Preparate le armi e fuoco di fila, – comandò Hider.
I sei uomini irruppero sul ponte gettando selvaggi clamori.
L’equipaggio si slanciò a prua, non sapendo ancora di cosa si trattava.
Un colpo di rivoltella echeggiò abbattendo il mastro-cannoniere.
–Kâlì!… Kâlì… – urlarono i thugs.
Era il grido di guerra degli strangolatori e fu appoggiato da una tremenda grandinata di palle.
Alcuni uomini rotolarono sul ponte. Gli altri, smarriti, sorpresi da quell’improvviso attacco, che certamente non s’aspettavano, si precipitarono a poppa gettando urla di terrore.
– Kâlì!… Kâlì! – rimbombò a poppa.
Tremal Naik e i suoi uomini s’erano slanciati sul cassero colle rivoltelle nella dritta ed i pugnali nella sinistra.
Alcune detonazioni rintronarono.
Una confusione indescrivibile accadde a bordo della cannoniera, la quale, senza timoniere, andava a traverso alla corrente.
Gli inglesi, presi tra due fuochi, cominciarono a perdere la testa.
Per fortuna l’ufficiale di quarto non era stato ancora ucciso.
D’un balzo si gettò giù dalla lunetta colla sciabola in pugno.
– A me, marinai! – urlò egli.
Gli inglesi si radunarono in un baleno attorno a lui e si avventarono a poppa impugnando i coltelli, le scuri, le manovelle.
Il cozzo fu terribile. I thugs di Tremal-Naik furono ributtati da quella valanga d’uomini.
L’ufficiale di quarto s’impadronì del cannone, ma la vittoria fu di breve durata.
Hider si era messo alla testa dei suoi e li assaliva alle spalle pronto a comandare fuoco.
– Signor tenente, – gridò, puntando verso di lui la rivoltella.
– Cosa vuoi, miserabile? – urlò l’ufficiale.
– Arrendetevi e vi giuro che non verrà torto un sol capello né a voi, né ai vostri marinai.
– No!
– Vi avverto che abbiamo cinquanta colpi ciascuno da sparare. Ogni resistenza sarebbe inutile.
– E cosa farai di noi?
– Vi faremo scendere nelle imbarcazioni e vi lascieremo liberi di sbarcare sull’una o sull’altra riva del fiume.
– E della cannoniera cosa vuoi farne?
– Non posso dirlo. Orsù, o la resa o io comando il fuoco.
– Arrendiamoci, tenente, – gridarono i marinai che si vedevano ormai in balìa di Hider.
Il tenente, dopo d’aver esitato, spezzò la spada e la gettò nel fiume.
Gli strangolatori si slanciarono sui marinai, li disarmarono e li fecero scendere nelle due baleniere, calandovi il capitano che ancora dormiva e l’ingegnere.
– Buona fortuna! gridò il quartier-mastro.
– Se ti prendo ti farò appiccare, – rispose il tenente, mostrandogli il pugno.
– Come vi piacerà. —
E la cannoniera riprese la corsa, mentre le imbarcazioni si dirigevano verso la sponda del fiume.