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Kitabı oku: «I pescatori di balene», sayfa 7

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Un istante dopo il «Danebrog» virava di bordo mettendo la prua verso la direzione indicata. I marinai, quantunque avessero pur essi compreso che stavano per giuocare una carta pericolosa, che poteva anche costare loro la vita, si erano subito messi alacremente al lavoro, incoraggiati dai due fiocineri. Tutti ci tenevano assai alla scommessa, gelosi dell’onore dei balenieri danesi; per di più, in quel branco di balene, intravvedevano dei grossi guadagni.

Le baleniere furono in brevissimo tempo armate e sospese alle gru pronte ad essere calate in mare al comando del capitano. I remi, le fiocine, le lancie, le lenze, furono ben disposte nelle imbarcazioni.

In capo ad un’ora il «Danebrog» era lontano otto miglia dalla costa americana e solamente sette dalle balene che filavano superbamente verso nord fra una doppia fila di banchi di ghiaccio. Quale spettacolo offrivano quei giganti dell’oceano artico!

Erano nove, seguiti da due o tre balenottere e anche queste di dimensioni non comuni. Avanzavano lentamente, gettando in aria, dai loro sfiatatoi, colonne di bianco vapore che tosto si scioglievano. Il sole, battendo sulla loro pelle oleosa, li faceva sembrare immensi cilindri d’acciaio.

Ogni qual tratto uno di essi si tuffava formando alla superficie del mare un vero vortice e poco dopo riappariva a grande distanza sollevando colla possente coda grandi ondate, che facevano oscillare vivamente i ghiacci galleggianti.

I marinai del «Danebrog», entusiasmati a quella vista, non stavano più fermi, quantunque il comandante avesse raccomandato a tutti calma e silenzio. Salivano sulle griselle, sulle coffe e più su, fino alle crocette, per meglio vederli e mandavano grida di gioia.

Koninson, col suo terribile rampone in pugno correva da prua a poppa animando tutti, seguito da Harwey che era pure desideroso di venire a una lotta con quei mostri, malgrado il loro numero che poteva riuscire fatale all’equipaggio del «Danebrog». Persino mastro Widdeak aveva dimenticato l’altro pericolo che minacciava la nave baleniera e nei suoi occhi brillava un’ardente bramosia. Il solo tenente, calmo sempre, seguiva con sguardo perfettamente tranquillo lo sfilare di quel branco.

Già il «Danebrog», spinto da un freschissimo vento di sud-sud-ovest non distava che cinque o sei nodi dalle balene, quando queste ad un tratto, e tutte insieme, si tuffarono. Quando tornarono a galla diedero segni di una viva inquietudine.

Si volgevano spesso verso sud, battevano la coda precipitosamente, si drizzavano slanciandosi più che mezze fuori dell’acqua e gettavano con maggior frequenza colonne di vapore.

– Cosa succede laggiù? – si chiese il capitano aggrottando la fronte. – Che abbiano paura di noi?

– Non lo credo! – disse il tenente che gli stava appresso. – Scommetterei che sono state assalite.

– Assalite! E da chi?

– Voi sapete, capitano, che hanno numerosi nemici. Ah! Guardate là, verso est, quei corpi nerastri che si avanzano rapidamente.

– Sì, sì, li scorgo.

In quell’istante si udì Koninson, che si era arrampicato sulla coffa di trinchetto, gridare:

– Abbiamo una truppa di delfini gladiatori!

Quasi nello stesso tempo le balene si davano a precipitosa fuga verso nord. Avevano scorto i delfini, che sono loro acerrimi nemici.

Il capitano fece un gesto di rabbia.

– Dannazione! – gridò. – Chissà quanto dovremo filare!

– Ma guadagneremo qualche balena senza adoperare il rampone! – disse Koninson che aveva lasciato la coffa. – I delfini raggiungeranno senza dubbio le balene e qualcuna, nella lotta, ci lascerà la vita.

– Ma saremo costretti a salire ancora verso nord, e la stagione invernale si avanza a rapidi passi.

– Bah! Poi ci trarremo d’impaccio come potremo. Ah! Se potessi affrontare quel branco! Che colpi di rampone!

Le balene intanto, che temono assai i delfini gladiatori per la loro forza, per i loro aguzzi denti e per la loro ferocia, fuggivano sempre più rapidamente dirigendosi verso le rigidissime regioni del polo. Attorno ad esse il mare, percorso da quelle dodici code, pareva in burrasca. A destra e a sinistra correvano grandi ondate le quali facevano capovolgere con grande fracasso i numerosi ghiacci galleggianti.

Di tratto in tratto si tuffavano come se temessero di venire assalite per di sotto, indi riapparivano cacciando con grande furia nubi di vapore ed emettendo delle note acute che si udivano distintamente dall’equipaggio del «Danebrog».

Ben presto però, grazie alla loro prodigiosa andatura, scomparvero dietro ghiacci che coprivano l’orizzonte. I delfini gladiatori, che dovevano essere almeno due dozzine, le seguirono nuotando pur essi con grande velocità.

Il «Danebrog» però non si arrestò. Il capitano Weimar, e come lui quasi tutto l’equipaggio, avevano giurato di raggiungerle e, ancorchè i pericoli diventassero sempre più numerosi essendo il mare coperto ovunque di ghiacci d’ogni dimensione, ordinò al timoniere di seguire le grandi macchie oleose lasciate dalle balene.

Favorito dal vento, che tendeva sempre a crescere, il «Danebrog» navigò tutta la notte verso nord, notte per modo di dire, poichè il sole non rimaneva nascosto che poche ore, ed anche in quelle poche ore all’orizzonte rimaneva tanta luce da distinguere le traccie oleose.

Il mattino del 25 settembre, la nave si trovava già a un centinaio di miglia dalla costa americana, ma le balene, senza dubbio vigorosamente inseguite dai loro accaniti nemici, non erano state ancora scoperte.

La sera dello stesso giorno però, presso uno «stream», fu raccolto un delfino gladiatore colla testa sfracellata, probabilmente da un colpo di coda di qualche balena. Il mostro era lungo sette metri e gli uccelli marini gli avevano già lacerato la pelle del dorso.

Fu issato a bordo, fatto a pezzi e il grasso rinchiuso nelle botti.

Il 26 l’equipaggio del «Danebrog» notò che i ghiacci diventavano più numerosi e che il termometro scendeva abbastanza rapidamente, quantunque il sole brillasse sempre sull’orizzonte. La nave però continuò a spingersi verso nord. Ormai nessuno, eccettuato il tenente Hostrup che prevedeva il pericolo cui andavano incontro, voleva rinunciare alla caccia delle balene che doveva assicurare ai Danesi la vittoria.

Il 27, verso sera, a quattrocento miglia dalla costa americana, fu veduta verso nord una luce bianca, abbagliante. Era il «blink» che segnava la presenza di uno o forse di più banchi di ghiaccio. Ma le macchie oleose si dirigevano pure verso nord e quantunque anche nell’animo del capitano si fosse fatta strada una certa inquietudine, il «Danebrog» non cambiò rotta.

All’indomani, verso le 9 antimeridiane, il gran banco fu raggiunto. Presentava una fronte di dodici o tredici miglia, irta qua e là di punte aguzze, di bizzarre colonne, di strane cupole. Nel mezzo di esse si apriva un canale largo un trecento o più metri che si smarriva verso nord.

– È un banco solo o sono due divisi dal canale? – si domandò il capitano.

– Sono due senza dubbio – disse Koninson che l’aveva udito. – E le macchie oleose continuano nel canale.

– E cosa vuoi concludere, fiociniere?

– Che le balene si sono cacciate là dentro sperando di uscire dall’altro lato.

– Hai ragione, Koninson. Ehi, Widdeak, governa dritto al canale!

Il «Danebrog», che avanzava con una velocità di otto nodi all’ora a vento in poppa, dopo aver descritto una curva attorno ad un «iceberg» immenso, alla cui estremità si innalzava una specie di torre di dimensioni pure colossali, entrò nel canale frangendo col suo solido sperone una moltitudine di ghiacciuoli che altro non aspettavano se non un pò più di freddo per unire i due grandi banchi.

Le macchie oleose vi erano ancora e in grande numero e spiccavano vivamente su quelle acque che la candidezza dei ghiacci e il «blink» rendevano oscure assai. Numerosi uccelli marini, strolaghe, urie, gazze marine e oche, occupavano le due sponde intenti a pescare ed a spennacchiarsi.

Il «Danebrog» guidato dall’esperta mano del vecchio Widdeak si avanzò nel canale evitando i non piccoli «streams» e «hummoks» che, di quando in quando, sotto i tepidi raggi del sole, si staccavano dai campi di ghiaccio. I marinai, certi ormai di tenere le balene, si erano arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sui pennoni e sulle crocette, ansiosi tutti di scoprirle. Ma la giornata intera passò senza che apparissero.

Verso le 8 di sera, il fiociniere Harwey dalla crocetta del trinchetto, gridò:

– Capitano! Il canale è chiuso!

Weimar salì sull’alberatura seguito dal tenente e da Koninson. Appena volse gli sguardi verso nord, un’imprecazione uscì dalle sue labbra.

Quattro miglia più innanzi il canale era chiuso da un terzo campo di ghiaccio più grande, a quanto pareva, degli altri due. Delle balene nessuna traccia, eccettuate le macchie oleose che pareva si spingessero fino all’estremità di quel braccio di mare.

– Bisogna tornare indietro – disse il tenente.

– Ma le balene dove sono fuggite? – chiese il capitano con i denti stretti.

– Probabilmente sono uscite prima dell’arrivo del banco.

– Se pure non sono uscite nuotando sotto i banchi – aggiunse Koninson.

– Che fare ora? – chiese il capitano.

– Capitano, – disse il tenente – badate a me, lasciate andare le balene e ritorniamo subito.

– E la scommessa?

– Ci prenderemo la rivincita l’anno venturo.

Il capitano, sceso in coperta diede l’ordine di tornare indietro. Il «Danebrog» virò prontamente di bordo e si diresse verso sud correndo bordate, essendo il vento proprio diritto in prua.

Ma quando, dopo una lunga notte, giunse all’imboccatura del canale, questa era già stata chiusa. L’«iceberg», visto al mattino, spinto dal vento del sud si era incastrato solidamente fra i due banchi presentando alla nave baleniera la sua imponente torre!

XIII. ALLA DERIVA

Il «Danebrog», la valorosa nave del capitano Weimar, altro non aspettava che lo spezzamento di quei tre banchi per uscire dal canale, o il loro squagliamento, cosa questa assai difficile ad avverarsi in quell’alta latitudine e in una stagione così avanzata.

Tutta la polvere della Santa Barbara, tutte le braccia dell’equipaggio e lo sperone, per quanto solido, sarebbero stati impotenti ad aprirsi un varco. Dinanzi, l’«iceberg» colla sua torre e la sua alta vetta era inattaccabile; a destra, a sinistra e dietro i tre banchi, ormai solidamente uniti, colla loro immensa superficie, non lo erano meno. C’era il pericolo di dover svernare in quello stretto braccio di mare. E quali orrori allora! Lo stesso tenente Hostrup, che di nulla si sorprendeva e di nulla si spaventava, provò un fremito al solo pensarlo.

Sulla coperta della nave baleniera, dopo le prime imprecazioni, regnò un funebre silenzio. Tutti i marinai, quantunque già abituati ai terribili freddi del polo e quantunque parecchi di essi fossero usciti salvi da più di uno svernamento, erano atterriti.

Il capitano, dopo aver dato il comando di virare di bordo onde non infrangere la nave contro quelle solide pareti di ghiaccio, si era portato sul castello di prua e di là, colle braccia incrociate, lo sguardo torvo, silenzioso, scoraggiato e irritato ad un tempo, si era messo a contemplare l’«iceberg» che gli chiudeva l’uscita. Forse cercava un modo qualsiasi per uscire da quella prigione che poteva anche cambiarsi per lui e per il suo equipaggio in una tomba.

La voce del tenente Hostrup, tranquilla anche in quel terribile frangente, lo strappò alle sue meditazioni.

– Signore, che intendete fare?

– Non lo so ancora, tenente! – rispose il capitano. – Ah! Perchè non ho seguito i vostri consigli? E il cuore me lo diceva che la fortuna avrebbe finito col volgersi contro di noi. Ci aveva protetti troppo in questa campagna, che per ogni altro sarebbe stata fatale.

– Lasciamo i rimpianti, capitano. Cerchiamo invece se è possibile uscire di qui.

– Ma in qual modo?

– Forse possiamo aprirci un passo attraverso l’«iceberg».

– Tutta la nostra polvere non basterebbe.

– Forse non presenta una grande solidità. Le mine prima e lo sperone dopo potrebbero riuscire a qualche cosa.

– Andremo a visitare quella dannata montagna. Ma se non si riuscisse a nulla?

– Aspetteremo.

– Cosa mai? Non dimenticate, tenente, che siamo al 28 di settembre e che in questa epoca il sole non ha più tanta forza da sciogliere un campo di ghiaccio.

– Sullo scioglimento non calcolo, capitano.

– E allora?

– Calcolo invece sull’incontro di qualche «icefield». Nell’urto che accadrebbe, i campi di ghiaccio potrebbero fendersi e permetterci l’uscita.

– Debole speranza, signor Hostrup.

– Lo so, ma non ne abbiamo un’altra migliore. Fate ancorare la nave, signore, e andiamo a visitare l’«iceberg».

Mastro Widdeak, ad un ordine del capitano, diresse il «Danebrog» verso una specie di «fiord» che formava il banco di sinistra e lo fece ormeggiare con doppie gomene ad un solido «hummock». Ciò fatto, Weimar, Hostrup, Koninson e sei marinai si imbarcarono in una baleniera e si portarono sotto l’«iceberg», in un punto ove l’approdo non era difficile.

La montagna di ghiaccio fu minutamente visitata. Misurava novanta e più metri di larghezza e milleduecento di lunghezza con una vetta di almeno quattrocento. Da una parte combaciava perfettamente con un banco, ma dall’altra lasciava un canaletto, così piccolo però da non permettere nemmeno il passaggio ad un canotto.

– È inattaccabile! – disse il capitano. – Occorrerebbero cinque tonnellate di polvere e cento uomini per aprire un passo capace di permettere l’uscita al «Danebrog».

– Lo riconosco – rispose il tenente.

– E se si tentasse di tagliare l’uno o l’altro dei banchi? – disse Koninson.

– I grandi freddi ci sorprenderebbero prima di aver scavato un canale di cinquecento braccia – rispose Weimar.

– Allora non c’è più speranza di riguadagnare lo stretto di Behring.

– Lo temo, Koninson.

– Dannate balene! Mi vengono i brividi al pensare che forse dovremo qui svernare.

– Torniamo a bordo; non abbiamo più nulla da fare qui – disse il capitano.

– Cammina il banco?

– Sì, verso sud-sud-ovest. La corrente polare lo porta.

– Ma allora finiremo nello stretto di Behring.

– Sì, se non verremo arrestati da altri banchi o da qualche isola della costa americana. A bordo, amici, e fidiamo in Dio.

La baleniera in pochi colpi di remo li ricondusse al «Danebrog», dove li attendevano con viva ansietà i marinai. Il capitano in poche parole li informò del vero stato delle cose, lasciando però intravvedere delle speranze che forse più non esistevano, poi diede ordine di ammainare le vele che per il momento diventavano inutili e di assicurare vieppiù la nave, ma in modo da tenerla in mezzo al «fiord».

Quelle diverse manovre erano state appena eseguite, che il sole scomparve dietro una massa di vapori di un color plumbeo. Era un nebbione che avanzava stendendosi al disopra dei grandi banchi, ma così fitto da oscurare perfino il «blink».

– L’inverno procede a grandi passi – disse il tenente a Koninson. – Temo che per il «Danebrog» sia proprio finita.

– Anch’io ho questo timore, signor Hostrup – disse il fiociniere. – Fra pochi giorni avremo intorno a noi tanti ghiacci da sfidare lo sperone di cento fregate. Tò! Ecco quegli uccelli che volano verso sud. Fortunati volatili!

Verso le 10 il nebbione che avanzava rapidissimamente, spinto innanzi dal vento che aveva cambiato già direzione, era giunto sopra i grandi banchi avvolgendo il «Danebrog» in un velo umidissimo e freddissimo. Quasi subito il termometro scese a 4° sotto zero.

L’equipaggio, dopo aver acceso per ogni precauzione i fanali e collocato due sentinelle armate di fucile, onde impedire che qualche orso bianco si avvicinasse alla nave, cosa del resto non difficile stante la vicinanza dei banchi, si ritirò sotto coperta.

Durante la notte nulla accadde di straordinario. Il «wacke» – tale è il nome che i balenieri danno ai banchi contenenti un bacino d’acqua – navigò lentamente verso sud-sud-ovest, spinto dal vento e dalla corrente polare, aggregando alla già sua enorme mole i ghiacci che incontrava sul suo cammino.

L’indomani, 29, il sole non si fece vedere, nascosto come era dal nebbione sorto alla sera, e il termometro scese di due altri gradi sotto lo zero. I ghiacciuoli, che ingombravano il canale, in parecchi luoghi si unirono formando dei sottili lastroni di ghiaccio. Quel principio di congelamento impressionò non poco l’equipaggio del «Danebrog». Parecchi marinai cominciarono a perdere ogni speranza di poter riguadagnare il porto da cui erano partiti.

Il capitano e il tenente, durante la giornata, fecero una visita all’«iceberg» e notarono con dolore che si era cementato ancor più solidamente ai banchi e che il canaletto era interamente gelato.

Il 30 fu una giornata orribile. Una nevicata abbondantissima cadde dal cielo coprendo i banchi di un lenzuolo alto parecchi palmi e la coperta del «Danebrog». Il termometro scese di un altro grado.

Il capitano fece accendere le stufe e, per non tenere i suoi uomini in ozio, che in quelle fredde regioni influisce assai sul morale, ordinò di procedere alla depurazione dell’olio di balena.

Per questa operazione si adoperano sacchi di flanella ripieni nel frammezzo di carbone in polvere distribuito su uno strato grosso un mezzo pollice e trattenuto da trapunti, onde impedire che si raccolga tutto nel fondo.

Entro questi sacchi si versa l’olio, dopo averlo liquefatto, se il freddo l’ha già fatto gelare, e si lascia filtrare entro un vaso contenente una certa quantità d’acqua mescolata con solfato di rame. Quando il vaso è quasi pieno, si lascia riposare l’olio tre o quattro giorni, indi si estrae col mezzo di una chiavetta posta alcune linee sopra il livello dell’acqua.

Se si vuol avere un prodotto purissimo, che non sappia di pesce rancido, basta ripetere l’operazione due o tre volte.

L’equipaggio, impedito di uscire per la neve che cadeva senza posa e per il gran freddo che regnava in coperta, accettò di buon grado quel passatempo.

Verso sera la burrasca di neve si calmò e apparve attraverso le bigie nubi un raggio di sole di una bellezza incomparabile, il quale tinse di rosso l’immensa distesa di ghiacci accavallati attorno alla nave.

Il tenente e Koninson ne approfittarono per scendere sul banco e abbatterono una mezza dozzina di oche e alcune procellarie. Videro anche, a non molta distanza dalla nave, una foca, ma questa appena scorse gli uomini si cacciò nel buco che aveva scavato nel ghiaccio per venire a respirare.

– Se non è oggi, ti prenderemo domani! – disse il fiociniere.

– Non sarà però cosa facile, Koninson. Ora che ci ha scoperti diventerà prudente assai.

– Ci nasconderemo dietro qualche «hummock» e appena uscirà dal buco le manderemo una palla nella testa. Che ci siano anche degli orsi bianchi su questo «wacke»?

– Non è improbabile. Sovente, spinti dalla fame, questi feroci carnivori si imbarcano sugli «icebergs» colla speranza di sbarcare in una contrada ben fornita di selvaggina. Non sarei sorpreso se domani ne vedessi giungere qualcuno.

– Niente di meglio, signor Hostrup. La carne degli orsi è eccellente.

– Non dico di no, ma quelle bestiacce non temono di assalire una nave.

– Bah! Siamo in molti noi, e fucili ne abbiamo in quantità. Ventre di balena! Guardate laggiù, signor Hostrup! Guardate, guardate!

– Vedi un orso forse?

– Le nostre balene vedo, ventre di foca!

Il fiociniere non si era ingannato. Dall’altra parte del banco, undici balene, comprese tre balenottere, nuotavano verso sud aprendosi a gran colpi di coda il passo fra i ghiacci.

– Si direbbe che vengono a deriderci – disse il tenente.

– Eh! Vorrei essere fuori di qui col mio rampone, per insegnar loro a ridere! – esclamò il fiociniere che seguiva cogli occhi fiammeggianti quei superbi giganti. – E invece siamo qui, chiusi dappertutto, e anche colla brutta probabilità di restarvi un bel pezzo.

– Puoi dire colla certezza, Koninson.

– Non avete alcuna speranza voi, tenente?

– Nessuna, fiociniere.

– E lo dite così tranquillamente! Si direbbe che uno svernamento non vi spaventa.

Il tenente alzò le spalle.

– Bisogna prendere e le cose come vengono, mio caro – disse. – Torniamo a bordo, che comincia a soffiare un vento indiavolato e rigidissimo. Prevedo per domani una burrasca.

– Bisognerebbe che fosse così formidabile da spezzare questo dannato «wacke».

– Sarà tremenda, te lo assicuro. Guarda che brutte nubi si accavallano in cielo.

– E spezzerà il banco?

– È probabile, Koninson.

Quando tornarono a bordo, il vento aveva cominciato già a soffiare con furia estrema, spazzando la neve che copriva il banco e sollevando a grande altezza l’acqua dell’oceano. Pareva che portasse con sè una legione di demoni; ora fischiava attraverso gli alberi e le corde della nave, ora ruggiva tremendamente sulle vette degli «icebergs», ora muggiva ancor più forte delle onde che già s’infrangevano con grande impeto contro i ghiacci, abbattendoli e frantumandoli contro il «wacke».

Il capitano, temendo che la nave non resistesse a quei poderosi soffi, la fece maggiormente assicurare con altre e più grosse gomene, e ordinò che si raddoppiassero gli uomini di guardia.

La notte fu spaventevole. I ghiacci dell’oceano, cacciati dalle regioni settentrionali, venivano a cozzare contro il banco a centinaia, con un fracasso indicibile, accavallandosi gli uni sugli altri, spezzandosi, frantumandosi.

Ondate mostruose, spinte dal vento, si sfasciavano incessantemente contro il banco e, cacciandosi sotto di esso, malgrado il suo enorme peso e la sua grande estensione, lo facevano traballare e scricchiolare. Dei larghi crepacci si aprivano di quando in quando, ma tosto si riunivano come se avessero paura che la nave fuggisse per di là.

Anche nel canale l’acqua era agitatissima e molti ghiacci, strappati alle rive o rovesciati dal ventaccio, galleggiavano correndo disordinatamente ora qua ora là.

Il «Danebrog», quantunque solidamente assicurato, tre volte si spostò minacciando di urtare contro le rive del piccolo «fiord». I marinai, malgrado la profonda oscurità, furono costretti a gettare nuove funi e a portare sul banco due ancore che furono cacciate entro profonde fessure.

Alle 2 del mattino, quando maggiore era la furia dell’uragano, il banco, come se fosse stato mosso dal terremoto, ondeggiò fortemente da sud a nord e una grande apertura si manifestò in quella direzione con uno scroscio così forte da poter essere udito a dieci chilometri di distanza.

L’«iceberg» che chiudeva il canale fu visto un istante dopo staccarsi e oscillare. Un urlo di gioia si alzò fra l’equipaggio del «Danebrog», salito tutto in coperta.

Credette di essere finalmente libero!

Disgraziatamente quella gioia fu di breve durata. Il colosso, dopo essersi allontanato di poche decine di braccia, spinto dalle onde tornò a urtare contro il banco, incastrandosi ancor più fortemente di prima dentro il canale.

Anche la grande fenditura manifestatasi attraverso il «wacke» si chiuse in seguito alla straordinaria pressione esercitata dai ghiacci che scendevano a migliaia dal settentrione.

– Tutto è finito per noi! – disse il capitano al tenente. – Bisognerà svernare.

– Forse – rispose Hostrup, che da qualche istante guardava con un cannocchiale verso sud.

– Su che sperate?

– Ho scorto or ora laggiù una vetta oscura che s’innalza in mezzo ad un banco di ghiaccio.

– Ebbene?

– Il vento ci spinge verso quella terra, capitano.

– Ma siete certo che sia una terra?

– Non m’inganno.

– Ma è impossibile che siamo già giunti presso la costa americana.

– Sono già due giorni che il vento ci spinge verso il sud, aiutando la corrente. Può essere anche, invece della costa americana, un’isola.

– E cosa sperate nell’incontro di quella terra?

– L’uragano ci porta con una velocità non indifferente.

– Ah! Voi sperate in un urto.

– Sì, capitano.

– Infatti il banco potrebbe infrangersi. E non correrà pericolo il «Danebrog»?

– Il canale è largo.

– Lo so, ma i ghiacci potrebbero accumularvisi dentro e stritolarci.

– Se ci mettessimo alla vela?

– Avete ragione. Ehi, mastro Widdeack! Fa spiegare le vele e sciogliere gli ormeggi.

C’era il tempo necessario, essendo la terra scoperta dal tenente assai lontana. I marinai, che avevano compreso di che si trattava e su quale speranza calcolava il capitano, in un batter d’occhio portarono in coperta le vele, le infierirono ai pennoni e le spiegarono, mentre mastro Widdeack, assieme a Koninson e ad Harwey, scesi sul banco, liberavano le ancore e scioglievano le gomene.

Mezz’ora dopo il comando dato, il «Danebrog» usciva dal «fiord» infrangendo i ghiacciuoli che lo ingombravano e si portava in mezzo al canale, allontanandosi dall’«iceberg» che doveva essere il primo a sostenere l’urto. La terra segnalata non distava allora che un miglio. Era una roccia di mille metri di estensione e alta un trecento o quattrocento. Tutto intorno si estendevano grossi banchi di ghiaccio e grande numero di ghiacci galleggianti.

Il «wacke», che filava con una velocità di tre o quattro nodi all’ora, in brevi istanti fu addosso all’isolotto. Si udì uno scroscio cento volte più forte di quello avvenuto poche ore prima, seguito, poco dopo, da un tonfo sordo causato dalla caduta di alcune montagne di ghiaccio.

Il «wacke», fracassati i ghiacci che circondavano dal lato nord l’isolotto, andò a cozzare contro lo scoglio con tale impeto da ritornare indietro. Due larghe fessure si aprirono, le rive del canale si restrinsero e in parte diroccarono, le piramidi, le arcate, le colonne crollarono, ma il «Danebrog» rimase prigioniero. L’«iceberg», quantunque avesse sopportato quasi tutto il cozzo, non aveva ceduto. Solo la sua torre aveva oscillato e si era screpolata, ma senza cadere.

Sul ponte del «Danebrog» si alzò un urlo di rabbia. Questa volta per i balenieri era proprio finita. Più non restava che svernare.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
270 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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