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Kitabı oku: «I pescatori di balene», sayfa 6

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XI. ATTRAVERSO LE NEVI

I due poveri nuotatori, esausti, ansimanti, intirizziti dalla lunga immersione in quelle acque eccessivamente fredde e pesti dai continui assalti delle onde, rimasero parecchi minuti dove li aveva deposti l’oceano, rannicchiati nelle loro vesti che gocciolavano da tutte le parti, e senz’essere capaci di scambiare una parola. A tutti e due non pareva vero di essere giunti colà e di essere ancora vivi, dopo tante vicende passate in così breve tempo.

Il tenente finalmente, che doveva essere proprio di ferro, con un poderoso sforzo si alzò.

– Konin…son! – balbettò, additandogli la costa che in quel luogo scendeva dolcemente. – Vi…eni, se non… vuoi… morire… qui…

– An…co…ra un mo…mento, te…nente – balbettò il fiociniere, le cui mascelle, nel pronunciare quelle poche parole, scricchiolavano come se le articolazioni fossero state inchiodate.

– No… no… vie…ni…, po…vero… ragazzo… vie…ni – ripetè il tenente.

– Non… lo… posso.... non…,

Il tenente comprese che il compagno era assolutamente nell’impossibilità di muoversi. Allora gli si avvicinò, gli strappò di dosso le vesti e, messolo quasi a nudo, si mise a strofinargli energicamente le braccia, le gambe, il corpo e il viso colla neve.

– Aiut…ami, Ko…ninson – mormorò.

Il fiociniere lo secondò per quanto gli permettevano le sue forze esauste. Quelle doppie frizioni riattivarono ben presto la circolazione del sangue che pareva fosse lì lì per arrestarsi e per sempre. Allora il tenente pensò a sè e spogliatosi, malgrado il vento freddissimo, ripetè su se stesso l’operazione aiutato da Koninson, che si sentiva rinvigorito e discretamente caldo.

– Ora, – disse il bravo comandante, dopo aver fatto sette od otto salti come se volesse provare l’elasticità delle sue membra – affrettiamoci a guadagnare la costa.

– E dove andremo? – chiese Koninson, infilando le vesti ancora bagnate.

– In cerca di un rifugio e di un pò di fuoco.

– Ma sperate di trovare qualche capanna?

– Capanne no, ma qualche caverna sì; la costa americana ne ha moltissime. Animo, Koninson!

Attraversarono il banco di ghiaccio che scricchiolava sinistramente sotto i loro piedi e salirono la sponda che era assai elevata e coperta da più di mezzo metro di neve. Giunti sulla cima, girarono attorno Io sguardo.

Dinanzi a loro si estendeva una specie di altipiano, interrotto qua e là da profonde fessure, da roccie e da alcuni pini neri e chiuso verso sud da una doppia catena di colline dirupate e nevose. Non c’era alcuna capanna e, quel che è peggio, nessuna selvaggina in vista. A destra e a sinistra di quell’altipiano si alzavano pure delle alture, anche queste dirupatissime e coperte di un fitto strato di neve. Sulle loro cime si rizzava qualche pioppo la cui sommità s’incurvava bizzarramente formando un grand’arco.

– È un deserto di neve questo – disse Koninson.

Il tenente non rispose. Si volse e guardò l’oceano che appariva quasi sgombro dal nebbione. Fin dove giungeva lo sguardo altro non si vedeva che grandi ondate spumeggianti, che il vento sbatteva in tutte le direzioni, e massi di ghiaccio di tutte le forme e dimensioni che cozzavano violentemente fra loro mandando in aria nembi di ghiacciuoli.

Del «Danebrog» nessuna traccia.

– Dove sarà? – mormorò il tenente che era diventato pensieroso.

– Chi?– domandò Koninson.

– Il «Danebrog».

– Che sia andato a picco?

– O che si sia rifugiato in qualche seno della costa per riparare le avarie causategli dall’urto?

– Allora lo ritroveremo.

– Lo spero, poichè il capitano Weimar non è un uomo da abbandonare questi paraggi, sapendo che due dei suoi uomini sono qui.

– Ma può crederci morti, tenente.

– Non lo credo, Koninson. La costa era vicina e il capitano sa che noi siamo forti nuotatori.

– E cosa faremo intanto?

– Raggiungeremo quelle alture e là aspetteremo che la tempesta sia cessata.

– E poi?

– Poi seguiremo la costa verso est. In cammino, Koninson.

Si posero in marcia con passo rapido per non gelare vivi, poichè il freddo era veramente feroce, accresciuto anche dal vento il quale sollevava attorno ai due poveri marinai delle vere nubi di minutissimi ghiacciuoli e di nevischio. La via era aspra, ineguale e spesso intersecata da profondi crepacci pieni di neve, entro i quali molto spesso Koninson e il tenente cadevano, penando poi assai nell’uscirne. Tuttavia camminarono così bene, che dopo mezz’ora giunsero ai piedi di una collina assai dirupata e sulla cui cima ondeggiavano fortemente alcuni pini. La girarono e guadagnarono un luogo ove la collina scendeva dolcemente verso il mare.

Quasi subito gli occhi del tenente scorsero una nera apertura presso la quale giungevano talora gli sprazzi delle onde.

– Là dentro staremo bene! – disse a Koninson. – Potremo riposarci, scaldarci, e nel medesimo tempo guardare l’oceano.

– Avanti allora, signor Hostrup. Io non ne posso più!

Si avvicinarono all’apertura che era larga assai, ma poco alta e per di più in parte ostruita da certe colonne di ghiaccio, scese forse dalla volta, ed entrarono. Ad un tratto Koninson, che camminava innanzi al tenente, si arrestò bruscamente facendo un gesto di sorpresa e di terrore.

– Che hai? – chiese Hostrup.

– C’è qualcuno dentro – rispose il fiociniere.

– È impossibile! Non vedo che tenebre.

– Ho udito un ruggito, signore.

– Un ruggito!… Oh!… Oh!… Che ci sia un orso?

– Lo temo.

– Io ho un coltello alla cintura.

– E anch’io, ma poco varranno tali armi contro una bestia così grossa e così feroce. Zitto!…

In fondo alla caverna si udì un profondo ruggito, poi si videro brillare due occhi grandi, rotondi, dai riflessi verdastri.

– Non è un orso – disse il tenente, che aveva subito impugnato il coltello. – O m’inganno di molto, o abbiamo da fare con una foca o con un tricheco.

– Una foca qui dentro?

– E perchè no? Non siamo forse a due passi dal mare? Sarà venuta qui a riposare o a mettersi al riparo dalla tempesta. Va a prendere un ramo di pino.

Koninson si affrettò a obbedire e poco dopo ritornò con una bracciata di rami resinosi. Il tenente estrasse da una scatoletta di metallo ermeticamente chiusa l’acciarino e un pezzo d’esca e accese una di quelle torcie.

– Avanti! – disse poi. – E i coltelli in pugno!

Entrarono nella caverna che pareva assai profonda, e fatti dieci o dodici passi, si trovarono dinanzi ad una foca gigantesca, la quale si era appoggiata ad una parete mostrando i denti ed emettendo rauchi ruggiti.

– Addosso, Koninson! – gridò il tenente.– Abbiamo la cena!

Il fiociniere balzò addosso alla foca; con un formidabile pugno applicatele sul naso la stordì, poi con un rapido colpo di coltello la scannò. La morte fu quasi istantanea.

Il tenente si avvicinò col ramo acceso e la osservò con curiosità.

Era una otaria, anfibio appartenente alla famiglia delle foche, dalle quali si distingue per avere un poco d’orecchio esterno.

– Quest’animale ci voleva – disse Koninson. – Ho una fame proprio feroce.

– Metteremo ad arrostire il fegato, che passa per un boccone delicatissimo— disse il tenente. – Ma affrettati ad accendere il fuoco, Koninson, poichè stiamo per gelare. Tò! Cosa c’è laggiù? Una provvista di legna!

Riprese il ramo di pino che aveva piantato accanto la foca e si recò in fondo alla caverna. Con sua grande sorpresa trovò una considerevole provvista di legna, un alto strato di licheni e due lance colla punta di ossidiana.

– Ma questa caverna ha servito di ricovero a qualche indigeno – diss’egli.

– Forse a qualche cacciatore! – aggiunse Koninson. – Ah! Il bel fuoco che accenderemo!

Con due pezzi di roccia improvvisò un camino e vi gettò sopra un ammasso di legna. Il ramo, che continuava ad ardere, fu messo sotto e pochi istanti dopo una superba fiamma illuminava l’antro, spandendo all’intorno un dolce calore.

Il tenente e Koninson si spogliarono rapidamente delle vesti che cominciavano a indurirsi, le stesero dinanzi alla fiamma e, impugnati i coltelli, sventrarono destramente l’otaria strappandole il fegato che fu tosto infilzato in una lancia e avvicinato ai tizzoni.

– Che colazione! – esclamò Koninson, tornato di buon umore.– Ventre di balena! Il mio naso non ha mai sentito un profumo più appetitoso di questo. Non mancherebbe che una bottiglia di «gin» o di «wisky».

– Ne faremo senza! – rispose il tenente, che si era accoccolato accanto alla fiamma e che si stropicciava energicamente le membra per riattivare completamente la circolazione del sangue.

– Ditemi, signor Hostrup, – ripigliò il fiociniere. – è buona la carne delle otarie? Confesso di non averne mai mangiato.

– Per gli Eschimesi, che vanno pazzi per l’olio e pel grasso, sì, ma per noi bianchi è detestabile.

– Ma avendo fame la si può inghiottire.

– Anche i tuoi stivali, non avendo altro da porre sotto i denti, si possono rosicchiare. Ma come mai questa otaria si trova qui sola?…

– Vi sorprende forse?

– Sì, Koninson, poichè ordinariamente vanno a branchi numerosissimi, specialmente in questa stagione. Su certi punti della costa americana, se ne vedono anche oggidì delle migliaia, malgrado la caccia spietata che loro fanno i balenieri e gli indigeni.

– È vero, tenente, che queste otarie non appariscono sulle coste americane che il primo di maggio?

– Sì, Koninson, e posso aggiungere anche che tutti gli anni giungono anche alla stessa ora..

– E quanto vi rimangono?

– Fino alla metà di dicembre. Oltre quest’epoca non si trova un’otaria a volerla pagare a peso d’oro. È un magnifico spettacolo, Koninson, che merita di essere veduto, l’approdo di questi anfibi.

– Ma cosa vengono a fare sulle coste?

– Vengono ad attendere le femmine, le quali giungono infallibilmente tutti gli anni il 15 di giugno.

– Avete mai veduto uno di questi arrivi?

– Sì, Koninson, e parecchie volte.. Sei anni or sono io mi trovavo nella baia Smith quando fu segnalato l’arrivo di parecchie migliaia di otarie. Erano tutti maschi. In men che lo si dica occuparono un punto della costa disponendosi su tre file: dinanzi i «beach-master», o padroni del posto, in mezzo i «bachelors» o celibatari, quasi tutti giovani, ultime le «riserve». Il 15 giugno fu segnalato l’arrivo delle femmine. Venivano innanzi in ranghi compatti e lunghissimi; anche qui le otarie si contavano a migliaia. Allora si vide uno spettacolo curioso.

I «beach-master» si gettarono in mare, nuotarono incontro alle femmine e prendendole gentilmente per la pelle della nuca, ne portarono un gran numero a terra. Quando ognuno ne ebbe sette od otto, lasciarono allora il posto ai celibi i quali a loro volta balzarono in mare disputandosi con ferocissime zuffe le femmine rimaste.

– I ranghi dei celibi di cosa sono composti?

– Di otarie giovani.

– E i «beach-master» sono invece?…

– Gli adulti, e, come ti dissi, ognuno prende sette od otto femmine.

– Corpo d’una balena! Sono veri sultanelli questi signori «beach-master».

– E ve ne sono taluni forti e prepotenti che si prendono persino venti femmine.

– E, giunta l’epoca della partenza, se ne vanno tutte assieme le otarie?

– No, prima partono i vecchi, e ciò avviene in ottobre, poi i nati, quindi le femmine.

– E mentre sono uniti non vengono disturbati?

– I balenieri e gli Eschimesi piombano sovente in mezzo a questi grandi campi e fanno degli orribili macelli.

– Per averne le pelli?

– Sì, Koninson.

– E si pagano bene?

– Sei, otto e qualche volta dieci dollari ciascuna.

– Fanno adunque dei lauti guadagni i cacciatori.

– Sempre, poichè uccidono in quei massacri delle migliaia di otarie. Leva dal fuoco il fegato, che mi pare sia cotto a puntino.

Il fiociniere obbedì e lo depose su di un sasso ben levigato.

II tenente lo divise per metà e tutti e due cominciarono a lavorare di denti e così bene, che in cinque minuti più nulla restava.

– Ora, – disse il tenente – facciamo una pipata e poi una dormita.

– E non pensate al «Danebrog»? – chiese Koninson.

– La tempesta continua, Koninson, e il «Danebrog» non tornerà finchè non sarà finita.

– Ma sperate che ritorni?

– Ne sono certo; ti ho detto che il capitano Weimar non è uomo da abbandonare i suoi marinai,

II tenente accese la pipa che aveva ritrovata in una tasca della sua giacca assieme alla scatola del tabacco che era rimasto perfettamente asciutto, si sdraiò sullo strato di licheni e si mise a fumare flemmaticamente, mentre Koninson richiudeva alla meglio, con grossi sassi e rami di pino, l’apertura della caverna, per essere meglio riparato dal vento e dal freddo.

Alle 9 mentre l’uragano accennava a decrescere, i due marinai, coricatisi l’uno accanto all’altro, coi piedi rivolti verso il fuoco, si addormentavano profondamente. Il loro sonno però fu di breve durata, poichè il baccano che veniva dal di fuori era veramente spaventevole. Erano continui muggiti prodotti dalle onde che venivano a sfasciarsi ai piedi del colle, lanciando degli sprazzi d’acqua persino dentro la caverna; erano continui scoppi prodotti dai ghiacci che si frantumavano gli uni contro gli altri e continui fischi ed urla indiavolate prodotte dal vento, il quale dopo essersi un pò calmato, aveva ripreso novella foga. Verso le 11, secondo i calcoli del tenente, provarono a mettere la testa fuori. Non nevicava più, ma il cielo era sempre coperto da gigantesche nubi le quali correvano disordinatamente per il cielo, accavallandosi confusamente sotto i furiosi colpi di vento, e il mare era ancora agitatissimo. Sulle onde oscillavano spaventosamente gran numero di «icebergs», di «hummocks» e di «streams».

– Che cosa facciamo? – chiese Koninson.

– Ti senti forte?

– Sì, tenente.

– Allora mettiamoci in cammino. Ho fretta di rivedere il «Danebrog».

– Seguiremo la costa?

– Finchè potremo sì, poi daremo la scalata a quella catena di colline che vedi lassù.

Si coprirono alla meglio, si armarono di un grosso ramo di pino per aiutarsi nell’ascensione che stavano per intraprendere attraverso le dirupate colline, e si misero in cammino con passo abbastanza rapido, tastando però prima il terreno onde non cadere in qualche crepaccio che poteva celarsi sotto lo strato di neve. Per un po’ di tempo seguirono la costa passando in mezzo a picchi aguzzi, poi deviarono verso sud non essendovi più passaggi e cominciarono a scalare un’altissima collina coperta di neve e sulla quale ruggiva furiosamente il vento, torcendo un gruppetto di intristiti abeti.

– Dannata bufera! – esclamò Koninson, piegandosi verso terra per meglio resistere agli urti del vento. – Quando cesserà?

– Ne avremo fino a domani di certo. – rispose il tenente, che segnava la via.

– Se il «Danebrog» si trova ancora in mare, sarà a quest’ora ben lontano da noi.

– Se non lo troveremo oggi, sarà domani.

– Ma dove dormiremo stasera?

– In qualche altra caverna.

– E metteremo sotto i denti?

– Ho un bel pezzo di foca in tasca. Animo, Koninson, che la marcia comincia a diventare faticosa. Bada di non perdere l’equilibrio se non vuoi fracassarti le ossa.

La marcia infatti diventava allora difficilissima e anche pericolosa.

Non c’erano sentieri in nessun luogo e dalle nevi sorgevano punte rocciose così aguzze da lacerare le scarpe. Oltre a ciò il vento non cessava dal soffiare; anzi, la sua violenza, man mano che i due marinai si innalzavano, diventava sempre maggiore, trascinando con sè nembi di neve e ghiacciuoli e strappando, dalla cima del colle, delle pietre di non piccola mole, le quali scendevano rimbalzando violentemente di roccia in roccia. Verso la cima si udivano poi certi fischi e certi muggiti da mettere i brividi.

I due poveri cacciatori di balene, acciecati dalla neve, gelati da quel ventaccio, percossi dai sassi, ora spinti da una parte e ora dall’altra, non procedevano che con molto stento. Ad ogni istante erano costretti a curvarsi ed aggrapparsi alle roccie per non essere portati via.

Verso il tocco, sfiniti, insanguinati, coperti di neve, colle vesti lacere, le scarpe sfondate, giungevano sulla cima della collina che si stendeva in forma di altipiano. Colà il vento, non più imprigionato fra le rupi, urlava in modo orribile sconvolgendo lo strato di neve e torcendo come pagliuzze i pochi abeti che lassù vegetavano.

– Vedete nulla? – chiese Koninson, addossandosi ad una rupe.

Il tenente si arrampicò sulla cima della rupe e guardò innanzi a sè. Alla sua sinistra, ad un miglio di distanza, scorse il mare coperto di ghiacci; alla sua destra si elevava un’alta montagna dirupatissima e coperta di neve; dinanzi si estendeva una pianura ondulata, interrotta qua e là da piccoli corsi d’acqua gelata. Ad un tratto fece un gesto di stupore. Seguendo collo sguardo la costa, aveva veduto sorgere nel mezzo di una profonda spaccatura che doveva senza dubbio essere qualche piccolo seno o qualche stretto «fiord», gli alberi di una nave.

– Vedete nulla, signor Hostrup? – chiese Koninson per la seconda volta.

– Sì, fiociniere, vedo gli alberi di una nave – rispose il tenente.

– Ventre di foca! Una nave avete detto? Il «Danebrog» forse!

– Sì, è il «Danebrog», ne sono certo, Koninson.

– Iddio sia ringraziato! È molto lontano?

– Un miglio e mezzo forse.

– Partiamo, partiamo, signor Hostrup! Non sono più stanco. Ah! Bravo capitano! Urrah! Urrah!

– Calmati, Koninson.

– Andiamocene di qui, signor Hostrup. Io ho le vampe sotto i piedi.

Il tenente, che malgrado tutta la sua calma era pure impaziente di ritornare a bordo del valoroso «Danebrog», scese dalla rupe e si mise in cammino preceduto da Koninson. Nonostante la furia della burrasca, attraversarono rapidamente l’altipiano e scesero sul versante opposto lambendo un profondo abisso da cui uscivano dei lamentevoli ululati, forse emessi da qualche branco di lupi affamati.

Dopo aver arrischiato più di venti volte di fracassarsi in fondo di quell’abisso e di rompersi le gambe giù per il dirupato pendio, giunsero nella pianura. L’attraversarono quasi a passo di corsa e si arrestarono sulle alte sponde di un lungo e stretto «fiord», in fondo al quale stava solidamente ancorato il «Danebrog» fra un gran numero di ghiacciuoli staccatisi da un grande e grosso banco di ghiaccio che si era incastrato dinanzi l’uscita di quel braccio di mare.

– Ohe! Del «Danebrog»! – urlò Koninson con voce tonante.

Un marinaio, poi due, poi cinque, poi tutti apparvero sulla tolda della nave. Un gran grido echeggiò

– Il tenente Hostrup! Viva il tenente! Viva Koninson!

Una baleniera fu subito calata in acqua, sette uomini, compreso il capitano Weimar, vi presero posto, e si diresse a tutta forza di remi verso la riva.

Pochi minuti dopo il tenente e Koninson si trovavano l’uno fra le braccia del capitano e l’altro fra quelle di due camerati che ormai li avevano creduti per sempre perduti!

XII. BLOCCATI DAI GHIACCI

Il valoroso «Danebrog», guidato dall’abile e robusta mano del non meno suo valoroso capitano, era uscito sano e salvo dalla formidabile tempesta.

Spinto dal vento, era andato ad investire non già contro la scogliera che era stata segnalata e come avevano dapprima creduto il tenente Hostrup e il fiociniere Koninson, bensì contro un gran banco di ghiaccio che era apparso quasi improvvisamente dinanzi la prua.

L’urto era stato così gagliardo da atterrare l’intero equipaggio e da balzare in mare il tenente e il fiociniere, ma non aveva prodotto avarie al solido sperone della nave. Questa, dopo essersi arrestata per alcuni istanti, sollevata da una montagna d’acqua era tornata a cozzare contro l’ostacolo; poi aveva proseguito la disordinata corsa attraverso il nebbione.

Appena accortosi della scomparsa del tenente e del fiociniere, malgrado la furia del vento, il mare sollevato spaventosamente e i numerosi banchi di ghiaccio che correvano disordinatamente in tutte le direzioni, il capitano, che amava assai quei due coraggiosi, aveva audacemente dato il comando di virare di bordo e di allestire la grande baleniera, ma la manovra ardita quanto pericolosa, con quell’imperversare degli elementi, non era riuscita.

Allora diede il comando di poggiare verso la costa, risoluto di non abbandonare quei paraggi senza avere ritrovato vivi o morti i due disgraziati.

Ed infatti, dopo una ostinata lotta contro l’uragano che la trascinava verso est e contro i ghiacci, la nave era riuscita a rifugiarsi in quel profondo «fiord», il quale era stato subito chiuso da un gran banco di ghiaccio staccatosi da un altro ancora più grande. E lì il capitano aspettava che la tempesta si calmasse un pò per rimettersi in cerca del tenente e del fiociniere, che supponeva rifugiati su qualche punto della costa o sulla scogliera intravveduta attraverso la nebbia.

Il signor Hostrup e Koninson a bordo furono accolti con grande festa, poichè tutti li amavano assai per il loro coraggio e per la loro valentìa. Dovettero stringere le mani a tutti quanti e, quando furono ben vestiti ed ebbero calmati gli stiracchiamenti dello stomaco, furono costretti a narrare le loro avventure.

– Ed ora, che cosa si fa? – chiese il tenente al capitano Weimar, quand’ebbe finita la narrazione.

– Si aspetta che la burrasca finisca per fuggire verso ovest. La stagione della pesca è finita, tenente, e disgraziatamente assai male.

– La scommessa è perduta dunque?

– Sì, tenente! – rispose Weimar con tristezza. – I Danesi sono stati sconfitti.

– Bah! Riprenderemo la rivincita l’anno venturo, capitano.

– Sì, se riusciremo a guadagnare il porto che ci ha veduti partire.

– Temete i ghiacci, capitano?

– Sì, perchè ci siamo spinti troppo innanzi. A quest’ora noi dovremmo essere nel mare di Behring.

– La nave è ancora solida, capitano, e può lavorare di sperone.

– Non dico di no, ma temo che si avanzino i grandi banchi di ghiaccio. Sento per istinto che l’«icefield» non è lontano. Dannata scommessa che forse pagheremo assai cara! Essa sola ci ha trascinati fin qui.

– E anche il destino, capitano. Due urti in una stagione sono stati troppi. E l’uscita dal «fiord» sarà facile? Ho veduto un banco di ghiaccio all’entrata.

– Lo spezzeremo, tenente. Il «fiord» è lungo; possiamo quindi prendere un grande slancio. Ora andate a riposarvi, che ne avete bisogno; io ispezionerò il banco e cercherò di indebolirlo.

Il tenente, che si sentiva affranto per la lunga marcia fatta attraverso le nevi e le rupi, si ritirò nella sua cabina, mentre il capitano scendeva nella baleniera con una dozzina di marinai muniti di grandi seghe, di picconi e di scuri.

Il banco di ghiaccio che chiudeva il «fiord» fu accuratamente visitato. Era lungo duecentosessanta metri, largo centoventi e grosso nove pollici. Per di più, sul dinanzi, spinti dalle onde e dal vento si erano aggruppati parecchi «hummoks», «streams» e «palks» che tendevano a cementarsi rendendo maggiore l’ostacolo.

– Il «Danebrog» avrà un osso duro da spezzare! – disse mastro Widdeak al capitano. – E se non facciamo presto diverrà ancora più duro.

– La tempesta si calma, vecchio mastro. – disse Weimar. – Stanotte potremo partire.

– Dobbiamo assalire il banco?

– Assalitelo.

– Non si chiuderà il canale che apriremo, col freddo che fa?

– Speriamo che ciò non accada. Non abbiamo che due gradi sotto zero. Mano alle seghe e ai picconi.

Il mastro tracciò sul banco un canale largo sette o otto metri e i marinai si misero alacremente al lavoro manovrando vigorosamente i loro attrezzi.

Prima di sera un terzo del banco era stato spezzato. Non restava che un tratto di sessanta metri e questa rottura poteva benissimo farla, e senza pericolo, lo sperone del «Danebrog».

Alle otto il capitano e i marinai tornarono a bordo. L’uragano allora cominciava a diminuire rapidamente. Non soffiava il vento che a colpi irregolarissimi e il mare non si sollevava più così furiosamente come il giorno innanzi.

Durante la notte anche il cielo si rischiarò e apparve il sole, illuminando d’una tinta porporina, superba, i ghiacci che galleggiavano sul mare diventato ormai quasi tranquillo.

Alle 6 del mattino il capitano Weimar, il tenente e tutti i marinai erano in coperta, decisi di uscire a qualunque costo da quel «fiord».

Tutte le baleniere furono ritirate a bordo e ben assicurate onde l’urto, che poteva essere violentissimo, non le danneggiasse, poi furono solidamente assicurati i mobili delle cabine di poppa e i barili della stiva. Alle 7 le vele furono spiegate e i! capitano si mise alla ribolla del timone mentre i marinai si disponevano ai bracci delle manovre.

Un vento fresco soffiava da sud-sud-est portando in alto mare i ghiacci che la tempesta aveva spinto verso la costa, e un superbo sole brillava sull’orizzonte spargendo all’intorno un dolce calore.

Alle 7 e dieci minuti l’ancora fu strappata dal fondo e ritirata a bordo. Subito il «Danebrog», sotto l’azione del vento che gonfiava le sue vele, si scosse come un cavallo che sente lo sprone e cominciò a filare con notevole velocità verso l’uscita del «fiord», dinanzi al quale scintillava il banco di ghiaccio.

C’erano oltre novecento metri da percorrere. Tale distanza era più che sufficiente per imprimere al «Danebrog» lo slancio necessario per frantumare l’ostacolo già stato considerevolmente indebolito il dì innanzi dalle seghe, dai picconi e dalle scuri dei marinai.

– Saldi, in gambe! – gridò il capitano che stringeva con ferrea mano la ribolla del timone.

Spinto dal vento che tendeva a crescere, il «Danebrog» si avvicinava rapidamente al banco, lasciandosi dietro una scia bianchissima in mezzo alla quale guizzavano non pochi pesci.

I marinai, aggrappati al bordo o alle sartie, non respiravano quasi più e guardavano con qualche apprensione il banco che si faceva ad ogni istante più vicino.

– Attenzione! – gridò il capitano.

Non c’erano che quindici o venti metri. Il «Danebrog», che correva colla velocità di sette nodi all’ora, in brevi istanti superò quello spazio e si scagliò in mezzo al canale scavato il dì innanzi dai marinai. Avvenne un urto formidabile che mandò a gambe levate gran parte dell’equipaggio, seguito subito da uno scricchiolìo sinistro e da una mezza dozzina di sorde detonazioni.

Il banco colpito in pieno dall’acuto e solido sperone della nave baleniera si fendette come una lastra di vetro, poi si spezzò in dieci diversi punti con lunghi stridii.

Per alcuni momenti il «Danebrog» restò quasi immobile, poi guidato dal suo intrepido capitano, si cacciò in mezzo a quei frantumi e uscì in pieno mare colla prua verso nord.

– Urrah! – urlò l’equipaggio che si era subito rimesso in gambe. – Viva il «Danebrog»! Viva il capitano Weimar!

Dinanzi al «fiord» il mare era libero, ma a destra e a sinistra, un numero immenso di ghiacci accumulativi dall’uragano, ingombrava le coste. Montagne gigantesche, picchi aguzzi, piramidi tronche, colonne enormi, arcate curiose, cupole ancor più strane, poi grandi banchi si estendevano verso nord formando coi loro riflessi la luce bianca che, come dicemmo, i marinai chiamano «ice-blink».

Nessuna nave solcava le onde che erano diventate basse assai e molto lunghe e che, sotto i raggi del sole, splendevano magnificamente come se fossero cosparse di pagliuzze d’oro. Solamente in aria, attraverso l’«ice-blink», volavano silenziosamente alcuni gabbiani.

– Bisogna spingersi verso nord per qualche centinaio di miglia – disse il capitano al tenente, dopo aver guardato attentamente, con un forte cannocchiale, l’ampia distesa d’acqua. – Troveremo il mare libero e potremo allora navigare senza lottare contro i ghiacci.

– Non allontaniamoci tanto dalle coste, capitano – disse il tenente.– Appena lo possiamo, pieghiamo verso ovest; bisogna affrettarsi a raggiungere lo stretto di Behring.

– Lo faremo, signor Hostrup, a meno che non incontriamo sulla nostra via qualche…

– Che cosa, capitano?

– Tornare in porto sconfitto, mi punge assai.

– Ah! Volete dire che se una balena venisse a nuotare nelle nostre acque…

– Non esiterei a darle la caccia, dovessi spingere la mia nave fino ai grandi campi di ghiaccio.

– Sarebbe un’imprudenza imperdonabile, capitano. Abbiamo già tardato troppo a ritornare quest’anno. Due giorni ancora perduti potrebbero esserci fatali. Non vi pare?

Il capitano non rispose. Aveva puntato il cannocchiale verso est e guardava con grande attenzione. Il suo viso, di solito tranquillo, si era tutto d’un tratto cambiato e un leggero tremito agitava le sue braccia.

– La via è lunga assai! – continuò il tenente che non si era accorto di nulla. – Io sono certo che quando giungeremo nel mare di Behring lo troveremo in gran parte gelato e…

– Tenente! – esclamò in quell’istante il capitano con voce alterata. – Non vedete nulla voi laggiù, verso est?

– Sì, degli «icebergs» che danzano allegramente.

– No, più lontano, guardate più lontano. A voi, prendete il cannocchiale.

Il tenente prese lo strumento e lo puntò nella direzione indicata. Là dove il mare pareva confondersi coll’orizzonte, scorse parecchi punti neri apparire e scomparire e poi riapparire.

– Vedete nulla? – chiese Weimar.

– Sì! – rispose il tenente con voce tranquilla. – Vedo un branco di balene.

– La vittoria è nostra, tenente! Anche quest’anno i Danesi trionferanno.

– Cosa intendete dire, capitano?

– Che daremo la caccia alle balene. Torneremo a Nuova Arcangelo così carichi da affondare, o poco meno. Il tenente fece un gesto di stupore.

– Perderemo un’altra settimana, signore – disse poi con grave accento.

– Che importa?

– Vi ho detto poco fa che siamo lontani dal mare di Behring, e che dubito assai lo si possa attraversare.

– Bah! Lavoreremo di sperone, se i ghiacci l’avranno chiuso.

– Capitano, pensateci due volte. Giuocate la sorte non solo del «Danebrog», ma di noi tutti.

– Quando si tratta dell’onore dei balenieri danesi non occorre pensarci su due volte. Bisogna cacciare quelle balene, tenente, e a qualunque costo.

– E sia, signore. Ma badate a me, facciamo presto, assai presto o saremo costretti a svernare in mezzo ai ghiacci.

– Non domando che tre o quattro giorni. Ehi!, mastro Widdeak, governa dritto a quelle balene e voi, ragazzi, preparate le baleniere e i ramponi!

– Ma… capitano… – arrischiò il vecchio lupo di mare, che come il tenente Hostrup aveva previsto il pericolo.

– Che vuoi tu dire? – chiese il capitano.

– Siamo innanzi assai colla stagione…

– Sei hai paura, sbarca sulla costa americana.

– Mai, signore. Il vecchio Widdeak non abbandona il «Danebrog».

– Allora ubbidisci. Alle manovre, ragazzi! Domani avremo tanto grasso da affondare il «Danebrog» fino al bastingaggio.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
270 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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