Kitabı oku: «I pescatori di balene», sayfa 2
III. IL MARE DI BEHRING
Le isole Aleutine formano una lunga catena che separa il Grand’Oceano dal mare di Behring. Si dipartono dalla penisola di Alaska, il punto più avanzato della costa americana verso occidente, e descrivendo un immenso semicerchio vanno a congiungersi colla costa asiatica, lasciando fra di esse degli stretti numerosissimi, ora piccoli ed ora grandi, spesso ingombri di scogIietti e di banchi che rendono la navigazione assai difficile.
Dirne il numero esatto è impossibile anche oggi, poichè molte sono appena conosciute e molte altre non lo sono affatto. Ad ogni modo sono moltissime e talune di rispettabile grandezza, quali la Behring, Atton, Unalaska, Unimak, ecc. La popolazione di tutto l’arcipelago si crede non superi le 6000 anime.
Per lo più dette isole sono montagnose con alcuni vulcani che vomitano quasi sempre fumo e le spiaggie alte assai rendono l’approdo difficile, anche perchè cinte da numerosi frangenti contro i quali, da una parte e dall’altra, si rompono con orribile frastuono le onde del Grand’Oceano e quelle del mare di Behring.
Su quelle rupi non crescono che degli intristiti abeti, delle piccole quercie, dei salici nani, e nelle valli riparate dai gelidi soffi del vento settentrionale, delle fitte e alte erbe. Ma se la flora è così misera la fauna invece è ricca, infatti innumerevoli sono le volpi, le renne e anche le foche. Non poche lontre, quantunque accanitamente cacciate dagli agenti della compagnia russo-americana, vivono presso le sponde, e anche le balene di quando in quando vi fanno la loro comparsa.
Prima del 1741 queste isole erano a tutti sconosciute. Il celebre navigatore danese Vito Behring fu il primo a scoprirne alcune, il suo compagno Tchirikof ne scopriva altre nel 1742, e Billings e Saritchef negli anni 1793 e 1795 visitavano le restanti. È però probabile che talune non siano ancora state percorse da alcun europeo od americano
L’isola avvistata dal «Danebrog» era Unimak, la più occidentale dell’arcipelago, situata a 54° 30’ di latitudine nord e 167° di longitudine ovest. Si distinguevano chiaramente le sue tre montagne, la prima colla cima irregolarissima, la seconda in forma di cono e alta assai, vomitante un fumo nerissimo e la terza, chiamata dagli indigeni Kaighinak, mozzata. Quantunque si fosse in piena estate, sulle cime scintillavano con magico effetto i ghiacci non ancor disciolti dal sole.
– Entriamo nello stretto o giriamo di fuori? – chiese mastro Widdeak al capitano, che osservava l’isola.
– Il passo di Isanotzkoi ci è troppo famigliare perchè non si tenti il passaggio. Così potremo vedere se il capodolio si è arenato sulle coste della penisola d’Alaska.
Mastro Widdeak tornò al timone e diresse la nave verso Io stretto accennato che divide l’isola di Unimak dall’Alaska. Ben presto si trovò a poche gomene dalle sponde della prima, dove virò di bordo veleggiando parallelamente ad esse.
L’isola sembrava completamente deserta, quantunque l’abitino un cento o centocinquanta aleutini. Non si vedeva alcuna capanna e nemmeno un battello fra i piccoli «fiords». Anche i terreni apparivano aridissimi: solamente dei piccoli abeti rizzavano verso il cielo il loro verde fogliame e poche erbe si scorgevano in fondo alle vallette.
Le sponde dappertutto erano alte, dirupate e sparse qua e là di massi di basalto, forse colà lanciati dal vulcano fumante durante la terribile eruzione del 1820.
Alle 2 del pomeriggio il «Danebrog» entrava lentamente nello stretto di lsanotzkoi percorso da forti ondate, le quali andavano a rompersi con estrema furia contro le sponde dell’isola.
Colà volteggiavano numerosissime bande di gabbiani dalle piume bianchissime ma tinte leggermente di rosa sotto l’addome, i piedi neri e il becco giallo, uccelli voracissimi che si tengono quasi sempre presso le isole artiche, ma di una codardia fenomenale, poichè basta un uccello qualsiasi per metterli in fuga. Quantunque la loro carne sia poco pregiata, il tenente Hostrup, appassionatissimo e bravissimo cacciatore, sparò alcune fucilate abbattendone parecchi nel momento che passavano sopra il legno.
Alle 3 fu segnalata una barca indigena che pareva provenisse dalla vicina penisola di Alaska. Era una «baidaire», scialuppa grandissima, scavata nel tronco di un grossissimo albero colà portato senza dubbio dalle correnti marine e montata da una ventina di aleutini, uomini di mediocre statura ma robustissimi di tinta bruna, con viso rotondo, naso schiacciato, occhi piccoli ma espressivi e capelli nerissimi.
Passando presso il «Danebrog» salutarono con alte grida i marinai. Il capitano approfittò per interrogarli circa il capodolio, ma nulla potè sapere, avendo quegli uomini lasciata la penisola di Alaska da due sole ore.
Più tardi fu vista anche una «bodarkie», leggerissimo canotto costruito con pelli di vitello marino e somigliantissimo a quello usato dai groenlandesi. Lo montava un solo uomo munito di un remo a due pale, e pareva venisse da nord. Camminava però così rapidamente che in breve sparve verso est.
– Forse quell’uomo poteva direi qualche cosa – disse Koninson al tenente che guardava distrattamente le coste dell’isola.
– Se avesse scoperto il capodolio io ti dico che non ce l’avrebbe detto, fiociniere – rispose Hostrup.
– E perchè?
– Per spogliarlo lui coi suoi compagni. Un capodolio rappresenta una vera fortuna per questi poveri abitanti che ben sovente soffrono la fame, ma lo troveremo, fiociniere, non temere. Ho guardato poco fa l’acqua e ho scorto delle macchie oleose galleggiare e ciò indica che il nostro cetaceo è passato di qui.
– Mille tuoni! Bisogna seguire queste tracce.
– Le seguiremo Koninson.
– Io pianterò domicilio nella rete della delfiniera per non perderle.
– Niente di meglio.
Alle 9 di sera il «Danebrog», che filava con una discreta velocità, usciva dal canale di Isanotzkoi ed entrava nel mare di Behring, ampia distesa d’acqua compresa fra il 52° e 66° di latitudine nord e il 160° e 200° di longitudine est, cinta al sud dalla lunga catena delle isole Aleutine all’est e al nord-est dalle coste americane e al nord-ovest e ovest dal Kamtsciatka.
La maggiore lunghezza di questo mare che per lo più è coperto di nebbioni e di ghiacci, è da est ad ovest di circa 560 leghe. Tanto sulla costa americana quanto su quella asiatica, forma baie ampie ove non di rado vanno a partorire le balene durante la «stagione dei seni». Sono rimarchevoli a nord-ovest la grande baia, che può chiamarsi anche golfo d’Anadyr, ove si scarica il fiume omonimo, ad ovest quelle di Aliutorskoi e di Kamtsciatka e ad est quelle di Bristol e di Norton. Racchiude pure nel suo seno isole considerevoli, quali Sidov, San Matteo, San Paolo e San Giorgio.
Nel momento che il «Danebrog» entrava in questo vasto e molto pericoloso mare, nessuna vela si scorgeva sull’orizzonte, nè alcun cetaceo. Solamente alcune procellarie, funesti uccelli che non si dilettano che di tempeste, sfioravano le onde, entro le quali di quando in quando si tuffavano per pescare i pesciolini. Tre o quattro vennero a volteggiare attorno alla nave, mostrando le loro penne nerissime.
Il «Danebrog», spinto da un forte vento di sud-sud-ovest, si slanciò verso l’ampia baia di Bristol, dove si scorgevano sui flutti le sostanze oleose che davano all’acqua una tinta più verdastra, ma l’intera notte passò senza che quel dannato capodolio si facesse vedere.
L’indomani, 26 agosto, ancora nulla. Il capitano Weimar cominciò a diventare inquieto e di assai cattivo umore. Gli pareva impossibile che il mostro, con un rampone nei fianchi, avesse potuto percorrere tanta via quantunque si continuassero a scorgere le macchie oleose sui flutti.
Anche il secondo, di solito così flemmatico, era diventato un po’ nervoso. Passeggiava per la coperta fumando la sua eterna pipa con maggior furia e di tratto in tratto lo si udiva brontolare.
Koninson poi, che da ventiquattro ore aveva piantato domicilio nella rete della delfiniera per non perdere di vista le macchie oleose, dormendo colà e facendosi servire pure colà i pasti, era proprio furibondo. Lo si vedeva in continua agitazione, a rischio di sfondare la rete e di quando in quando lo si udiva mandare al diavolo tutti i capodolii degli oceani e. qualchevolta il rampone di Harwey.
Il 27 nulla ancora. Il mattino del 28, a trenta miglia a sud dal capo Rumjenzow, un gabbiere segnalò una nave che si dirigeva verso il sud correndo bordate.
Il capitano Weimar ordinò subito al timoniere di dirigere il «Danebrog» a quella volta per interrogare l’equipaggio.
Mezz’ora dopo si trovava a un solo miglio dalla nave segnalata. Era un bel «brick» di duecentocinquanta o trecento tonnellate, di forme eleganti e quasi carico. A poppa si alzava un fumo nerissimo segno evidente che l’equipaggio procedeva alla fusione di materie grasse.
– Deve essere un baleniere – disse il tenente.
– Weimar fece spiegare la bandiera danese e con una serie di segnali pregò il «brick» di mettersi in panna: il che subito fece. Il «Danebrog» in pochi minuti lo raggiunse mettendosi pure in panna a tre gomene di distanza.
– In che cosa posso esservi utile? – chiese il capitano del «brick», imboccando il portavoce, mentre il suo equipaggio spiegava la bandiera stellata degli Stati Uniti d’America.
– Venite dallo stretto? – chiese Weimar.
– L’avete detto.
– Avete incontrato un capodolio con un rampone al fianco?
– Sì, capitano. L’ho scorto ieri sera dinanzi la baia di Norton.
– Vivo?
– Vivo sì, ma mi parve agli estremi.
– Come va la pesca?
– Ho carico completo. Se volete un buon consiglio uscite dallo stretto e costellate la Giorgia. Troverete balene in gran numero.
– Grazie, capitano.
– Buona fortuna, signore.
Il «brick» spiegò le vele e riprese la corsa verso il sud, mentre il «Danebrog» si dirigeva verso il capo Rumjänzow che doveva apparire fra breve.
La speranza di ritrovare ben presto il capodolio era rinata in tutti i cuori. Koninson per primo aveva abbandonato il suo domicilio per arrampicarsi sulla gran gabbia e parecchi altri marinai l’avevano seguito, anzi alcuni si erano spinti più in alto, fino alle crocette. Persino il flemmatico tenente si era arrampicato sul trinchetto e dalla coffa esplorava il mare con un forte cannocchiale.
Alle 10 del mattino il «Danebrog» girava il capo Rumjänzow ed entrava nella baia di Chactoole, assai aperta e poco sicura, a nord-est della quale, fra il 64° e il 65° di latitudine nord e il 163° e il 164° di longitudine ovest, si apre la baia di Norton, scoperta dal celebre capitano Cook nel 1778.
Le coste apparivano dirupate e altissime, frastagliate, minate, sventrate dall’eterna azione del mare e con piccolissimi «fiords» entro i quali si ingolfavano le onde con grande fragore. Qua e là si vedeva qualche abete, qualche betulla nana, qualche cespuglio e delle cascate d’acqua che balzavano di roccia in roccia con bellissimo effetto.
Il «Danebrog» per qualche tratto navigò in prossimità delle coste, indi mise la prua verso la baia di Norton che raggiunse verso le 4 del pomeriggio dopo aver girato un capo dirupatissimo che cadeva quasi a piombo sul mare.
Quasi subito si udì Koninson dall’alto della gran gabbia gridare:
– Il capodolio a prua!
Tutti gli occhi si volsero verso la direzione accennata. A cinque sole gomene dal «Danebrog», vicinissimo alla costa, galleggiava coi ventre in aria il cetaceo circondato da migliaia e migliaia di uccelli marini che formavano, colle loro discordi grida, un baccano indiavolato.
IV. L’URAGANO
Era proprio il cetaceo che Harwey aveva ramponato dinanzi all’arcipelago delle isole Aleutine e che dopo due, tre, quattro giorni di continua fuga era colà andato a spirare.
Il mostro portava ancora nel fianco l’arma che l’aveva ucciso alla quale era attaccata la lenza colla «droga» portante le cifre del «Danebrog».
Sul suo ventre e sulla enorme testa che era un po’ affondata si vedevano le procellarie, i gabbiani, le urie e le strolaghe cibarsi delle sue grasse carni. Ve n’erano delle migliaia ed altre ancora accorrevano da tutte le parti dell’orizzonte per prendere parte al lauto banchetto.
Il «Danebrog», abilmente diretto da mastro Widdeak, venne a collocarsi a fianco del cetaceo, attorno al quale nuotavano già, ma senza arrischiarsi ad addentarlo, tanta è la paura che destano in tutti gli abitanti del mare siffatti giganti, numerosissime torme di smisurati pescicani.
– È un bel mostro – disse Koninson gettando gli occhi su quell’enorme massa. – Scommetterei che misura diciannove metri
– E forse di più disse il tenente. – Ci darà almeno novanta tonnellate d’olio.
– Ci vorrebbe una bestiaccia così ogni settimana. Si diventerebbe ricchi in una sola stagione.
– Al lavoro, giovanotti! – gridò il capitano. – Bisogna far presto se si vuole uscire dallo stretto di Behring prima della comparsa dei ghiacci.
Mastro Widdeak fece calare in mare una baleniera e vi saltò dentro con sei uomini armati di palette taglienti, abbordando il cetaceo alla testa. Con parecchi vigorosi colpi aprirono il labbro inferiore, entrarono nella enorme bocca e intaccarono la lingua, enorme massa oleosa del peso di parecchie tonnellate e che, ben cucinata, è un cibo non disprezzabile.
Mentre il mastro operava da quel lato, Koninson, seguito da parecchi marinai, tagliava un fitto strato di grasso in prossimità della testa, facendolo passare, senza però spezzarlo, a bordo.
Quando la lingua fu ritirata in coperta, i marinai cominciarono a far girare lentamente l’enorme cetaceo, il quale presentò presto il dorso irto di strane protuberanze.
Il tenente Hostrup e quattro uomini armati di scuri, con mille precauzioni, per non cadere in mare raggiunsero il cranio che tosto sfondarono per raccogliere quel prezioso olio che è conosciuto in commercio sotto il nome di «bianco di balena» e viene specialmente adoperato nella fabbricazione delle candele e dei saponi di lusso.
Quest’olio, o meglio questo spermaceto, è bianco, brillante, perlaceo e si trova in un canale allungato che forma, riunendosi, le ossa del cranio con quelle della faccia. Nell’animale vivo è fluido, ma nell’animale morto lo si trova coagulato e talvolta il canale, ne contiene più di quattro tonnellate. Ordinariamente però non sono che tre, e tante appunto ne conteneva il capodolio abbordato dal «Danebrog».
Raccolto lo spermaceto che si vende ad un prezzo piuttosto elevato, i marinai continuarono a far girare il cetaceo strappandogli la cotenna che appena a bordo veniva tagliata a pezzi e ammucchiata grossa a poppa, dove erano già state apparecchiate sul fornello delle caldaie della capacità di quattrocento cinquanta litri, per la fusione.
Ben presto la coperta della nave baleniera offrì una scena selvaggia. Quelle nubi di fumo nere, puzzolenti, che s’alzavano dai fornelli alimentati dai frammenti di tessuto cellulare del cetaceo; quelle caldaie che bollivano spandendo all’intorno un odore ancora più nauseante; quelle masse grasse che venivano gettate da tutte le parti spandendo veri rivi d’olio; quel sangue che salendo dalla cotenna arrossava la tolda e le murate quei marinai scalzi imbrattati di sudiciume e armati di coltelli di ogni dimensione, quel carcame enorme che mostrava le carni rossastre e le costole gigantesche, e quelle migliaia e migliaia di uccelli che s’incrociavano in tutti i versi, mescendo le loro rauche grida ai comandi degli uomini, ai brontolii delle caldaie e ai tuffi dei mostruosi pescicani, formavano uno strano quadro.
Le tenebre però, in breve, posero fine allo smembramento del carcame. Il capitano Weimar, che aveva lavorato anche lui come l’ultimo dei suoi marinai, fece distribuire, dopo la cena, una larga razione di «gin» e, fatta assicurare la nave con due solide àncore, affinchè non venisse gettata verso la costa che non era molto lontana, ordinò il riposo.
All’indomani il lavoro fu ripreso per tempissimo e con maggiore alacrità. La cotenna fu interamente tirata a bordo, poi vennero strappati i denti che quantunque composti di un avorio non troppo bello hanno pure qualche valore, parte dei muscoli che danno una colla eccellente, i tendini, grande quantità di ossa dalle quali si ricava il nero animale e finalmente il canale ove nascondesi spesso l’«ambra grigia», materia preziosissima che tramanda un profumo delicatissimo molto ricercato dalle eleganti americane ed europee, tanto poco densa che galleggiava sull’acqua e che altro non è se non un escremento alterato, una parte d’alimento infine, incompiutamente digerito.
Koninson ne trovò sei pezzi, nel canale del capodolio, dei peso di cinque o seicento grammi ciascuno e di forma irregolare.
Alle 6 del pomeriggio più nulla vi era da trarre dalla carcassa.
Il capitano, che aveva molta fretta di raggiungere lo stretto di Behring per arrivare alle coste della Giorgia prima della comparsa dei ghiacci fece spiegare le vele, e alle 7, dopo due lunghe bordate, il «Danebrog» lasciava la baia di Norton colla prua nord-nord-est, portando con sè oltre novanta tonnellate di materie grasse una parte delle quali erano state già fuse, ottenendo un olio giallastro, d’un sapore di pesce rancido, della densità di 0,927 e che non doveva gelare che a 0°.
Fuori dalla baia il mare era un po’ agitato a causa di un forte vento di nord-ovest, freddo assai e che tendeva a crescere. Per di più, per il cielo correvano dei nuvoloni di una tinta biancastra, saturi di elettricità e che non presagivano nulla di buono.
– Temo che si scateni un uragano – disse il capitano abbordando il tenente che passeggiava, in coperta colle mani in tasca e la pipa in bocca.
– Danzeremo! – si accontentò di dire il flemmatico uomo.
– Ma molto forte, signor Hostrup. Ho notato che il barometro si abbassa rapidamente e che lo «storm-glass» si decompone assai. Vorrei già essere lontano dai pericolosi paraggi dello stretto.
– Bah! Il «Danebrog» è un eccellente veliero che se ne infischia degli uragani, capitano.
– Non dico di no. Spero che se la caverà bene anche questa volta.
– Verso le 10 di sera, la massa delle nubi diventò più densa e il mare cominciò ad alzarsi. Numerose procellarie correvano sopra le spumeggianti creste dei flutti, gettando rauche strida. Si sarebbe detto che quei funesti uccelli invocassero la tempesta che stava per scoppiare.
Il capitano, temendo che l’uragano si scatenasse da un momento all’altro, rimase in coperta fino ad ora tardissima, ma vedendo che il vento, quantunque soffiasse irregolarmente, non mutava direzione si ritirò nella sua cabina dopo aver fatto chiudere i pappafichi e i contra e terzarolare le vele basse.
La notte infatti passò abbastanza tranquillamente. Non vi furono raffiche violente nè cavalloni molto alti.
Il 31 però la massa delle nubi divenne più densa e più nera, abbassandosi tanto da credere che volesse tuffare i suoi lembi nel mare. Il vento crebbe di violenza girando da sud a sud-est, fischiando in mille guise attraverso gli attrezzi e sollevando gigantesche ondate che andavano coprendosi di bianchissima spuma.
Ben presto si udì in lontananza il tuono e alcuni lividi lampi illuminarono i neri vapori che allora correvano disordinatamente come cavalli sbrigliati.
Il capitano fece chiudere buona parte delle vele e salire in coperta tutto l’equipaggio. Il lupo di mare prevedeva un uragano violentissimo e voleva essere pronto a sostenerne gli attacchi.
Verso le 11 del mattino il mare diventò burrascosissimo e il vento ancora più impetuoso. Non erano onde, ma vere montagne d’acqua quelle che correvano urtandosi furiosamente. Non si udivano che i mille muggiti del vento, lo sbattere delle vele e dei cordami, il gemito degli alberi, le grida dei marinai e le strida delle procellarie.
Il «Danebrog», guidato dall’abile mano di mastro Widdeak, si comportava valorosamente, fendendo le onde col suo acuto e solido sperone, ma dopo qualche ora si trovò in una situazione così scabrosa che fece illividire il viso a più di un marinaio e aggrottare la fronte persino al flemmatico tenente.
Il vento aveva allora raggiunto la straordinaria velocità di 27 metri al minuto secondo, velocità che solo raggiunge nelle grandi tempeste, e alle quali ben poche navi resistono. Infatti il «Danebrog» si sentiva trascinare via con velocità incalcolabile, andando attraverso le onde che si rimescolavano orribilmente empiendo l’aria di mille muggiti, tuffando spesso il tribordo nell’acqua. Gran parte delle sue vele, in meno che non si dica, furono lacerate e strappate dai pennoni, compromettendo così molto seriamente la sua stabilità.
Il povero legno, che non obbediva quasi più al timone, traballava disordinatamente, ora salendo i cavalloni, ora precipitando negli avvallamenti dove minacciava di venire per sempre inghiottito: gemeva, perdeva ora un pezzo di murata, ora un attrezzo della coperta. C’erano certi momenti che tanta era la massa dell’acqua che si slanciava sopra i suoi bordi, da non sapere se galleggiasse ancora o fosse per andare a picco.
Il capitano Weimar, aggrappato alla ribolla del timone con a fianco mastro Widdeak, malgrado la gravità della situazione, conservava un ammirabile sangue freddo e comandava con voce tonante la manovra.
Il tenente aggrappato ad una catena di prua faceva eseguire gli ordini con voce tranquilla, come se si trovasse in una solida casa, anzichè su una nave che da un momento all’altro poteva sfasciarsi.
I marinai, scalzi, seminudi, senza berretti, inzuppati d’acqua, i volti lividi per il terrore, si tenevano stretti stretti alle murate o alle sartie, o ai bracci delle vele inferiori, cogli occhi fissi sui comandanti, pronti a eseguire le manovre. Di quando in quando qualcuno di loro, investito da un colpo di mare, veniva trascinato per la coperta o gettato contro gli alberi, riportando talvolta delle contusioni di qualche gravità. E uno fu persino sbattuto fuori dalla murata e si salvò solamente aggrappandosi prontamente ad una gru.
Alle 9 pomeridiane, cioè dopo tredici ore di ostinatissima lotta, il «Danebrog» che aveva sempre camminato con una celerità superiore ai dodici, e qualche volta ai tredici nodi, si trovava a breve distanza dallo stretto di Behring. Già la costa americana, al chiarore di un lampo era stata scorta a sette od otto miglia sopravvento.
Il capitano Weimar mandò due uomini sulla gran gabbia, affinchè fossero pronti a segnalare le isole Diomede che sorgono in mezzo allo stretto, e contro le quali poteva venire spinto il «Danebrog».
Alle 10 una raffica furiosa si rovesciò sulla nave, la quale, presa di traverso, fu violentemente rovesciata su di un fianco. Un immenso grido di spavento echeggiò sulla coperta mescendosi a urli della tempesta. Tutti i marinai credettero che non si risollevasse mai più.
Fortunatamente Koninson, che si trovava presso i bracci della vela di maestra con pochi colpi di scure tagliò le manovre. Ciò bastò perchè la nave riprendesse il suo equilibrio prima che le onde si precipitassero sulla tolda.
Quasi subito successe una breve calma. Le nubi, violentemente squarciate da quel furioso colpo di vento, mostrarono per alcuni istanti il sole, che in quelle latitudini elevate, nella stagione estiva, si può dire che non tramonta mai.
L’effetto prodotto da quella luce dorata sullo sconvolto mare fu stupendo, ma durò pochi istanti. Le nubi richiusero quello strappo, la semi-oscurità tornò a stendersi sui flutti e il vento ricominciò a ruggire con maggior forza, spingendo innanzi a sè la nave, alla quale non restavano più che la vela di trinchetto e la randa dell’albero di mezzana.
Ad un tratto si udirono i gabbieri gridare:
– Terra a prua!…
Il capitano affidò il timone a mastro Widdeak e si slanciò, nonostante i violenti rollii, a prua dove l’aveva già preceduto il tenente.
Ad una distanza di quattro miglia il mare si sollevava a prodigiosa altezza intorno al gruppo delle Diomede formato dall’isola Ratmanoff che è la più grande, dalla Krusenstern che è la mezzana e da Ferway che è un arido scoglio.
– Bisogna tenersi al largo assai, capitano! – disse il tenente
– Mi metterò io al timone! – rispose Weimar. – Fate preparare alcune vele di ricambio.
– Temete che scappino quelle spiegate?
– Se giunge una raffica forte quanto quella di prima non potranno resistere, ne son certo.
Il capitano ritornò a poppa e prese la ribolla del timone mentre il tenente faceva portare in coperta alcune vele.
Il «Danebrog» era giunto nello stretto, il quale è largo ben 83 chilometri fra il capo orientale dell’Asia e il capo di Galles dell’America e profondo assai.
Qui il mare era orribilmente agitato. Le onde, spinte dal vento, si schiacciavano, per così dire, fra due coste, quantunque, come si disse, queste siano assai distanti l’una dall’altra; e si frangevano furiosamente contro le isole lanciando sprazzi di spuma a tale altezza che questi toccavano le nere frange delle nubi.
A mezzanotte il «Danebrog» giungeva dinanzi all’isola Ratmanoff, sulla quale volteggiavano disordinatamente migliaia di uccelli marini.
D’improvviso, quando i marinai si credevano già quasi fuori di pericolo, una raffica furiosa investì la nave che tuffò più di mezza prua nel seno degli spumanti flutti. Gli alberi si curvarono come fossero semplici stecchi, poi si udirono due scoppi violenti seguiti da urla di terrore. Le due vele strappate dai pennoni volarono via come due immensi uccelli. Il capitano Weimar, malgrado il suo straordinario coraggio, impallidì.
– Una vela! Una vela o siamo perduti! – gridò.
Infatti il «Danebrog», senza un brano di tela, veniva spinto dalle onde e dal vento contro l’isola Ratmanoff che mostrava i suoi scogli a meno di quattro gomene di distanza.
Il tenente, Koninson, mastro Widdeak e una decina di marinai malgrado le disordinate scosse che li atterravano, tentarono di spiegare una trinchettina, ma le onde che si precipitavano in coperta e i soffi tremendi del vento, rendevano quell’operazione quasi impossibile.
Tre volte la vela fu innalzata fino al pennone e tre volte il vento l’abbattè e con essa gli uomini.
Allora un grande spavento si impadronì del l’equipaggio. Alcuni marinai perduta completamente la testa per il terrore, si misero a correre per la coperta sordi ai comandi e alle minacce dei capi. Altri, non meno spaventati, si gettarono sulle baleniere.
Il «Danebrog», semi-rovesciato su un fianco, coperto d’acqua ad ogni istante, andava sempre attraverso le onde malgrado gli sforzi disperati del capitano che non aveva abbandonato la ribolla.
Ad un tratto avvenne un urto formidabile sul tribordo, seguito da un crepitio sinistro. Il capitano, il tenente e i marinai furono violentemente rovesciati in coperta.
Quando si risollevarono il «Danebrog» non correva più. Si era arenato a una sola gomena dall’isola, in mezzo ad un gruppo di scoglietti le cui punte nere uscivano dalle onde.