Kitabı oku: «I misteri della jungla nera», sayfa 16
XII. A bordo della Cornwall
L’impresa più difficile era riuscita. Ora si trattava di inseguire a tutto vapore la fregata che aveva un vantaggio di quasi quindici ore, raggiungerla o alla foce del fiume od in mare e mettere in opera il secondo piano, non meno arduo, né meno pericoloso, ordito dal cacciatore di serpenti.
Sbarazzato il ponte dei cadaveri, medicati i feriti, che fortunatamente non erano molti, Tremal-Naik si portò sulla lunetta con Hider, mentre un gabbiere si installava sulla crocetta dell’albero, armato d’un potente cannocchiale.
Alla voce del nuovo comandante, Udaipur che aveva preso il comando della macchina, lasciò la camera e si slanciò sul ponte.
– Bisogna volare, Udaipur, – disse Tremal-Naik.
– I forni sono colmi di carbone, capitano. Abbiamo la massima pressione.
– Non basta. Bisogna raggiungere la Cornwall.
– Carica le valvole a cinque atmosfere, – disse Hider.
– Corriamo il pericolo di saltare, quartier-mastro.
– Non monta; vattene.
Il macchinista discese a precipizio nella camera della macchina.
La cannoniera volava come un uccello. Torrenti di fumo nero misto a scorie, uscivano furiosamente dal camino troppo ristretto; il vapore fischiava, sbuffava, ruggiva entro l’involucro di ferro e le ruote turbinavano con furia tale che la membratura scricchiolava da prua a poppa e che l’acqua rimbalzava, schiumeggiando, fino ai bordi.
– Getta il lok! – gridò Hider.
– Quindici nodi e cinque decimi, – gridò, qualche minuto dopo, un marinaio.
– Corriamo come uno dei più rapidi cacciatori di mare, – disse il quartier-mastro.
– Raggiungeremo la fregata? – chiese Tremal-Naik.
– Lo spero.
– Sul fiume?
– Sul mare. Non vi sono che centoventicinque chilometri fra Calcutta e il golfo.
– Quanto fila la fregata?
– Sei nodi all’ora e con mare calmo. È troppo vecchia e troppo impoppata.
– Ma non vorrei che giungesse a Raimangal.
– Nel qual caso, cosa faresti?…
– L’assalirei a colpi di sperone.
– Sei uomo risoluto, Tremal-Naik – disse il quartier-mastro, sorridendo.
– Bisogna che sia risoluto. Mi occorre la testa del capitano.
– Ma tu corri un gran pericolo!
– Lo so, Hider.
– Il capitano potrebbe scoprirti.
– Lo ucciderò prima.
– E se tu fallisci il colpo?
– Non lo fallirò, – disse Tremal-Naik con incrollabile fermezza.
– Quell’uomo è forte.
– Ed io sarò più forte di lui. Qui, nel cuore, sta scolpito un nome; quello di Ada!… Questo nome mi fa bollire il sangue: questo nome distrugge ogni timore: questo nome mi fa diventare una tigre ed un gigante. Colle mie braccia mi sentirei capace di afferrare la Cornwall e di stritolarla col capitano che la comanda e gli uomini che la montano.
– Ami sempre la vergine della pagoda, adunque?
– L’amo e tanto, che se ella mi venisse a mancare, mi ucciderei.
– Ti compiango, – disse Hider con voce lievemente commossa. Tremal-Naik lo guardò con ansietà.
– Mi compiangi? – mormorò. – Perché?…
– Non lo saprei dire.
– Sai forse qualche cosa tu?
– Non so nulla, – disse il thug, nella cui voce c’era una vibrazione triste.
– Mi sono ingannato?
– Sì, amico.
Hider guardò fisso fisso Tremal-Naik che era diventato meditabondo emise un profondo sospiro, e lasciò la lunetta per recarsi a prua.
La cannoniera continuava a divorare la distanza, fendendo le acque del fiume colla irresistibile potenza di un cetaceo. Le due rive fuggivano con crescente rapidità, mostrando confusamente boschi, paludi sconfinate coperte di canne e di erbe ingiallite, risaie melmose, brutti villaggi affogati entro putride acque o soffocati fra liane e palmizi dalle cupe volte, sotto le quali è fatale il soggiorno, per quanto sia breve, all’europeo non acclimatizzato.
Alle quattro, la cannoniera passava dinanzi a Diamond-Harbour, porticino situato presso la foce dell’Hugly, e dove i piroscafi ricevono gli ultimi dispacci. Non c’era che una casetta bianca circondata da sei cocchi. Dinanzi ergevasi l’albero dei segnali, sulla cui cima sventolava la bandiera inglese.
Subito le rive del fiume si allargarono considerevolmente e cominciarono ad abbassarsi, quasi al livello dell’acqua. In lontananza si disegnò la grande isola di Sangor, che segna il confine fra le acque del fiume e quelle del mare.
– Il mare! – gridò il marinaio installato sulla crocetta della maestra.
Tremal-Naik, bruscamente strappato dalle sue meditazioni da quel grido, si slanciò a prua, mentre i marinai s’arrampicavano sulle sartie e sulle griselle. Tutti gli sguardi si volsero verso le Sandheads (teste di sabbia) immensi banchi pericolosissimi proiettati dal Gange nel golfo del Bengala.
Nessun vascello appariva sulla linea dell’orizzonte, né al di qua, né al di là dell’isola Sangor; nessun lume brillava nella semi-oscurità.
Un grido di rabbia irruppe dalle labbra di Tremal-Naik.
– Gabbiere! – gridò all’indiano che si trovava sulla crocetta dell’albero, col cannocchiale puntato.
– Capitano!
– Si scorge?
– Non ancora.
– Udaipur, carica le valvole.
– Abbiamo la massima pressione, – osservò il macchinista.
– A sei atmosfere! – gridò Hider, che si mordeva la barba. – Quattro uomini di rinforzo nella macchina.
– Saltiamo in aria, – brontolò Udaipur.
Quattro indiani discesero nella camera della macchina. I fornelli furono riempiti di carbone.
La cannoniera non correva più; saltava sulle onde azzurre del golfo, fischiando e tremando. Un calore torrido saliva dalla stiva e un fumo nerissimo usciva furiosamente dal tubo.
– Dritto all’isola Raimatla! – gridò Hider, al timoniere.
La distanza che li separava dall’isola spariva rapidamente. Tutti gli indiani si erano issati sulle imbarcazioni sospese alle grue od alle sartie od alle griselle dell’albero e scrutavano l’orizzonte.
Un silenzio profondo regnava sul ponte, rotto solamente dalle febbrili pulsazioni della macchina e dai sibili del vapore che usciva dalle valvole.
– Nave a prua! – gridò ad un tratto il gabbiere.
Tremal-Naik provò una scossa come fosse stato toccato da una pila elettrica.
– La vedi? – tuonò egli.
– Sì, – rispose il gabbiere.
– Dove?…
– Al sud.
– Ed è?…
Il gabbiere non rispose. S’era alzato in piedi sulla crocetta, per abbracciare maggior orizzonte e guardava fisso fisso col cannocchiale.
– Nave a vapore! – gridò poi.
– La fregata!… La fregata!… – urlarono gl’indiani.
– Silenzio! – tuonò il quartier-mastro. – Ehi, gabbiere, dove va quella nave?
– All’est, radendo l’isola Raimatla.
– Guarda la prua.
– La vedo.
– Come è?
– Ad angolo retto.
Il quartier-mastro si slanciò verso Tremal-Naik che stava sulla lunetta.
– È la fregata, – gli disse. – Non v’è in India che la Cornwall che abbia lo sperone ad angolo retto.
Tremal-Naik in preda ad un’indicibile emozione, emise un grido di trionfo.
– Dove va? – chiese egli con voce stridula. – Osserva bene.
– Sempre all’est. Gira l’isola, al di fuori, temendo forse di non trovare acqua bastante nel canale.
– Sei certo?
– Certissimo.
– Sicché la incontreremo?…
– Al di là dell’isola, se ci inoltriamo nel canale.
– Governate in modo da incontrarla.
– Ma… – disse Hider.
– Silenzio, comando io.
Tremal-Naik lasciò la lunetta e discese nel quadro di poppa; Hider si collocò invece alla ruota del timone.
La cannoniera, che camminava tre volte di più della fregata, non impiegò molto a girare l’isola. Alle dieci del mattino usciva dal canale formato da Raimatla e le terre vicine, celandosi dietro l’estrema punta di un isolotto deserto, che sorge di fronte a Jamera.
Hider con un solo sguardo si assicurò che la nave nemica era ancora lontana.
– Tremal-Naik! – gridò.
Il cacciatore di serpenti apparve sul ponte, ma non era più lo stesso uomo di prima.
La tinta bronzina della sua pelle era diventata olivastra quanto quella di un malese; gli occhi apparivano assai ingranditi, mediante segni biancastri ben tracciati; i denti, poco prima bianchi come l’avorio, erano diventati neri come quelli del più arrabbiato masticatore di betel. Così sfigurato, con un cappellaccio di fibre di rotang sul capo, una cotonina rossa ai fianchi, due lunghi kriss (pugnali serpeggianti a punta avvelenata) sospesi alla cintura, era affatto irriconoscibile.
– Mi riconosci? – chiese al quartier-mastro che lo guardava con ammirazione.
– Ti riconosco perché a bordo non ho visto malesi.
– Credi che il capitano mi riconoscerà?
– No, non è possibile.
– Dimmi ora, come si chiamano i due affiliati imbarcati sulla Cornwall.
– Palavan e Bindur.
– Terrò in mente questi nomi. Fa’ mettere in mare un’imbarcazione.
Ad un cenno del quartier-mastro la yole fu calata.
– Cosa vuoi fare? – chiese dipoi.
– Aspettare qui la fregata e poi salire a bordo.
– Ed io?
– Tu andrai a nasconderti nel canale di Raimangal. Alla prima detonazione che odi, uscirai in mare e mi raccoglierai.
Afferrò una corda e discese nella yole la quale rullava vivamente sotto le ondate.
La cannoniera emise un fischio sonoro e s’allontanò rapidamente.
Un’ora dopo non era più che un punto nero sull’orizzonte, appena visibile.
Quasi nel medesimo istante, al sud, appariva un altro punto, sormontato da un pennacchio di fumo. Tremal-Naik lo guardò.
– La fregata! – esclamò. – Ada, dammi la forza di compiere la mia ultima impresa. Poi sarai mia sposa… e saremo finalmente felici!…
Afferrò i remi e si mise ad arrancare furiosamente, allontanandosi dall’isola le cui coste cominciavano a confondersi coll’azzurro del cielo.
La fregata si avanzava forzando la macchina e ingrandiva a vista d’occhio. Tremal-Naik continuava a remare cercando di tagliare la via.
A mezzodì cinquecento passi appena dividevano la yole dalla Cornwall. Era il momento aspettato dal cacciatore di serpenti.
Attese che un’onda inclinasse la yole, poi si gettò violentemente a babordo e la rovesciò, aggrappandosi alla chiglia.
– Aiuto!… aiuto!… – gridò con voce tonante.
Alcuni marinai si slanciarono sulla prua della fregata, poi una imbarcazione montata da quattro uomini fu calata in mare e si diresse verso il naufrago.
– Aiuto!… ripeté Tremal-Naik.
L’imbarcazione volava sulle acque nel mentre che la fregata rallentava la sua corsa.
In cinque minuti fu presso la yole.
Il naufrago afferrò le mani che un marinaio gli tendeva e salì a bordo borbottando:
– Grazie, ragazzi!
I marinai ripigliavano i remi e ritornarono alla Cornwall. Una scala fu gettata ed il falso malese grondante d’acqua, cogli occhi abilmente stravolti, fu condotto in presenza dell’ufficiale di quarto.
– Chi sei? – gli domandò questi.
– Paranga di Singapura, – rispose Tremal-Naik, guardandosi attorno con curiosità.
– Appartenevi a qualche nave?
– Sì, all’Hannati di Bombay, calata a picco quattro giorni or sono, a cento miglia dalla costa.
– A mare tranquillo?
– Sì s’era aperta una falla sotto poppa.
– E l’equipaggio?
– Si è annegato. Le imbarcazioni erano avariate e appena calate in acqua andarono a picco.
– Hai fame?
– Sono dodici ore che ho mangiato il mio ultimo biscotto.
– Olà, mastro Brown, conducete questo povero diavolo in cucina.
Il mastro, un vecchio lupo di mare con una barba grigia, cavò di bocca il suo mozzicone di sigaro mettendoselo delicatamente nel berretto, e, preso per mano il falso malese lo condusse sotto prua.
Una pentola ripiena di fumante zuppa fu messa dinanzi a Tremal-Naik, il quale l’assalì vigorosamente.
– Hai un buon appetito, giovanotto, – disse il mastro, studiandosi di sorridere.
– Ho lo stomaco vuoto. A proposito, come si chiama questo vascello?
– La Cornwall.
Tremal-Naik, guardò con sorpresa il lupo di mare.
– La Cornwall! – esclamò.
– Ti spiace il nome forse?
– Tutt’altro.
– E allora!
– Mi ricordo che su di una fregata che portava un nome simile, si erano imbarcati due indiani miei amici.
– To’! che combinazione! E si chiamano?
– L’uno Palavan, e l’altro Bindur.
– Questi due indiani sono qui, giovanotto.
– Qui a bordo?
– Sì, a bordo.
– Bisogna che li veda. Oh! Quale fortuna!
– Te li mando subito.
Il mastro risalì la scala e poco dopo due indiani si presentavano a Tremal-Naik. L’uno era lungo, magro, dotato d’una agilità da scimmia; l’altro di mezzana statura, membruto, più somigliante ad un malese che ad un indiano.
Tremal-Naik si guardò d’attorno per vedere se erano soli, poi tese la mano dritta mostrando a loro l’anello. I due indiani caddero ai suoi piedi.
– Chi sei? – chiesero con voce soffocata.
– Un inviato di Suyodhana, il figlio delle sacre acque del Gange – rispose Tremal-Naik, sottovoce.
– Parla, comanda, la nostra vita è nelle tue mani.
– Corriamo pericolo di essere uditi?
– Tutti sono sul ponte, – disse Palavan.
– Dov’è il capitano Macpherson?
– Nella cabina; dorme ancora.
– Sapete dove va la fregata?
– Tutti lo ignorano. Il capitano Macpherson ha detto che lo dirà quando saremo giunti a destinazione.
– Dunque anche gli ufficiali non sanno nulla?
– Assolutamente nulla.
– Quindi uccidendo il capitano si spegnerà con lui il segreto.
– Senza dubbio, ma noi temiamo che la fregata si rechi a Raimangal ad assalire i fratelli.
– Non vi siete ingannati, ma la fregata non sbarcherà i suoi uomini.
– Ma come?… Perché?…
– La faremo saltare in aria prima che arrivi all’isola.
– Quando tu lo vorrai, daremo fuoco alle polveri.
– Quando giungeremo a Raimangal, secondo i vostri calcoli?
– Verso la mezzanotte.
– Quanti uomini ci sono a bordo?
– Un centinaio.
– Sta bene. Alle undici ucciderò il capitano, poi faremo saltare il vascello. Una parola ancora.
– Parla.
– Bisogna che il capitano, alle undici, dorma profondamente.
– Verserò un narcotico nella sua bottiglia di vino, – disse Palavan.
– Si potrà giungere alla sua cabina senz’essere veduti?
– La cabina comunica colla batteria. Questa sera la porta sarà aperta.
– Basta così. Alle undici verrete a prendermi qui.
Tremal-Naik si rimise a mangiare. Divorò di poi un beefsteak capace di nutrire tre persone, vuotò una dietro l’altra, parecchie tazze di eccellente gin, si fece dare una pipa, poi si arrampicò su di un’amaca e vi si sdraiò mormorando:
– Salire sul ponte non è prudente. Il capitano potrebbe riconoscermi.
Cercò di addormentarsi, ma lo stato del suo animo era troppo agitato.
Mille e mille pensieri si cozzavano tumultuosamente nel suo cervello.
Pensava alle vicende passate, pensava alla sua adorata Ada, ed al momento in cui finalmente, dopo tante sofferenze, dopo tanti pericoli, la rivedrebbe e la farebbe sua sposa, e all’ultimo colpo che stava per giuocare. Cosa strana, incomprensibile per lui; ogni qualvolta pensava all’assassinio che stava per commettere, si sentiva invadere da un sentimento per lui nuovo. Si avrebbe detto che quel delitto gli faceva orrore.
Le ore scorsero così, lente, lente. Nessuno era disceso nella cabina, né egli ardiva mostrarsi sul ponte. Persino i due affiliati non si erano più fatti vedere.
Tremal-Naik cominciava a provare qualche timore e si domandava se era toccata, ai due thugs, quella disgrazia.
Alle otto il sole scese all’orizzonte e la notte calò rapidamente sulle azzurre onde del golfo di Bengala. Tremal-Naik, in preda alla più viva ansietà, salì la scala e sporse la testa sul ponte.
Soldati e marinai erano in coperta, alcuni affollati a prua cogli occhi fissi fissi all’oriente ed altri arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sulle crocette e sui pennoni.
A poppa scorse degli uomini che stavano armando alcune imbarcazioni.
Guardò sulla lunetta. Quattro ufficiali passeggiavano fumando e chiacchierando con vivacità. Il capitano Macpherson non c’era.
Ritornò nell’amaca ed aspettò.
La suoneria di bordo batté le nove, poi le dieci e quindi le undici.
L’ultimo tocco non era ancora cessato, che due ombre scendevano silenziosamente la scala.
– Presto, – disse una voce imperiosa. – Non abbiamo un minuto da perdere. Abbiamo Raimangal in vista.
Tremal-Naik riconobbe i due affiliati.
– Il capitano?– domandò con un filo di voce.
– Dorme, – rispose Bindur. – Ha bevuto il narcotico.
– Andiamo.
Nel pronunciare questa parola la voce di Tremal-Naik tremava. Provò un brivido tanto forte, che lo scombussolò.
Palavan aprì una porticina ed entrarono nella batteria, arrestandosi dinanzi ad una seconda porta che mettevano nel quadro di poppa.
– Siete risoluti? – chiese Tremal-Naik.
– Abbiamo messo la nostra vita nelle mani della dea Kâlì.
– Avete paura?
– Non sappiamo che cosa sia la paura.
– Uditemi.
I due thugs s’avvicinarono a lui cogli occhi fiammeggianti.
– Io vado a uccidere il capitano, – diss’egli con voce triste. – Tu, Bindur, scenderai nella Santa Barbara e accenderai un bel fuoco.
– Ed io? – chiese Palavan. – Voglio fare qualche cosa anch’io.
– Tu ti fornirai di tre salva-gente, poi verrai da me. Andate e che la vostra dea vi protegga.
Tremal-Naik afferrò una scure, varcò la soglia e penetrò nella cabina illuminata da una lanterna di talco.
Prima cosa che vide fu uno specchio che riflesse la sua immagine. Nel mirarsi ebbe paura.
La sua faccia era orribilmente stravolta, irrigata da grosse goccie di sudore e gli occhi fiammeggianti come le lame di due pugnali.
Abbassò lo sguardo su di un letto coperto da una fitta zanzariera. Un leggiero sospiro giunse fino a lui.
– È strano, – mormorò. – Non ho mai provato nulla di simile.
Fece tre passi e con mano tremante sollevò il velo.
Il capitano Macpherson era sdraiato sul letto e sorrideva. Senza dubbio quell’uomo sognava.
– I thugs, lo vogliono, – mormorò l’indiano.
Alzò sull’addormentato la scure, ma la riabbassò subito come se le forze gli fossero improvvisamente mancate. Si passò una mano sulla fronte e la ritrasse bagnata. Si guardò attorno con profondo terrore.
– Cos’è? – si chiese, sorprese, stupito. – Avrei io paura?… Chi è quest’uomo?… Cos’è questa terribile emozione che mi scuote?…
Tornò ad alzare la scure e per la seconda volta la abbassò. Non gli era mai accaduto una cosa simile. Gli parve che una voce interna gli mormorasse che quell’uomo era per lui sacro, che quel sangue che stava per versare non era sangue straniero.
– Ada! Ada! – esclamò quasi con rabbia.
Ad un tratto impallidì indietreggiando vivamente.
Il capitano s’era alzato a sedere e lo guardava con due occhi sbarrati.
– Ada!… – esclamò Macpherson con viva emozione. – Chi pronuncia il nome di mia figlia!…
Tremal-Naik, pietrificato, spaventato, era rimasto immobile.
– Ada! – ripeté il capitano. – Il nome di mia figlia!…
Poi s’accorse della presenza dell’indiano.
– Cosa fai tu qui, nella mia cabina? – chiese.
Un lampo attraversò il cervello di Tremal-Naik; un terribile sospetto gli era entrato nel cuore.
– Ma chi siete voi? – chiese con voce strozzata. Di quale Ada intendete parlare? Della mia forse?
– Della tua!… – esclamò il capitano stupito. – Parlo di mia figlia!…
– Dov’è?
– Dov’è?… Nelle mani dei thugs!…
– Possente Brahma!… Se fosse vero!… Una parola, capitano, un nome, vi prego!… Come si chiamava vostra figlia?
– Ada Corishant.
Tremal-Naik si nascose il volto fra le mani emettendo un grido d’orrore.
– La mia fidanzata!… Ed io stavo per ucciderle il padre!… Ah!… l’orribile trama!…
Poi cadendo ai piedi del letto esclamò:
– Perdono!… perdono!…
Il capitano, stupito, guardava Tremal-Naik chiedendosi se sognava o se era desto.
– Ma spiegati infine!… – esclamò.
Tremal-Naik, colla voce rotta dai singhiozzi, in poche parole gli svelò la trama infernale di Suyodhana.
– E tu sai dov’è mia figlia? – chiese il capitano che era già balzato in piedi, pallido per l’emozione.
– Sì, ed io vi condurrò dove si trova, – disse Tremal-Naik.
– Ritornamela e ti giuro che se ella ti ama sarà tua.
– Ah! grazie, capitano! La mia vita è vostra.
– Non perdiamo tempo; corriamo a Raimangal. Io stavo appunto per recarmi ad assalire i thugs nel loro covo.
– Un istante: ho due complici a bordo e forse stanno per far saltare la nave.
– Li appiccheremo.
Uscirono correndo e salirono sul ponte.
– Quattro uomini nella Santa Barbara e si arrestino i traditori che stanno per far fuoco alle polveri.
Invece di quattro, venti uomini si precipitarono nei depositi delle munizioni. Poco dopo s’udirono due tonfi seguiti da alcuni spari.
– Si sono gettati in mare, – disse un ufficiale lanciandosi sul ponte.
– Che si anneghino, – disse il capitano. Sono sicure le polveri?
– Ai traditori è mancato il tempo di spezzare i barili.
– Iddio ci protegge!… A tutto vapore al Mangal!…