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Kitabı oku: «I pescatori di balene», sayfa 4

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VII. LA BALENA

La mattina del 17 settembre, all’altezza del capo di Barrow, che è il più avanzato verso il nord della Giorgia occidentale, l’equipaggio del «Danebrog» scopriva le tracce del passaggio delle balena.

Erano larghe macchie di sostanze oleose che spiccavano vivamente sull’acqua verdastra del mare, e così copiose da far credere che colà fosse passato un numerosissimo branco di cetacei.

Il capitano Weimar, che già aveva cominciato a disperare, mise subito delle vedette sugli alberi e fece preparare le baleniere affinchè tutto fosse pronto al momento opportuno.

Koninson tornò a piantar domicilio nella rete del bompresso per non perdere di vista quelle macchie oleose che si dirigevano verso, l’est, seguendo le coste, della Giorgia. Ben presto fu segnalato un immenso banco di «boete», il cibo prediletto delle balene, ma qua e là rotto. Senza dubbio i cetacei avevano colà pescato – come diceva Koninson – facendo dei gran vuoti colle loro enormi bocche. Anche qui le sostanze grasse galleggiavano in gran nunero, spiccando ancor meglio sulla tinta brunastra dei banco.

Alle sette del pomeriggio, alla distanza di quattordici miglia dalla punta Tangente, si udì un gabbiere gridare dall’alto della crocetta di maestra:

– Una balena a babordo!

Il capitano Weimar e tutti i marinai, che da dodici ore erano in preda ad una viva agitazione, si precipitarono verso la murata di babordo aguzzando gli sguardi verso il punto indicato.

A due miglia dal «Danebrog», si scorgeva una specie di cilindro di dimensioni gigantesche e risplendente come se fosse di acciaio. Era perfettamente immobile, però ad una estremità si vedevano apparire, di quando in quando, due piccole colonne di vapore che si alzavano in forma di V.

– Sì, sì è una balena! – gridò il capitano.

– E di dimensioni non comuni – aggiunse il tenente che aveva puntato lentamente un cannocchiale. – La briccona pranza tranquillamente in mezzo di un banco di «boete».

– Ebbene, che mangi anche il mio rampone – gridò Koninson che aveva abbandonato precipitosamente la rete. – Mille milioni di fulmini! Era tempo che se ne incontrasse una! Olà! Ragazzi, sangue freddo e audacia, e io rispondo della vittoria!

– Il capitano diede ordine al timoniere di dirigere il «Danebrog» verso il gigante, mentre Koninson e i marinai calavano a fior d’acqua le due più solide e più svelte baleniere, mettendovi dentro tutti gli attrezzi necessari: remi, ramponi, lancie, lenze e le «droghe».

– A un chilometro di distanza il «Danebrog» si mise in panna. Avvicinarsi troppo ad una balena che si caccia non è prudente, perchè essa quando è ferita perde completamente la testa e si getta contro qualunque cosa. Il capitano Weimar ben si ricordava del brutto caso toccato alla nave «Essex» nel 1820, quando, investita da una balena resa pazza dal dolore cagionatole da una ferita, era andata a picco.

Subito il tenente Hostrup, Koninson e quattro marinai presero posto nella maggiore baleniera e mastro Widdeak, Harwey e altri quattro remiganti nell’altra.

– Badate che non ci sfugga – disse il capitano che era rimasto a bordo.

– Vi, giuro, signore, che non si ripeterà il caso del capodolio – disse Koninson. – Mi sento indosso un coraggio da non temere venti balene.

– Al largo, dunque!

Le due baleniere si staccarono dal «Danebrog» e si diressero, rapidamente, ma senza far rumore, verso il cetaceo. Quella del tenente precedeva di una gomena quella di mastro Widdeak.

Ben presto i cacciatori giunsero a sole trecento braccia dalla preda, la quale non aveva ancor dato il più piccolo segno di inquietudine.

Era una superba balena franca, lunga più di venti metri, del peso di ottanta o novanta tonnellate, con una testa voluminosissima, convessa superiormente e fornita di una bocca enorme, lunga più di tre metri e alta più di quattro. La pelle del gigante, nera, liscia, untuosa, sotto ai raggi del sole brillava così vivamente da offendere gli occhi di chi la guardava.

– Cosa fa? – chiese sottovoce il tenente a Koninson che la fissava con occhi fiammeggianti.

– Pascola in mezzo al banco di «boete». – rispose il fiociniere.

– Se si potesse sorprenderla..

– Lo dubito, tenente. Ecco che comincia a dar segni d’inquietudine.

La balena infatti, che fino allora aveva conservato una immobilità quasi perfetta, aveva alzato la sua potente coda terminante in una pinna orizzontale, triangolare e larga sei o sette metri. Con un colpo vigoroso lanciò a destra ed a sinistra due altissime onde, poi agitò le pinne pettorali che sono lunghe ben tre metri, causando nuove onde e si mise a filare fra il banco di «boete», cacciando fuori dagli sfiatatoi due colonne di vapore, il quale ricadeva sotto forma di goccioline che formavano sull’acqua macchie oleose.

– Attento, Koninson! – disse il tenente, facendo segno ai remiganti di raddoppiare la battuta.

– Spingete innanzi la baleniera senza tema, signore, – rispose il fiociniere che aveva afferrato il suo terribile rampone.

– Sono pronto!

– Ad un tratto la balena si tuffò lasciando dietro di sè un piccolo vortice. Il tenente guardò attentamente da qual parte aveva piegata la coda per indovinarne la direzione presa, poi comandò ai remiganti di avanzare lentamente e senza far rumore.

Passarono alcuni minuti che parvero lunghissimi, poi si udì un rumore simile ad un tuono lontanissimo e sulla tranquilla superficie del mare si scorse un largo tremolio.

– Attenti! – disse il tenente. – La balena sta per mostrarsi. Sei pronto, Koninson?

– Sempre! – rispose il fiociniere.

Il rumore si faceva sempre più distinto, poi a quattrocento passi dalla baleniera, verso prua, apparve un punto nero, l’estremità del muso del cetaceo, indi gli sfiatatoi, il dorso e finalmente la formidabile coda, la quale battè violentemente il mare.

– Il gigante è inquieto – disse il tenente. – Ci ha sentiti. Allungate la battuta, ragazzi.

Tornata a galla, la balena aveva lanciato in aria, a parecchi metri d’altezza due colonne di bianco vapore, poi si era un po’ immersa.

Per trenta o quaranta secondi scivolò mostrando solamente il dorso, e a intervalli la coda; indi rialzò la testa e gettò due altre colonne di vapore. Tornò a immergere la testa e per parecchi minuti ancora ripetè quella manovra gettando, di quando in quando, colonne di vapore che diventava però sempre meno denso, e agitando la coda innanzi e indietro.

– La briccona scandaglia – mormorò Hostrup,.

Le due baleniere avanzavano lentamente e con prudenza. I due fiocinieri in piedi, colla coscia cacciata nella scanalatura di prua, il rampone in aria un po’ pallidi, lanciavano sguardi di fuoco sulla preda.

Il cetaceo non fuggiva, ma dava sempre segni di inquietudine. Il suo respiro, che si ode a una non breve distanza, era più frequente, la sua coda si alzava e si abbassava con molta violenza; e spesso sollevava la testa fuori dell’acqua come se cercasse di vedere i nemici che la seguivano.

– Arranca a tutta lena! – gridò ad un tratto il tenente.

La baleniera partì rapida come una saetta. In brevi istanti si trovò a sole venti braccia dal cetaceo.

– Koninson! – gridò il tenente.

– Pronto, signore! rispose il fiociniere.

– Getta!…

Koninson alzò il rampone, lo fece oscillare innanzi e indietro e lo lanciò con tutta la forza del suo braccio, piantandolo profondamente nel fianco destro della balena in un punto ricco di tendini e di carne.

Parve che il cetaceo subito non si accorgesse di essere stato ferito, ma dopo alcuni secondi agitò furiosamente la coda lanciando contemporaneamente una nota così acuta da udirsi a parecchi chilometri di distanza.

– Attenti ragazzi! – gridò il tenente, mentre Koninson afferrava una lancia munita di una specie di palla taglientissima.

La baleniera si spinse innanzi a tutta velocità, ma il cetaceo si rovesciò bruscamente sul fianco ferito sforzandosi di strapparsi l’arma, che doveva farlo soffrire atrocemente; indi si tuffò con grande fracasso, dopo aver lanciato un’altra e più formidabile nota.

– Maledetto! – gridò Koninson – Se aspettava due secondi ancora, gli tagliavo i tendini e l’arteria della coda.

La lenza filava rapidissimamente, anzi tanto che si dovette bagnare il bordo della baleniera affinchè per il continuo strofinio non si accendesse. Ben presto fu quasi tutta finita; Koninson ne aggiunse un’altra.

– Per mille, boccaporti! – gridò il fiociniere. – Vuol scendere all’inferno?

– Pazienza, – Koninson – disse il tenente. Ricomparirà, te lo dico io.

Mezzo minuto dopo la lenza cessò di filare.

– Ehi, mastro Widdeak, sta bene attento! – gridò il tenente. – Il cetaceo apparirà vicino alla tua baleniera.

– Lo riceveremo, come si deve! – rispose il mastro.

– Eccolo! Eccolo! – gridarono ad un tratto alcuni marinai.

Sulla tranquilla superficie del mare, a una sola gomena dalla prua della baleniera di Widdeak, era stato scorto il tremolio.

Harwey, che era ansioso di lanciare la sua arma si alzò di colpo.

Poco dopo il gigante apparve. Aveva il rampone ancora piantato nel fianco e manifestava il suo dolore con sordi brontolii e con un continuo eruttare di densi vapori dai due sfiatatoi.

Mastro Widdeak diresse verso di lui la sua baleniera. Harwey alzò il rampone e lo lanciò con grande forza.

Il cetaceo, nuovamente ferito, emise una formidabile nota che durò otto o dieci secondi. Si sarebbe detto che quella nota era prodotta da una impetuosissima corrente d’aria spinta dentro un largo tubo di bronzo.

Subito dopo il mostro si mise a guizzare qua e là, ora avvicinandosi alle baleniere e ora allontanandosi come se avesse completamente perduto la testa. La sua possente coda e le sue grandi pinne pettorali battevano furiosamente l’acqua sollevando delle ondate. Sordi brontolii gli uscivano dalla gola e fischi acuti, dagli sfiatatoi i quali lanciavano senza posa bianchissime e molto dense nubi di vapore.

– Avanti! Avanti! – gridò Koninson.

Il tenente, punto curandosi dei colpi di mare e punto spaventato dai tremendi colpi di coda che il mostro avventava, fece avanzare la baleniera mentre mastro Widdeak girava al largo per non imbrogliare le due lenze.

I cacciatori con pochi colpi di remo si trovarono a breve distanza dal cetaceo.

Koninson che era diventato frenetico, appena lo vide alzare la coda gli lanciò il rampone dalla punta rotonda, colpendolo nelle ultime vertebre caudali. Dalla larga ferita uscì subito un grosso rivo di sangue, il quale arrossò per un largo tratto le acque.

– Urrah! Urrah! – urlò il fiociniere balena è nostra!

Infatti per il cetaceo era ormai finita. Colpito ai fianchi dai due ramponi e poi sotto la coda da quella larga palla tagliente che gli aveva recisi i tendini e l’arteria, non poteva più fuggire. Era questione di ore, forse di soli minuti, poichè le baleniere tornavano alla carica per gettare le lancie.

In meno di quindici secondi altre ferite gli furono aperte sui fianchi dai due fiocinieri, e tutte mortali.

Allora cominciò l’agonia, ma un’agonia terribile e pericolosissima, non solo per le baleniere, ma per il «Danebrog».

Il gigante diventato pazzo per il dolore e anche cieco si precipitava in tutte le direzioni con impeto irresistibile. Usciva più di mezzo dall’acqua, si tuffava, tornava a galla, si rovesciava sui fianchi, ora filava colla rapidità di una freccia, ora si arrestava mandando suoni rauchi, metallici o note potenti, ora descriveva delle curve o dei bruschi angoli.

Il «Danebrog» si era messo nuovamente alla vela per non venire investito e si teneva ad una grande distanza e le due baleniere avevano un gran da fare per non venire subissate dalle onde che il gigante sollevava, o sfasciate dalla coda.

Ad un tratto però la balena si arrestò. Dai suoi sfiatatoi uscirono con sinistro rumore due getti di sangue che arrossarono una grande zona di mare, poi un fremito agitò l’intera massa.

Mandò un’ultima e più acuta nota, indi sollevò la testa mostrando la sua immensa bocca, poi si rovesciò sul dorso e rimase immobile col ventre a fior d’acqua.

Era morta!

VIII. I PRIMI GHIACCI

Pochi minuti dopo il «Danebrog» che, come si disse, aveva già spiegato le vele, abbordava la balena che era tornata a galla e presso la quale si erano già ormeggiate te le due baleniere.

Il gigante galleggiava in mezzo ad un ampio cerchio di sangue uscitole dalle numerose ferite apertegli dai ramponi e dalle lancie e sul suo ventre avevano già preso posto gli uccelli marini sempre pronti ad accorrere dove sanno che c’è da rimpinzarsi. Ve n’erano delle migliaia giunti da tutte le parti dell’orizzonte e specialmente dalla costa americana che non distava più di sette miglia.

Lo smembramento cominciò subito. Il capitano, seguito da un forte drappello di marinai armati di pale taglienti, entrò nella bocca della balena, dopo averle strappato il labbro inferiore, onde estrarle la lingua che è lunga non meno di otto metri e per raccogliere i fanoni i quali sono in numero di settecento, della lunghezza di cinque metri, un po’ curvi, stretti gli uni agli altri per lo più neri ma talvolta anche variegati. Pendono dalla mascella superiore e sono riuniti da una sostanza glutinosa, attaccaticcia assai, la quale disseccandosi forma su di essi una specie di vernice lucida e liscia.

Terminate queste due importanti operazioni, i marinai posero mano alla dipanazione di quell’enorme massa che pesava non meno di novantamila chilogrammi e che era avvolta da un grossissimo strato di grasso.

Ben presto i fornelli ricominciarono a funzionare empiendo l’aria di un fumo nerissimo e fetente e la coperta del legno offerse il riluttante aspetto che abbiamo già descritto nello smenbramento del capodolio. Questa volta però fiocinieri e marinai lavoravano con maggior alacrità, essendo impazientissimi di rimettersi alla vela. Quegli uomini che da parecchi anni navigavano in quei freddi mari, quantunque la temperatura fosse, cosa insolita, ancora mite, presentivano l’avvicinarsi dell’inverno e d’un inverno rigidissimo

Già il sole non lanciava più, alla mezzanotte i suoi splendidi raggi su quei mari e su quelle terre. Da alcuni giorni, fra le 10 e le 11 della notte tramontava e per alcune ore si teneva celato sotto l’orizzonte. E già gli uccelli marini erano diventati meno numerosi e ad ogni istante grandi bande fuggivano verso il sud in cerca di un clima più mite. I ghiacci non erano ancora apparsi, ma i marinai se non li vedevano, li sentivano.

Il capitano aveva notato e presentito tutto ciò prima dell’equipaggio e perciò stimolava i lavoranti, non avendo tuttavia ritardato a spingersi più innanzi per completare il carico.

Prima che il sole tramontasse una terza parte del cetaceo era stata già dipanata e parecchie tonnellate d’olio erano state calate nella stiva.

Quella notte, per la prima volta, il freddo scese tre gradi sotto zero e l’acqua gettata sulla tolda poco prima dello spuntare del giorno, gelò.

Il 18 e il 19 settembre lo smembramento fu continuato con tanta alacrità che alle 10 pomeridiane l’ultimo pezzo di grasso veniva ritirato a bordo. Il capitano fece tosto spiegare le vele e il «Danebrog» abbandonò il gigantesco carcame agli uccelli marini, mettendo la prua ad est ove si scorgevano sempre, ed in grandissima quantità, le macchie oleose galleggiare sull’acqua.

La sera era magnifica. Il sole splendeva superbamente calando lentamente verso l’orizzonte, dove erravano alcune nuvolette dalla tinta di fuoco, e il mare era liscio come uno specchio, senza la più piccola ruga.

In lontananza, verso sud, giganteggiavano le dirupate coste americane coi loro abeti e i loro pini piantati sulle vette; verso nord una coppia di delfini gladiatori scherzava, mostrando ora le code e ora l’oscuro dorso; verso ovest una gran frotta di oche bernine filava in silenzio e rapidissimamente verso regioni più calde.

L’aria era mite e aveva una mollezza che rammentava una delle più belle notti d’autunno dei climi temperati, rinfrescata di quando in quando da un venticello che spirava da ovest.

Il «Danebrog», con tutte le sue vele spiegate, per alcune miglia filò verso est, poi piegò verso la costa americana ove si dirigevano le macchie oleose.

Nulla accadde durante la notte, ma poco dopo il sorgere del sole fu fatta una scoperta che turbò gli animi e fece aggrottare la fronte al capitano Weimar che era appena salito sulla tolda.

Era una montagna di ghiaccio, un «iceberg» che scendeva lentamente verso sud spinto dalle correnti e dal vento che da alcune ore soffiava da nord.

– Brutto incontro! – disse Koninson al tenente, che era salito sulla murata per meglio osservare l’«iceberg».

– Era ora! – rispose con voce tranquilla il signor Hostrup. – Non siamo più in estate.

– Non dico di no, tenente, ma se a questa montagna ne tenessero dietro altre cento o duecento, come avanzeremo noi?

– Il «Danebrog» ha un solido sperone e non teme i ghiacci.

– Ditemi, tenente, le montagne di ghiaccio si spingono molto verso sud?

– Molto, Koninson. Io ne vidi alcune a parecchie centinaia di miglia dalle isole Aleutine, in pieno oceano Pacifico, altre a sud del Banco di Terranova o sulle coste del grande Impero russo e perfino presso le sponde della Norvegia. Anzi mi ricordo che una nave in viaggio dalla Scozia a Brema fu schiacciata da un «iceberg» che era sceso nel mare del Nord.

– Tanto scendono!

– E scenderanno sempre più. Se tu vivrai un secolo ne vedrai alcuni anche sulle coste della Danimarca e fors’anche della Prussia.

– E perchè, signore?

– Perchè la linea dei ghiacci ogni anno guadagna spazio.

– Dunque il freddo cresce nelle regioni polari?

– Sì, Koninson. Alcuni mari, che alcuni secoli or sono erano navigabili, ora sono ingombri dai ghiacci e alcune terre, un tempo fertili, oggi sono ridotte a deserti di neve. Vuoi degli esempi?

– Gettateli fuori, signor Hostrup.

– Nel IX secolo, alcuni Scandinavi che avevano fondato delle colonie in Groenlandia e in Islanda, sbarcavano su una costa ove cresceva la vite, e perciò chiamarono quella terra Vinland. Sai come si chiama oggi quel paese?

– No, signor Hostrup.

– Si chiama Labrador.

– Come, nel IX secolo nel Labrador cresceva la vite!

– Si, fiociniere. E cosa è oggi il Labrador?

– Un deserto di neve ove la vite non crescerebbe nemmeno accanto alla stufa. Per Bacco, che discesa hanno fatto i ghiacci!

– Un altro esempio, Koninson. Quattrocento anni fa gli Islandesi trafficavano liberamente, in pieno inverno, coi Groenlandesi. Oggi d’inverno non si arrischiano più a navigare in quel tratto di mare per non venire stritolati dai ghiacci.

– È strano! – disse Koninson.

– Vuoi ora un terzo esempio? Quaranta o cinquant’anni fa, sulle coste dell’America settentrionale e sulle vicine isole, vivevano in grande numero i buoi muschiati, grossi e bellissimi ruminanti dal pelo lunghissimo e dalle grandi corna. Sai perchè oggi questi ruminanti sono scomparsi?

– Perchè, tenente?

– Perchè il freddo è sceso a distruggere le praterie e questa è cosa quasi recente. Io ho conosciuto un capitano il quale cinquant’anni fa cacciava le balene, durante l’inverno, nella baia di Melville. Chi è l’audace baleniere che oggi ardisce entrare d’inverno in quella baia?

– E nell’oceano antartico, la linea dei ghiacci si spinge pure sempre più innanzi?

– Più che nell’oceano artico, Koninson. Colà si trovano dei ghiacci sopra il 50° parallelo e talvolta anche sopra il 45°, specialmente nel tratto di mare compreso fra l’America del Sud e l’Australia.

– Che ciò dipenda dal raffreddarsi del nostro globo?

– Certamente. Ecco l’«iceberg»; guarda come è bello!

La montagna di ghiaccio era allora vicinissima al «Danebrog». Aveva la forma di una piramide, un’altezza di oltre cento metri e una base di trecento. I raggi del sole, riflettendosi sulle mille faccettine, la rendevano così sfolgorante che a guardarla gli occhi provavano un acuto dolore.

Sulla cima di quel colosso, che il vento del nord spingeva verso la costa americana, alcuni uccelli marini avevano piantato i loro nidi e mandavano acute strida.

Tutto l’equipaggio del «Danebrog», quantunque abituato a simili incontri, era salito in coperta a contemplare quel primo apportatore del freddo che, colpito in pieno dal sole, scintillava come fosse un enorme diamante.

– Bello! – disse Koninson.

– Ma pericoloso – aggiunse il tenente.

Ad un tratto dalla sommità di quella montagna caddero dei frammenti di ghiaccio che produssero sull’acqua un rumore analogo a quello delle goccie d’acqua. Subito gli uccelli se ne volarono via mandando strida di spavento.

– L’«iceberg» si rovescia!– gridò mastro Widdeak. – Attento all’onda, timoniere!

La montagna di ghiaccio, rosa alla base dall’acqua, stava per perdere il suo equilibrio. Fu veduta oscillare da destra a sinistra per alcuni istanti, poi tutto d’un colpo la sua vetta tracciò nell’aria una grande curva e l’intera massa piombò nel mare con un cupo rimbombo. Sparve tutta, poi una grande punta azzurra emerse fra un vortice di spuma, dapprima lentamente, indi con un balzo repentino e ricadde sollevando un’ondata che fece piegare sul babordo il «Danebrog», correndo poi ad infrangersi con indescrivibile violenza contro la costa americana.

Per alcuni minuti la montagna, che presentava una punta assai aguzza, ondeggiò spaventosamente, ora tuffandosi e ora risalendo, poi a poco a poco riprese l’equilibrio e si allontanò verso sud sempre scintillante, sempre superba, sempre gigantesca.

Quello stesso giorno di fronte alla baia Smith, altri due «icebergs», ma di dimensioni più piccole, furono incontrati dal «Danebrog» che navigava sempre in vista della costa americana, dietro le macchie oleose che apparivano ancora numerosissime.

Il 21 la temperatura discese bruscamente a 7° sotto zero e il vento crebbe di violenza diventando così freddo che i marinai furono costretti a indossare le vesti d’inverno.

Verso il mezzodì il «Danebrog» entrava fra due lunghissime file di «hummoks», piccoli ghiacci di pochi metri di altezza, staccati senza dubbio da qualche campo di ghiaccio o da qualche grande «iceberg».

Erano cinque o seicento, arrotondati gli uni, aguzzi gli altri, o scabri, o lisci, o screpolati, che si urtavano rumorosamente frangendosi e che ad ogni istante perdevano l’equilibrio prendendo nuove forme. Il sole, battendovi sopra, dava ad alcuni l’apparenza di zaffiri, ad altri di smeraldi, ametiste e diamanti di grande splendore.

II «Danebrog» non provò gran fatica ad aprirsi il passo col suo solido sperone di acciaio e spinto da un buon vento se li lasciò ben presto tutti a poppa. Ma tre miglia più innanzi nuovi ghiacci apparvero, più solidi, più grandi e più numerosi dei primi. Li capitanava un gigantesco «iceberg» ai cui piedi nuotavano alcuni narvali, grandi pesci armati da un dente lungo assai e molto aguzzo.

A rendere ancor più difficile la navigazione, scese dalla costa americana un nebbione fittissimo, il quale in pochi istanti coprì il mare celando agli occhi dei marinai i ghiacci.

– Hum! – mormorò il capitano che era diventato inquieto. – Se non procediamo cauti, corriamo pericolo di rompere una costola al «Danebrog».

Fece prendere terzaruoli su quasi tutte le vele per diminuire la velocità della nave, e mise alcuni uomini a prua con dei solidi buttafuori per respingere i ghiacci che potevano danneggiare il bompresso.

Alle 5 del pomeriggio il nebbione era diventato così fitto che il timoniere non distingueva più l’albero di trinchetto, e i gabbieri dalle coffe a gran fatica discernevano la coperta del bastimento.

Una viva inquietudine si impadronì dell’equipaggio. Ognuno temeva l’incontro improvviso di qualche «iceberg» che forse in quei momenti navigava a poche gomene e fors’anche a sole poche braccia.

Di quando in quando agli orecchi degli uomini di guardia giungevano dei forti cozzi, degli scricchiolii e dei colpi sordi come di ghiacci che, perduto l’equilibrio, capitombolano e delle forti ondate venivano ad infrangersi contro i fianchi del «Danebrog» il quale procedeva alla cieca.

Alle 10, dopo il tramonto del sole, a bordo non ci si vedeva più in là di cinque passi.

– La cosa diventa seria assai! – disse Koninson al tenente. – Non si sa più dove si va.

– Questo nebbione non durerà molto, fiociniere – rispose il signor Hostrup. – Appena il sole risorgerà lo dileguerà, io vedrai.

– Ma prima di domani mattina…

– Taci!…

– Che avete udito?

– Qualche gran ghiaccio naviga presso di noi, Koninson. Non odi questo gridìo?

Il fiociniere tese gli orecchi trattenendo il respiro. Attraverso la fitta cortina di vapori udì distintamente un acuto gridìo che lentamente si avvicinava, indi un sordo muggito, come il rompersi di una grande ondata contro una costa.

– Oh! Oh! – esclamò.

– Vedi nulla? – chiese il tenente.

– Nulla, signore, ma sento la presenza di un «iceberg». Gli uccelli marini non si riuniscono in gran numero che attorno ad una balena morta o a un grande ghiaccio.

– Attenzione, timoniere! – gridò il tenente. – E voi, ragazzi, pronti ai bracci delle manovre.

Il capitano, che stava a poppa accanto al timoniere, accorse a prua. Quasi nel medesimo istante a poche braccia dallo sperone apparve un debole chiarore.

– Un «iceberg»? – chiese Weimar.

– Sì, capitano! – rispose il tenente. – E se non m’inganno deve essere colossale.

– Barra a babordo tutta, mastro Widdeakl – gridò il capitano.

A prua si udirono alcuni cozzi violenti seguiti da forti crepitii, poi un’onda di considerevole altezza venne a spezzarsi contro lo sperone. Un centinaio di uccelli marini fendette il nebbione e calò sulla nave, credendola forse, fra quell’oscurità, il corpo di una balena.

– I buttafuori! I buttafuori! – gridò Weimar salendo sul bompresso per meglio vedere.

Dieci marinai muniti di solidi spuntoni accorsero per respingere l’assalto del formidabile nemico che li minacciava, ma d’improvviso furono rovesciati sulla coperta. Un urto violentissimo era avvenuto a prua e il «Danebrog» era stato respinto.

Un grido di spavento sfuggì da quasi tutti i petti. Un «iceberg» alto almeno cento metri era sorto dinanzi alla nave dondolandosi spaventosamente.

– Tutti a prua, perdio! – urlò il capitano che non aveva perduto il suo sangue freddo.

I marinai, risollevatisi prontamente, si slanciarono colà e spinsero fuori gli spuntoni, alcuni dei quali si spezzarono contro l’«iceberg» che continuava a oscillare formando alla sua base delle forti ondate.

Il «Danebrog», vigorosamente respinto, virò di bordo e scivolò lungo i fianchi del ghiaccione. Tre volte fu toccato e tre volte i suoi pennoni corsero rischio di spezzarsi e le sue murate di piegarsi, ma finalmente si allontanò dirigendosi verso sud-ovest. Pochi istanti dopo l’«iceberg» scompariva fra la nebbia.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
270 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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