Kitabı oku: «I pescatori di balene», sayfa 15
– A me, Koninson!… A me!…
Il fiociniere, messo in guardia dalla detonazione, si era già alzato col fucile in mano. Vedendo l’orsa inseguire il tenente, si slanciò innanzi e fece fuoco. La belva, ferita dalla palla, si arrestò di botto, poi tornò sui propri passi zoppicando; si fermò un momento presso il cadavere dell’orsacchiotto come per assicurarsi se era morto, e finalmente si cacciò nella palude scomparendo in mezzo alle macchie di salici.
XXVII. SUL MAKENZIE
Due ore dopo i due balenieri seduti ad un gran fuoco banchettavano allegramente colle carni dell’orsacchiotto che furono ad unanimità dichiarate eccellenti, più delicate di quelle dei porcellini da latte. La povera madre non si era più fatta vedere e pareva che ormai avesse abbandonato ogni progetto di vendetta; sicchè, dopo il pasto, poterono discorrere tranquillamente sul nuovo viaggio che stavano per intraprendere sul Makenzie e che molto probabilmente doveva essere l’ultimo, essendo lontani solamente poche giornate dal forte Speranza.
– Se tutto procede bene e non facciamo cattivi incontri, fra una settimana potremo riposare su di un buon letto – diceva il tenente, dopo aver narrato la fortunata scoperta dei «kajacks».
– Io conto di essere ormai fra le mura del forte – disse Koninson. – Sul fiume non troveremo ostacoli di certo.
– Non bisogna correre troppo, ragazzo mio. Ci troviamo in un certo paese che può giuocarci ancora dei brutti tiri. Gli indiani o gli eschimesi, gli orsi e la fame possono metterci in gravi imbarazzi.
– Io ho fiducia nella nostra buona stella che, dalle sponde dellArtico, ci condusse fin qui, signor Hostrup.
– Piuttosto quando saremo giunti al forte, cosa faremo?
– S’incaricherà quel comandante di farci condurre negli stabilimenti dell’est. Nella buona stagione le comunicazioni sono frequenti tra forte e forte e, quando saremo giunti nel Canada, daremo un addio all’America e torneremo in patria.
– Come desidero di rivedere la mia Danimarca, signor Hostrup! – disse Koninson sospirando. – I nostri parenti ci crederanno a quest’ora morti fra i ghiacci del polo.
– La cosa è certa.
– E di tanti che erano con noi, non ritornano che due! Povero capitano e poveri compagni!
– Lascia le cose tristi, mio buon Koninson, – disse il tenente che pure era diventato commosso. – Non è il momento di evocare la dolorosa storia del naufragio. Orsù, pensiamo a riposare, che domani dobbiamo partire per tempo.
– E non correremo alcun pericolo? L’orsa non si è più fatta vedere, ma potrebbe ritornare e approfittare del nostro sonno per divorarci il cranio.
– Hai ragione, quantunque le belve non osino avvicinarsi egli accampamenti difesi da un fuoco. Coricati; il primo quarto li guardia lo farò io.
Il fiociniere, che si sentiva ancora spossato, non se lo fece dire due volte e si sdraiò coi piedi volti verso il fuoco, mentre il tenente si sedeva pochi passi più lontano col fucile fra le ginocchia.
Il primo quarto passò senza incidenti, ma durante il secondo l’orsa si mostrò sull’orlo della palude e si spinse fino a poche centinaia di passi dall’accampamento mandando urla disperate. Il fuoco però, che veniva continuamente alimentato, la tenne lontana e verso le prime ore del mattino la povera madre ritornava in mezzo ai salici allontanandosi verso est.
Alle 7 i due balenieri, caricatisi delle loro armi e della carne dell’orsacchiotto, si misero in cammino seguendo la riva del Makenzie e tre ore dopo giungevano dinanzi alla tenda scoperta il giorno precedente.
Il tenente visitò accuratamente i «kajacks» e, trovatili in ottimo stato, ne gettò due sul fiume.
– In barca, – comandò poi – e facciamo molta attenzione ai ghiacci, poichè basta un solo urto per sfondare le costole di questi leggerissimi canotti.
Si cacciarono dentro, presero le pagaie a doppia pala e si spinsero al largo evitando con somma cura le lastre di ghiaccio che la corrente ancora trascinava, e in quantità rilevante.
Da principio le loro mosse furono faticose, ma ben presto le loro braccia ritrovarono l’antico vigore e i due leggieri canotti, spinti energicamente innanzi, risalirono il fiume con notevole velocità, rimbalzando agilmente sulla corrente.
Le due rive offrivano di quando in quando delle pittoresche vedute, ma erano affatto deserte. Quella di sinistra, alta assai, in taluni punti tagliata quasi a picco, era selvaggia, con rupi gigantesche dai cui crepacci saltavano nel fiume torrentelli spumeggianti, con gole profonde e affatto spoglie d’ogni vegetazione, con piccoli ghiacciai, che lasciavano scivolare grandi ammassi di ghiaccio, i quali s’inabissavano con cupo fragore rimontando poscia a galla; quella di destra invece scendeva dolcemente mostrando boschi di pini altissimi e di abeti e di betulle e macchie di salici nani in mezzo alle quali si vedevano saltellare numerosi topi campagnuoli dal mantello giallastro o bruno.
Qualche lupo si mostrava qua e là, ma fuggiva ratto, e anche qualche lince si spingeva fin sulle rive a guardare con gli occhi sanguigni i due piccoli canotti che filavano in mezzo ai ghiacci galleggianti.
I due naufraghi avevano già percorso una dozzina di miglia, quando improvvisamente giunse ai loro orecchi una specie di nitrito molto acuto che pareva emesso da un mulo.
Si fermarono entrambi, guardandosi in faccia con inquietudine.
– Se non m’inganno questo è il grido dell’orso bianco – disse Koninson.
– Non ti sei ingannato, ragazzo mio, – rispose il tenente.
– Fortunatamente abbiamo i canotti.
– Se all’orso saltasse il brutto ticchio di darci la caccia, i nostri canotti a nulla gioverebbero. Sono nuotatori formidabili, quei carnivori dal bianco mantello, e non perdono contro un canotto.
– Infatti sovente ho veduto qualcuno di questi mostri nuotare ad una trentina di miglia dalle coste. Mi sorprende però di trovarli qui, su questo fiume.
– E perchè, Koninson?
– Mi hanno detto che gli orsi bianchi non si allontanano molto dalle rive dell’Oceano.
– È vero, ma talvolta si addentrano nelle terre seguendo il corso dei fiumi e non di rado se ne uccisero ad una distanza di centosessanta e anche duecento miglia dalle coste marine.
II nitrito si fece udire più vicino. Koninson e il tenente guardarono verso la riva sinistra e videro scendere, attraverso la spaccatura di una roccia, un grosso orso bianco, il quale si arrestò sedendosi sulle zampe posteriori.
– Mi pare che non abbia delle buone intenzioni – disse Koninson. – Il birbante deve essere affamato e conta di satollarsi colle nostre carni. Eh, mio caro, sono troppo coriacee per il tuo ventricolo.
– Stiamo in guardia, poichè mi ha l’aria di non lasciarci passare. Appoggiamo verso la riva destra.
– Se si potesse piantargli due palle nel cranio?
– È impossibile avere il polso fermo in questi canotti. Orsù, prendiamo il largo.
L’orso non assaliva. Si accontentava di seguirli con due occhi che manifestavano un’ardente bramosia, agitando il capo da destra a sinistra, con quel moto che è particolare a tutti gli orsi, a qualunque razza appartengano.
I due canotti erano già giunti presso la riva che in quel luogo disgraziatamente non offriva approdi essendo tagliata quasi a picco, quando l’orso si decise a muoversi. Fece alcuni passi innanzi e indietro, come se cercasse un buon punto, poi si gettò nel fiume con un sordo tonfo, sollevando una colonna d’acqua.
– Presto, fuggiamo o siamo perduti! – gridò il tenente. – Attento ai ghiacci, Koninson, poichè se il tuo canotto si spezza l’orso non ti risparmierà.
Fecero forza di remi e risalirono la corrente sperando di giungere in qualche punto della sponda che permettesse di approdare e di affrontare sul terreno solido il nemico che nel liquido elemento aveva dalla sua tutti i vantaggi possibili.
Ma ben presto s’accorsero con vivo terrore, che quella gara con quell’abile nuotatore era impossibile. Infatti il feroce animale, che forse una gran fame animava, veniva innanzi con una velocità incredibile battendo furiosamente le sue larghe zampe e mostrando una larga bocca che, di quando in quando, richiudeva con colpi secchi da mettere i brividi. Certi momenti si slanciava quasi interamente fuori dell’acqua spiccando dei lunghi salti, come se trovasse un terreno solido, guadagnando in un colpo solo tre o quattro metri.
La buona stella però, che fino allora aveva protetto i naufraghi, anche questa volta non li abbandonò. Infatti ad una svolta del fiume scorsero alcun isolotti che potevano offrire un rifugio o almeno un luogo propizio per affrontare l’animale.
– Presto, Koninson! – disse il tenente che remava disperatamente. – Dirigiamoci laggiù e prendiamo subito terra.
Con un ultimo sforzo si avvicinarono agli isolotti e si arenarono dinanzi al primo. Abbandonati precipitosamente i canotti, si slanciarono a terra portando con loro i fucili e la scure.
L’orso non era lontano che trenta passi e raddoppiava gli sforzi temendo che l’agognata preda fosse per sfuggirgli. Vedendo i due uomini prendere terra e puntare i fucili, armi che senza dubbio non gli erano nuove, subito si tuffò.
– Fugge forse? – chiese Koninson, che contava di regalarsi uno zampone d’orso per pranzo.
– Non lo credo – rispose il tenente, tenendo il fucile sempre puntato. – Simili animali non abbandonano così facilmente una preda, quando sono affamati. Cercherà di avvicinarsi tenendosi sott’acqua per poi gettarsi contro di noi all’improvviso.
– Bah! Avrà l’accoglienza che si merita.
– Eccolo, Koninson! Mira giusto!
Infatti l’orso era repentinamente riapparso a pochi passi dall’isolotto. Con un solo balzo si slanciò sulla riva tentando di risalirla.
– Fuoco! – gridò il tenente.
Le due detonazioni dei fucili si fusero in una sola. La belva, ferita, mandò un lungo nitrito che parve anzi un vero urlo e tornò a sommergersi, lasciando alla superficie un cerchio di sangue che rapidamente si allargava.
– È morto! – gridò Koninson slanciandosi innanzi.
– Non ti fidare! – disse il tenente. – Sta in guardia!
L’avvertimento giungeva troppo tardi. Koninson si era già immerso nella corrente fino alle ginocchia, quando si sentì violentemente atterrare. L’orso, che spiava il nemico tenendosi sott’acqua, repentinamente si rialzò e urtò violentemente il fiociniere che non resse al colpo.
– Aiuto, signor Hostrup! – gridò il disgraziato, tentando, ma invano, di rimettersi in gambe.
– Non temere, ragazzo! – tuonò il tenente.
L’orso, con una agilità che si sarebbe creduta impossibile in quel corpo tutt’altro che ben formato, stava per gettarsi sul fiociniere per dilaniarlo coi potenti artigli, ma il tenente gli si gettò coraggiosamente dinanzi.
S’udì un colpo secco, seguito da un sordo grugnito. La belva, colpita mortalmente alla testa, si rovesciò nel fiume perdendo un torrente di sangue misto a brani di cervella, e sparve in mezzo ai gorghi.
– Grazie, mio tenente! – disse Koninson con voce commossa. – Non dimenticherò mai questo colpo maestro.
– Mi ringrazierai a pericolo finito! – rispose Hostrup, raccogliendo prontamente il fucile e disponendosi a caricarlo.
– Come? Non è morto dunque?
– Non è lui che ci darà ancora da fare, ma i suoi compagni. Guarda, mio povero amico, guarda sulla riva che ci sta di fronte.
Koninson guardò nella direzione indicata e non potè trattenere un gesto di spavento.
Da una collinetta che scendeva dolcemente nel fiume, tre forme biancastre scivolavano rapidamente sulla neve mandando dei grugniti punto rassicuranti. Erano tre altri orsi bianchi i quali, forse attirati dalle urla del compagno e dalle detonazioni, accorrevano a prendere parte alla lotta.
– Corpo d’una balena! – esclamò il fiociniere impallidendo. – Ma questo è il paese degli orsi! Ci assaliranno?
– Se son affamati come quello che abbiamo ucciso, non si accontenteranno di guardarci – rispose il tenente che cominciava a diventare inquieto.
– Si potrebbe tentare la fuga?
– Se la loro intenzione è quella di assalirci, l’acqua non li arresterà. Qui si tratta di mirare giusto e di picchiare sodo. Carica il tuo fucile e stiamo attenti.
I tre orsi erano allora giunti sulla riva del fiume, ma non parevano avere molta fretta. Andavano innanzi e indietro lentamente, guardando i due uomini più con curiosità che con ferocia, senza decidersi a entrare nel fiume.
Finalmente uno, il più grosso, s’immerse e nuotò in direzione degli isolotti, ma procedendo cautamente. Koninson e il tenente lo mirarono e gli scaricarono contro i fucili.
La lezione parve sufficiente, poichè il carnivoro s’arrestò un momento, poi raggiunse i compagni zoppicando e perdendo sangue.
Si fermarono ancora alcuni minuti sulla riva, indi s’allontanarono per la stessa via di prima, scomparendo dietro le rocce.
– Buon viaggio! – gridò il fiociniere.
– E tarda guarigione all’ammalato! – aggiunse il tenente. – Che il diavolo si porti questi affamati abitanti delle regioni artiche!
– Fortunatamente che non erano di cattivo umore, quei signori dalla bianca pelliccia. E quello che abbiamo ucciso, dove è andato a finire?
– La corrente l’ha portato chi sa mai dove, Koninson.
– Che disgrazia che tanta carne sia andata perduta!
– Bah! Ne troveremo dell’altra.
– Ma le munizioni scarseggiano, signor Hostrup. Non ho più di quaranta colpi.
– Ti basteranno per giungere al forte. Orsù, imbarchiamoci e proseguiamo il viaggio.
Rimisero a galla i canotti, vi si cacciarono dentro e abbandonarono il gruppo d’isolette colla maggior sollecitudine, temendo di vedere ritornare gli orsi bianchi che forse si tenevano celati dietro le rocce.
Fortunatamente i tre carnivori non si fecero vedere, sicchè poterono proseguire tranquillamente il loro viaggio costeggiando la sponda opposta che si manteneva così dirupata da non permettere la discesa ad alcun animale per quanto fosse fornito di solidi artigli.
A mezzogiorno fecero una breve sosta dentro un profondo «fiord» che li teneva riparati dai ghiacci che la corrente continuava a trascinare, mangiarono alla meglio un pezzo d’orsacchiotto, poi ripartirono.
Il viaggio fu però di breve durata, poichè ben presto si alzò sul fiume un nebbione così denso da non permettere più di discernere i ghiacci anche a pochi passi di distanza. Le due rive in breve scomparvero ai loro occhi.
– Approdiamo – disse il tenente, che temeva pei fragili canotti. – Vedo dinanzi a noi un isolotto boscoso che ci offrirà un buon fuoco e un riparo contro il freddo della notte.
– Non faremo cattivi incontri, spero.
– No, ma veglieremo per turno. Hai veduto come nuotano gli orsi bianchi? Se qualcuno si aggira sulle rive e si accorge della nostra presenza, non ci penserà su due volte a farci una visita durante il nostro sonno.
Presero terra all’estremità dell’isolotto che non aveva una estensione maggiore di trenta metri, tirarono a secco i canotti e si accamparono fra due alti pini. Koninson, dopo aver acceso il fuoco, fece una corsa attraverso quel brano di terra per assicurarsi che nessun animale fosse celato fra le piante, poi allestì la cena.
Alle 10 di sera, quando il nebbione era più fitto, il tenente sì coricò accanto al fuoco sotto la guardia del compagno, cui spettava il primo quarto.
Nessun incidente venne a interrompere il suo sonno. Alle due del mattino surrogò Koninson che cadeva dalla stanchezza.
Nessun rumore fino allora era stato avvertito, all’infuori del gorgoglio della corrente che si rompeva contro l’isolotto e gli urti dei ghiacci. Ma verso le quattro, quando il nebbione cominciava ad alzarsi, il tenente, che si teneva seduto accanto al fuoco col fucile in mano, avvertì dei vaghi rumori che venivano dalla riva destra.
Si alzò rapidamente e s’avvicinò al fiume curvandosi verso la corrente. Ben presto udì in mezzo al nebbione un lungo fischio che si ripetè parecchie volte.
– Che animale è mai questo? – si chiese egli. – Un orso no di certo.
Stette in ascolto e gli parve di udire degli scoppi di risa che era si avvicinavano ed ora si allontanavano.
– Se non mi trovassi sul Makenzie, direi che sulla riva ci sono delle jene, ma le terre della Baia d’Hudson non hanno mai ospitato questi animali dei climi caldi.
– Signor Hostrup! – disse in quell’istante il fiociniere che si era svegliato. – C’è della gente allegra, a quanto pare. Chi ride in questo brutto paese?
– È ciò che io sto chiedendomi – rispose il tenente.
– Sono persone o animali?
– Persone senza dubbio.
– Forse siamo giunti al forte senza accorgercene?
– Io credo che sia ancora molto lontano.
– Provate a chiamare.
– Olà, chi ride? – gridò il tenente.
Una specie di grugnito vi rispose, seguito tosto da risa sgangherate e un vociare di persone.
– Senza dubbio ci sono degli Indiani – disse il fiociniere raggiungendo il tenente. – Ci saranno amici o nemici?
– In questo paese non si può dire mai nulla, poichè le tribù indiane oggi rispettano i bianchi e domani sono capaci di assassinarli a tradimento.
– Provatevi a interrogarli. Che lingua parlano gli abitanti di questa regione?
– Una lingua che ben pochi conoscono, ma avendo essi frequenti comunicazioni coi forti della Compagnia comprenderanno l’inglese o almeno il russo.
– Proviamoci.
– Olà, chi siete e da dove venite? – chiese egli in inglese.
– Co-yuconi, – rispose una voce forte e distinta.
– Corpo d’un vascello sventrato! – esclamò Koninson, facendo un salto. – Io conosco questa voce!
– È quella…
– Del capo Tanana che ci ha derubati.
– Se è proprio lui che ha parlato, gli farò pagar caro il tradimento. Arma il fucile e teniamoci pronti a tutto.
XXVIII. FRA I TANANA E I LUPI
La nebbia a poco a poco si alzava.
Il sole, che appena sceso sotto l’orizzonte subito riappariva, cominciava già a lanciare fasci di luce attraverso le masse di vapore, facendo scintillare vivamente i ghiacci che il fiume trascinava nel suo corso. Ancora pochi minuti e la riva sulla quale dovevano trovarsi i Co-yuconi sarebbe stata interamente visibile.
Le voci si continuavano a udire. Pareva che gli indiani si divertissero, poichè gli scrosci di risa non cessavano, anzi diventavano più sonori e più allegri. Però, nel momento in cui un gran fascio di luce, attraversando uno strappo manifestatesi nel nebbione, scendeva sull’isolotto, le voci improvvisamente cessarono, poi si riudirono a qualche distanza per quindi spegnersi completamente.
– Se ne sono andati – disse Koninson, facendo un gesto di dispetto.
– Ma forse il loro accampamento non è lontano – rispose il tenente.
– E contate di recarvi colà?
– Senza dubbio, fiociniere, poichè ci saranno di non poca utilità. Ecco che il nebbione si alza rapidamente; possiamo imbarcarci, ora che i ghiacci sono visibili.
– Sono pronto a seguirvi, signor Hostrup.
Rimisero in acqua i canotti, s’imbarcarono e in pochi minuti si trovarono sulla sponda opposta riparati dentro un piccolo seno formato da due alte rocce.
– Vedi nessuno? – disse il tenente, armando per precauzione il fucile.
– Nessuno, nè odo alcuna voce – rispose il fiociniere,
– Allora possiamo sbarcare.
– Una parola prima, signor Hostrup. Se gli indiani ci fanno un’accoglienza ostile, bisognerà venire alle mani e non so come la finirà. Noi siamo due, e loro sono in molti, forse.
– Hanno troppo paura dei bianchi per alzare le mani contro di noi. Eppoi il forte Speranza è vicino e non ardiranno farci qualche brutto tiro.
– Ma perchè volete avvicinarli?
– Non l’hai ancora compreso? È per farci condurre al forte dietro qualche compenso.
– Vi prevengo che la mia borsa è rimasta sul «Danebrog».
– Abbiamo i nostri fucili, armi molto preziose in questa regione.
– Allora andiamo, signor Hostrup.
In fondo al piccolo seno, fra due rupi, s’apriva a uno stretto sentieruzzo per il quale senza dubbio gli indiani erano discesi. I due balenieri, abbandonati i canotti dopo di averli ben assicurati ad uno scoglio, s’arrampicarono su per quello scabroso passaggio e raggiunsero la cima di una rupe dalla quale si poteva dominare un vasto tratto di paese.
Dinanzi a loro si estendeva una vastissima pianura, chiusa verso sud, ma a molte leghe di distanza, da una grande catena di montagne che probabilmente si staccava dalla grande catena delle Montagne Rocciose che forma l’ossatura principale dell’America del Nord. Qua e là, specialmente lungo il corso del fiume, apparivano boschi di pini, di abeti, di betulle e di altissimi pioppi.
Il luogotenente, che guardava attentamente verso est, non tardò a scorgere un gruppo di tende che si appoggiava ad un bosco e dalle cui cime coniche uscivano delle nuvolette di fumo
– Ecco l’accampamento – disse il fiociniere.
– Ma mi sembra molto grande, signor Hostrup. Quali indiani saranno?
– Forse dei Denè o dei Loschi, oppure dei Chippewyans.
– E il forte, lo vedete in nessun luogo?
– È molto lontano, fiociniere, forse qualche centinaio e anche più di chilometri. Forza alle gambe e avanti.
Si gettarono in spalla i fucili e partirono di buon passo, fiancheggiando un bosco che seguiva il corso del fiume ed entro il quale si udivano numerosi ululati di lupi. La neve che ancora copriva la pianura, essendosi gelata durante la notte, rendeva la marcia facile. In meno di un’ora giunsero a poche centinaia di passi dall’accampamento composto di una quindicina di tende.
L’abbaiare di numerosissimi cani, che avevano fiutato le vicinanza di stranieri, fecero uscire dieci o dodici uomini, i quali avanzarono senza diffidenza verso i due naufraghi.
Erano tutti di statura piuttosto inferiore alla media, dalla pelle olivastra e lucente, forse perchè unta di recente con grasso, cogli occhi un pò obliqui e i capelli neri, grossi e lunghi. Portavano vesti di pelle di foca e di orso, munite di cappucci orlati di pelle di volpe, ed avevano lunghi stivali cuciti con nervi di animali. Le loro armi consistevano in certe fiocine di denti di narvalo munite d’una punta di rame, e in archi.
– Sono eschimesi – disse il tenente che li aveva subito riconosciuti.
– Possiamo fidarci? – chiese Koninson.
– Godono fama di essere molto ospitali, ma assai vendicativi. Credo che non avremo da temere.
Un eschimese, che doveva essere certamente un capo, a giudicarlo dalle vesti che erano più ricche di quelle degli altri, s’avvicinò ai naufraghi e, dopo averli salutati in inglese, strofinò energicamente il proprio naso contro il loro in segno di amicizia.
– I bianchi nulla hanno da temere dalle tribù degli Innoit! – disse poscia. – Siano i benvenuti nella mia tenda.
– Siamo pronti a seguirti, – rispose il tenente – e non avrai a pentirti di averci ospitati.
– I bianchi si recano al forte Speranza?
– Sì, ma noi non conosciamo la via venendo dalle lontane regioni dell’ovest.
– Kumiath la insegnerà! – rispose il capo. – Seguitemi nella mia tenda.
Il capo li condusse nell’accampamento dove vennero circondati da una trentina di eschimesi fra uomini e donne accorsi da tutte le parti ai furiosi abbaiamenti dei cani. Il tenente e il fiociniere notarono che fra i curiosi si trovavano anche alcuni individui che per la loro statura più elevata, per le loro vesti e per i loro lineamenti parevano appartenere ad un’altra razza. Non vi fecero però molto caso e seguirono il capo il quale, dopo averli fatti passare attraverso un vero labirinto di bastoni sostenenti gran numero di pezzi di carne messi a seccare, li condusse in una piccola tenda dove, in mezzo a mucchi di pelli, marcivano, fra odori pestilenziali, ma che sembravano invece apprezzati dagli eschimesi che si cibano volentieri di carni corrotte, salmoni, lucci, trote, gadus, coreganus ed altri pesci del Makenzie.
Benchè non si trovassero troppo bene fra quei miasmi, si accomodarono su una gran pelle d’orso distesa per terra e fecero come meglio poterono onore al cavallo marino conservato in olio di balena e ad una grossa trota, un pò troppo passata, offerta loro dal capo. Per tema di fare un affronto all’eschimese, furono anche costretti a sorbire una certa quantità di olio di morsa che fu loro gentilmente offerto, con quante smorfie ognuno lo può immaginare.
Terminato quel diabolico pasto, sontuoso per un eschimese gran bevitore d’olio e mangiatore di carne cruda, corrotta o malamente affumicata sulla fiamma di una lampada, ma quanto mai disgustoso per un europeo, il capo intavolò una conversazione narrando che da soli pochi giorni aveva lasciato il forte Speranza, dove aveva fatto moltissimi scambi di pelli contro tabacco, conterie, armi, ecc., e che ora stava per raggiungere le sponde dell’oceano a cacciarvi la balena.
– Dista molto il forte? – chiese il tenente, quando il capo ebbe finito.
– Tre giorni di marcia e niente di più! – rispose l’eschimese. – Basta seguire questo bosco che si stende lungo le rive del Makenzie per non smarrire la via.
– Ci sono altre tribù che si dirigono al forte?
– Sì, una che è venuta dalle lontane regioni dell’ovest, come voi e che si è accampata nel bosco.
– Appartiene alla vostra razza?
– No.
– È molto numerosa?
– Lo è diventata in questi giorni. Conta almeno quattrocento uomini.
– Il suo nome?
– Il suo nome è… Tò, ecco alcuni dei suoi uomini, senza dubbio qui giunti per vedere gli uomini bianchi e che…
Non aveva ancora finito che il fiociniere, alzatesi di colpo, si precipitava fuori urtando furiosamente contro un grosso attruppamento di persone radunatesi dinanzi alla tenda. Il suo robusto pugno piombò con secco rumore su di un uomo il quale stramazzò a terra mandando un urlo di dolore.
Gli eschimesi si divisero precipitosamente, lasciando alle prese i due avversari che lottavano con pari accanimento.
Il tenente, che non sapeva ancora di che si trattasse, accorse in aiuto di Koninson, il quale ad ogni pugno che lasciava cadere gridava:
– Questo per la polvere! Questo per le palle! E questo per la carne che ci hai rubato!
Solo allora si accorse che l’avversario era un indiano, anzi il capo Tanana che li aveva indegnamente traditi e derubati sulle rive del Porcupine.
Stava per piombare anche lui sul traditore, quando questi sgusciando con una agilità sorprendente fra le mani del fiociniere, riuscì a rimettersi in piedi.
– Ti ucciderò! – gridò minaccioso.
Poi fuggì a rompicollo verso la foresta dove si trovava il suo accampamento. Il tenente, che aveva perduta la sua flemma abituale, stava già per armare il fucile e inviargli una palla nel dorso, ma il capo eschimese gli abbassò l’arma dicendogli:
– Sii prudente! Essi sono molti e molto vendicativi.
– Ma quell’uomo ci ha derubati, dopo aver chiesto il nostro aiuto per rifornirsi di viveri – disse il tenente.
– Meriterebbe la morte, ma tu qui sei straniero e non hai che un compagno, mentre i Tanana sono numerosi. Vieni nella mia tenda e cercheremo di accomodare ogni cosa.
– È troppo tardi! – disse il fiociniere. – Si tratta ora di far parlare i fucili.
E non s’ingannava. Dalla foresta uscivano allora due o trecento guerrieri, mandando grida assordanti. I più erano armati di fiocine e di coltelli, ma taluni portavano dei fucili, assai vecchi, ma non del tutto in cattivo stato.
– Che uragano sta per scoppiare? – si chiese Koninson che si preparava però a vendere cara la vita. – Non so come la finirà, se quei pagani si gettano tutti uniti contro di noi.
– Fuggite! – disse l’eschimese che aggrottava la fronte e che era diventato pensieroso. – I Tanana sono valorosi e non si arresteranno dinanzi ai vostri fucili.
– Ma dove fuggire? – chiese il tenente. – I nostri canotti sono lontani e saremo raggiunti prima di trovarli.
– Dietro la mia tenda ho una slitta tirata da una muta di robusti cani. Montatela e fuggite verso il forte.
– Ma si vendicheranno contro di te, mio buon eschimese.
– I Tanana non ardiranno alzare le mani contro di me – rispose con fierezza l’eschimese. – Questa è la terra degli Eschimantik (mangiatori di pesce crudo), come loro ci chiamano, e sanno che una offesa fatta alla mia tribù la pagherebbero cara, poichè i miei compatrioti non la lascerebbero impunita. Presto fuggite, o sarà troppo tardi.
Il tenente si levò l’orologio e lo diede al bravo eschimese dicendogli:
– Conservalo in memoria della tua buona azione. Ed ora alziamo i tacchi.
Si slanciò dietro la tenda seguito da Koninson, ma si arrestò subito mandando una sonora imprecazione. Sette od otto Tanana, che si erano avvicinati tenendosi nascosti dietro le tende degli eschimesi, sbarravano la via. Alla loro testa, armato d’un vecchio fucile, si trovava il capo, il cui naso schiacciato dal potente pugno del fiociniere, mandava ancora sangue.
– Ah, brigante! – gridò il tenente.
– Non si passa di qui – disse il capo con tono minaccioso.
– E cosa pretenderesti tu?
– Che tu mi consegni il tuo compagno perchè io vendichi l’affronto fattomi.
– Bene, prendi questo, giacchè lo vuoi.
Il tenente puntò rapidamente il fucile e fece fuoco. Il Tanana, colpito alla fronte, stramazzò al suolo fulminato, mentre i suoi guerrieri fuggivano disordinatamente gettando urla di rabbia e di vendetta.
– Presto, Koninson, salviamoci! – disse il tenente.
– Andiamo, signore, e filiamo dritti al forte.
La slitta era pronta. Dodici robusti cani, somiglianti ai lupi, dalle gambe nervose, erano attaccati due a due, pronti a partire al primo segnale.
I due naufraghi balzarono nel veicolo e si slanciarono attraverso la pianura trascinati in una rapidissima corsa.
Dalla parte dell’accampamento scoppiarono alcune fucilate, le cui palle attraversarono gli strati d’aria sibilando; poi si videro i Tanana dirigersi correndo verso il bosco mandando clamori assordanti.
– Tò! Fuggono forse? – chiese Koninson al tenente che animava i cani colla voce e colla correggia.
– Ne dubito, fiociniere.
– Che ci diano la caccia?
– Lo temo, ma i nostri cani corrono come il vento e abbiamo già un notevole vantaggio.
– Terranno duro questi corridori?
– Per parecchie ore e senza rallentare. Basta che la neve non ceda sotto il peso della slitta.
– Vedo che la pianura è tutta bianca. Ma oh! La matassa s’imbroglia!
– Che cosa vedi?
– Delle slitte che escono dal bosco.
– Sono i Tanana che ci danno la caccia. Quante sono?
– Ne ho contate sette e, se non corrono più di noi, certo non rimangono indietro.
II tenente volse un rapido sguardo verso il bosco e vide infatti sette slitte correre con fantastica rapidità sulla nevosa pianura, trascinate da lunghe file di cani. Quattordici uomini le montavano e i più erano armati di fucili.