Kitabı oku: «Il Bramino dell'Assam», sayfa 12
«Si può vivere anche senza occhi» rispose freddamente Tremal-Naik. «D’altronde il vecchio paria ha confessato abbastanza, quantunque ci manchi sempre il nome dello sconosciuto che sta per scatenare qui una grossa rivoluzione». «Quel nome lo conosce solo il bramino, padrone?» «Sì, Kammamuri».
«Ed allora bisogna che viva ancora, In quanto all’occhio se ne vada pure. Anche senza vederci può parlare».
«Ah, no» disse Yanez. «Che prima svegli Surama. Avrei paura che mia moglie dovesse rimanere sempre sonnolente ed in preda ancora a volontà incomprensibili». «Hai ragione, Yanez» disse Tremal-Naik. «Prima tolga il magnetismo». «Lasciate fare a me allora» disse Kammamuri. Si avvicinò al letto su cui giaceva il bramino o paria che fosse.
Il disgraziato, sfinito dal sonno, dalla fame, e soprattutto dalla sete, si trovava in uno stato deplorevole. L’unico occhio però mandava ancora quei lampi misteriosi, tentando di affascinare anche i tre uomini. Kammamuri prese da una mensola una bottiglia di birra ed un grosso bicchiere, e la stappò davanti al prigioniero, dicendogli: «Se tu imponi alla rhani di svegliarsi, vuoterai questa tazza».
Un sibilo rauco uscì dal petto del prigioniero, ed il suo occhio parve aumentare la sua strana luce. «Mi hai capito?»
Il bramino, che non poteva più resistere all’atroce sete, fece un cenno affermativo. «Comanda dunque alla rhani di alzarsi». «Sì… fat… to…» rantolò.
«Signor Yanez», disse Kammamuri, «andate ad accertarvi. Non mi lascerò ingannare da quest’uomo». Il portoghese uscì quasi correndo, e poco dopo tornava col volto ilare.
«L’incanto è stato spezzato» disse. «Surama è già in piedi e non ricorda più nulla. Da’ da bere a questo miserabile».
Kammamuri accostò la tazza alle labbra del prigioniero, già tutte nere e screpolate, e glielo vuotò in gola. Un vero urlo di belva soddisfatta squarciò il petto del bramino. «Stai meglio ora?» chiese Kammamuri, empiendo ancora il bicchiere. «Ancora… ancora…» «Sì, se però ci dirai per conto di chi agiscono i paria». «Non… lo… so…» «Se sappiamo che eri il loro capo!…» «Chi… lo… ha… detto?…»
«Quel vecchio cacciatore di coccodrilli che sta legato sull’altro letto, e che tu devi ben conoscere» continuò il maharatto. «Quel… cane…» «E ci ha anche detto che tu agivi per conto di Sindhia, l’ex rajah».
Il bramino mandò un vero urlo, e volgendosi verso il vecchio, il quale assisteva impassibile a quella scena, dopo d’aver raccolte tutte le proprie forze mugolò: «Traditore!…»
«Ah!… Ti sei finalmente tradito!…» gridò Yanez, quasi balzando addosso al miserabile. «Ora non negherai più di essere stato tu ad avvelenare i miei ministri. Bagnagli la gola perché possa parlare meglio, mio bravo Kammamuri».
Il maharatto fu pronto a obbedire, ed il prigioniero, divorato da una sete diventata ormai quasi inestinguibile, vuotò avidamente il secondo bicchiere. «Confessi ora?» gli chiese Yanez, impugnando una pistola.
«Mi hanno… tradito… i vili!…» urlò il bramino con un tono di voce che più nulla aveva di umano. «È inutile… che ora neghi… lavoro per Sindhia… e sono stato io ad avvelenare i tuoi ministri… colla bava del bis cobra. Ora… puoi uccidermi… non posso più resistere… ho sonno».
«Vuota prima tutta la bottiglia» disse Kammamuri. «Più tardi ti daremo da mangiare finché vorrai ed avrai altra birra». «E poi… mi ucciderete… è vero?…»
«Né io né la rhani abbiamo ancora decisa la tua sorte» disse Yanez con voce grave, riponendo l’arma nella larga fascia di seta. «Tu, forse, potrai vivere, anche se hai un occhio solo, e diventare ancora ricco, poiché io saprò pagarti meglio del rajah, te lo assicuro. Le casse dello stato sono perfino troppo piene di rupie e di mohr».
«Tu, Altezza… non manterrai le tue promesse… d’altronde della vita non m’importa». «Confessa che sei un paria e non un bramino». «Sì, sono un paria, ma figlio d’un capo famoso».
«Che deve essere stato birbante come te, se non di più» disse Tremal-Naik, il quale stava presso al vecchio per impedirgli di parlare e di scolparsi di quel tradimento che non aveva commesso. «Era un gran capo». «Di ladri!…» gridò il vecchio, che non poteva più starsene zitto.
«Anche i ladri formano una casta in India», disse Yanez, «e non vengono considerati dappertutto come dei famosi furfanti. Ciò d’altronde non ci interessa. Ora ne sappiamo abbastanza e pel momento non ci rimane che di fare una visita alla pagoda di Kalikò con un buon nerbo di rajaputi». «Kalikò?» chiese Kammamuri.
«Il vecchio, durante la tua assenza, ci ha dato delle indicazioni preziose e sappiamo dove sorprendere i capi di Sindhia». «È fuggito dunque il rajah?»
«Questo lo dovrai verificare tu. Prima che il sole tramonti partirai e ti recherai in quella città. Mi preme anche che tu ci vada per spedire a Sandokan un telegramma cifrato, per farlo accorrere il più presto possibile con qualche centinaio di malesi. Solo quando vedrò quell’uomo mi sentirò un po’ sicuro». «Eppure tutto il paese sembra calmo, signor Yanez».
«Ah, sì, sembra. Due ore fa abbiamo ricevuto un telegramma da Silkar che quella popolazione è improvvisamente insorta ieri, col pretesto di non voler più pagare le tasse, ed ha abbattuto le insegne della rhani, senza osare, finora, inalzare quelle di Sindhia». «E la guarnigione?»
«Passata a fil di spada. Laggiù noi non abbiamo nemmeno più un soldato per far rispettare il carro dello stato».
Yanez trasse una sigaretta, l’accese colla sua solita flemma, aspirando rapidamente un paio di boccate, poi disse:
«Sindhia vuole misurarsi con me e scatenare nuovamente la guerra fra queste popolazioni che io ho cercato di civilizzare in tutti i modi. Sia!… Vedremo se rimarrò ancora qui trionfante accanto alla mia piccola rhani ed a mio figlio, o se sarò costretto a tornarmene in Malesia. Veramente là mi annoiavo assai meno di qui». Si passò una mano sulla fronte e parve riflettere.
«Non c’è altro da fare» disse poi. «Abbiamo venti elefanti e guerrieri pronti a farsi uccidere per noi, e poi, e dopo di loro ci saranno i montanari di Sadhja, che mi hanno così valorosamente aiutato a dare alla rhani la corona che le spettava». Kammamuri gli additò il prigioniero facendo un gesto minaccioso.
«No», disse Yanez «quell’occhio può esserci utile. Io credo che quell’uomo si deciderà, mediante una buona somma, a mettersi ai nostri servigi. Lascia quindi in pace il tuo tarwar, tigre dei maharatti. Il cacciatore di topi e Timul sono giunti con te?» «Sì, signor Yanez. Credo che siano insieme al rajaputo che vi avevo lasciato».
«Vengano a sorvegliare questi uomini, e tu sali nel mio salotto dove la colazione del mattino deve essere già pronta. Malgrado il ciclone i cuochi non sono stati inoperosi. Per Giove!… Erano tre mesi che non cucinavano più per me e per la rhani».
«Ebbene, vuoi un consiglio?» disse Tremal-Naik. «Vuota bottiglie sigillate e non mangiare che uova».
«Allora lasceremo che la tiffine se la mangino i due cani del Tibet. Avevo dimenticato il pericolo. Andiamo: l’alba è sorta e la notte è stata lunghissima ed assai angosciosa. Prepareremo, fra un uovo e l’altro, il nostro piano di battaglia».
CAPITOLO DODICESIMO: LA PAGODA DI KALIKO’.
Dieci minuti dopo Yanez, Tremal-Naik, la rhani che teneva il piccolo Soarez fra le braccia e che pareva non fosse più in preda a quel misterioso ipnotismo, e Kammamuri, si trovavano radunati in una comoda saletta, ammobiliata all’inglese anziché all’indiana, con pochissimi mobili, vaste poltrone di bambù, tavola lunghissima capace anche per trenta persone, e numerose mensole reggenti polverose bottiglie.
I due cuochi della palazzina, già informati che il maharajah ed i suoi compagni desideravano fare colazione, avevano preparata la tavola, ornandola anche di molti fiori.
Dei profumi acuti salivano dalle cucine espandendosi perfino nella saletta, con grande collera di Yanez, che per paura di subire la sorte dei suoi ministri, si era giurato di non mangiare che delle uova sode, aperte colle proprie mani, e noci di cocco spaccate in sua presenza.
«Guardate un po’ a che cosa è ridotto un maharajah!…» esclamò, battendo il pugno sulla tavola. «A non potersi levare la fame».
«Ma temi che avvelenino anche noi? Non l’oserebbero, mio signore» disse Surama.
«Il tradimento ci avvolge, mia cara, e non si sa che cosa preparino gli assoldati di Sindhia, che pare siano tutti paria. Hanno troppa conoscenza dei veleni». «Ti ripeto che non oserebbero».
«Ed io dico che è meglio non fidarsi, mia piccola rhani. D’altronde si può vivere benissimo anche con delle uova, del latte di cocco e con qualche banano che andremo però a raccogliere noi nel giardino». «E fai bene, Yanez» disse Tremal-Naik. «Dunque Sindhia è fuggito?» chiese Surama, impallidendo.
«Così sembra, ma manderemo Kammamuri a Calcutta ad informarsi meglio. Quel briccone a cui tu passavi cinquantamila rupie al mese perché non ci seccasse più e continuasse a bere, minaccia di dichiararci nient’altro che la guerra». «Non hai fiducia nel nostro popolo?»
«Nessuna, Surama. Al tuo popolo occorre un tiranno che fucili i cittadini per provare le sue armi, come faceva dalle finestre del palazzo reale, e non due brave persone come siamo io e tu». «Mi spaventi, mio signore!»
«Sei tu alla testa dello stato, poiché io non sono che un principe consorte e devo dirti ben tutto».
«Anche voi, Tremal-Naik, credete che scoppi una insurrezione a favore di Sindhia?» chiese Surama.
«Ne abbiamo già le prove» rispose il famoso “Cacciatore di Tigri della Jungla Nera”. «E noi avremo forze…»
«Silenzio ora, Surama» disse Yanez. «Riprenderemo più tardi questa interessante conversazione.
La porta si era spalancata, ed i due cuochi, seguiti da quattro valletti e dai due molossi del Tibet, che erano stati salvati insieme agli elefanti, entrarono portando su grandi tondi d’argento ogni sorta di vivande.
«Mi rincresce per voi», disse Yanez, «ma tutti questi cibi devono ritornare in cucina, salvo un pudding che voglio offrire ai cani. Portateci solamente uova sode e noci di cocco. Il vino, e ben sigillato, qui non manca e ci serviremo noi».
Tale fu lo stupore dei due poveri cuochi, che da una buona ora arrostivano dinanzi ai fornelli gareggiando nella preparazione delle pietanze, che per poco non lasciarono andare a terra tutto il loro lavoro buccolico.
«Altezza» disse finalmente il più vecchio, facendosi animo. «Si direbbe che voi temete qualche tradimento da parte nostra».
«No, no, da parte vostra» rispose prontamente Yanez. «Sappiamo che voi siete due fedeli sudditi. Io però non oso più mangiare i vostri pasticci se non sono cucinati sotto i miei occhi».
«Avete torto, Altezza, poiché nessun avvelenatore è entrato qui. Sapete bene che la palazzina è circondata dai rajaputi».
«Vogliamo provare?» disse Tremal-Naik. «Kammamuri, manda via uno dei due molossi, e offriamo all’altro quel pudding».
«L’ho preparato io, sahib» disse il secondo cuoco, con voce tremante. «Perché dubitare?»
«Sedetevi là e proviamo. Che nessuno esca!» gridò poi, vedendo che uno dei quattro valletti, un ragazzetto appena dodicenne, dall’aria furba e gli occhi intelligenti, cercava di guadagnare cautamente la porta. Quella manovra lo aveva profondamente impressionato.
«Che cos’hai, Tremal-Naik?» chiese Yanez. «Si direbbe che vuoi uccidere qualcuno, tanto ti vedo sconvolto».
«Aspetta un po’, amico. Io credo di averti dato un buon consiglio, poco fa, di non fidarti nemmeno più delle tue cucine». Poi volgendosi verso il capocuoco, gli chiese: «Chi è quel ragazzo?» «Il mio piccolo aiutante, sahib». «Da quanto tempo si trova ai tuoi servigi?» «Da soli tre giorni». «E gli altri?» «Oh, da anni! Si può dire che sono cresciuti nelle cucine del bungalow». «Va bene: Kammamuri, chiudi la porta ed allontana il molosso più grosso».
«È fatto, padrone» rispose il maharatto, il quale agiva rapidamente, curioso di sapere che cosa stava per succedere.
Tremal-Naik prese due tondi, uno contenente un arrosto annegato nel Madera, e l’altro un magnifico pudding dalla bella crosta dorata, e che tramandava un profumo squisito, e li mise dinanzi al molosso che era rimasto nella saletta.
«Crederesti che ci sia il veleno in quei cibi?» chiese Yanez, tergendosi qualche stilla di sudore freddo.
«Aspettiamo» rispose Tremal-Naik, il quale non staccava gli sguardi dal valletto sospetto. «Facciamo un esperimento».
L’enorme cane si era messo a lavorare di denti, quasi con furore, ora strappando un pezzo di arrosto ed ora uno di pudding. La sua lunga coda, ricca di peli, ondeggiava freneticamente. «Osservi nulla tu, Yanez?» chiese Tremal-Naik.
«Che il molosso è in preda ad una strana agitazione, quantunque non abbia mandato giù molti bocconi finora». «Guarda ora quel ragazzo che cercava di andarsene non veduto». «Mi pare che tremi».
«Per Siva!…» esclamò Kammamuri, facendosi incontro al ragazzo colle pugna alzate. «Lascia stare ora» disse Tremal-Naik. «Vediamo che cosa fa il molosso». Yanez in quel momento si alzò di scatto gridando: «Il cane è morto fulminato!…»
E infatti la povera bestia, dopo di aver ripiegato bruscamente la coda e di aver sbadigliato a lungo, mostrando la sua terribile dentatura, tutto d’un colpo si era abbattuto su un di fianco, rimanendo perfettamente immobile.
«Il pudding era avvelenato!…» gridò Yanez, puntando sui due cuochi le sue pistole. «Chi è stato?»
«Altezza» disse il primo cuciniere, il quale tremava come una foglia, e sudava come se uscisse allora da un forno. «Non può essere stato che questo ragazzo».
«Lo porto agli elefanti», disse Kammamuri, «affinché si divertano un po’ giuocando alla palla».
«Tu non lo toccherai» disse Tremal-Naik. «Dobbiamo ben conoscere prima con quali nemici abbiamo da fare. Pare che si siano introdotti già anche qui».
«Ed a te debbo la salvezza di tutti» disse Yanez. «Senza i tuoi sospetti non vi sarebbe più né una rhani, né un maharajah nell’Assam, e forse sarebbe già morto anche mio figlio. Ah!… Questo è troppo!… Si lavora troppo di veleni qui!… Ne ho abbastanza della corona!…»
Poi si avvicinò al ragazzo dardeggiando su di lui uno sguardo penetrante, e strappandolo fra i cuochi, dietro ai quali cercava di rannicchiarsi, lo spinse verso la tavola mettendolo a sedere su una larga poltrona a dondolo.
«Ora parlerai, furfante» disse. «Tu sei entrato qui solamente tre giorni fa. Chi ti ha mandato?» Il ragazzo ebbe un sussulto e parve che la sua lingua si fosse paralizzata. Sgranava gli occhi pieni di spavento e si torceva le mani.
Kammamuri gli fece ingollare un bicchierino di gin, il quale parve che lo galvanizzasse.
«Parlerò», disse con voce tremante, «purché non mi facciate del male. Io non sapevo che la fiala consegnatami contenesse del veleno».
Tutti lo avevano circondato guardandolo con vivissima collera. Specialmente i cuochi e gli altri valletti parevano estremamente esasperati. Se avessero consegnato loro quel ragazzo l’avrebbero certamente gettato dentro i grossi fornelli della cucina, come se si trattasse d’una semplice bistecca.
«Tu hai parlato d’una fiala semplice» disse Yanez facendo cenno a tutti di non parlare. «Sì, sahib» rispose il piccolo cuciniere, battendo i denti. «E tu dici che non sapevi che cosa contenesse?»
«No, signore, poiché io avrei assaggiato subito quel pudding, ve lo giuro su Siva». «Chi te l’ha data?»
«Un fakiro che ho incontrato quattro giorni fa, e che mi suggerì l’idea di presentarmi ai vostri cuochi per lavorare con loro». «E perché ti ha data quella fiala?» continuò Yanez, fra il silenzio generale.
«Perché diceva che avrebbe resi i cibi destinati al maharajah ed alla rhani assai più gustosi». «E ti aveva consigliato?»
«Di versarne cinque gocce entro qualche dolce, però senza farmi vedere dai cuochi, affinché non rubassero il segreto per rendere le vivande assai più delicate».
«Si vede, infatti!…» disse Yanez, ironicamente. «Quelle gocce misteriose mandavano all’altro mondo uomini ed animali. Hai ancora la fiala?» «Sì, mio signore» balbettò il ragazzo.
Si frugò entro l’alta fascia bianca che gli cingeva i fianchi, e porse al portoghese una leggerissima fialetta di cristallo bianco la quale conteneva un liquido rossastro, di poco promettente aspetto.
«È inutile che la sturi» disse Tremal-Naik a Yanez. «Lì dentro vi è la bava del bis cobra». «Tu lo credi?» «Vedrai».
In un angolo della saletta sonnecchiava un superbo pavone, volatile che si trova anche in tutte le case dei ricchi indù, dove vengono trattati con ogni cura perché rappresentano la dea Sarasvati, che protegge le nascite ed i matrimoni. Tremal-Naik tolse alla nutrice di Soarez un sottilissimo spillone, sturò la bottiglietta, e bagnò la punta, e si avvicinò al pavone ferendolo leggermente al collo.
«Ora vedremo l’effetto» disse. «Sanno, al pari di quello del cobra e del serpente del minuto, che il veleno del bis cobra, non ha antidoti, e cercano di fulminarci tutti, Belle canaglie!…»
Il pavone si era bruscamente svegliato, allargando la sua imponente coda per poi raccoglierla subito come un gigantesco ventaglio scintillante d’oro e d’azzurro.
Guardò con aria stupita le persone che lo avevano circondato, mandò due volte il suo grido sgradevole ed acuto, poi il gran ventaglio bruscamente si mise a oscillare come se fosse scosso da una forte corrente d’aria, mentre le ali si allungavano fino al suolo con un forte tremito. I suoi occhietti erano diventati scintillanti come se fossero diamanti veri. «Vedi, Yanez» disse Tremal-Naik. «Questo povero uccello muore».
«Vedo» rispose il maharajah con voce cupa. «La bava del bis cobra non perdona».
In quel momento il superbo pavone si raccolse tutto su se stesso, vibrò un’ultima volta la coda, mostrando tutti i suoi colori, poi cadde come fulminato al pari del molosso.
«Oseresti tu, ora», disse Tremal-Naik, volgendosi verso il ragazzo, «mandare giù una sola goccia del liquido contenuto nella fiala?»
«Ora no, mio signore» balbettò il piccolo cuoco, sbarrando gli occhi e diventando grigiastro, ossia, pallidissimo. «Prima però sì, perché io credevo in buona fede che quel liquido dovesse dare maggior sapore alle vivande».
«E non ti è venuto nemmeno il più lontano sospetto che quella fiala potesse contenere del veleno?» chiese Yanez. «No, maharajah». «Quel fakiro ti ha dato qualche cosa perché tu gli obbedissi?»
«Sì, un mohr d’oro, che tengo ancora con me, e che sono pronto a consegnarvelo». (40 lire). «Hai più riveduto quell’uomo?» «Mai più». «Sapresti riconoscerlo?»
«Se lo incontrassi sì, poiché la sua fisonomia mi è rimasta profondamente impressa».
«O tu sei un gran furbo, come mi sembri», disse Tremal-Naik, «od il più gran cretino che si trovi non solo in tutto l’Assam, bensì in tutta l’India».
«Voi non mi credete, sahib» disse il ragazzo, guardando con spavento Kammamuri il quale lo fissava con due occhi terribili. «Ben poco». «Eppure ho detto la verità, sahib». «Ma prima, quel fakiro non l’avevi mai veduto?» chiese Yanez. «Mai, maharajah». «Tu hai una famiglia?»
«Non ho più nessuno: la carestia dello scorso anno ha ucciso mio padre, mia madre ed i miei tre fratelli». «Sicché non hai una capanna tu?»
«Nessuna: dormivo in quelle che trovavo vuote, o nei giardini, e vivevo di frutta rubate». «Che cosa devo fare di questo ragazzaccio?» chiese Kammamuri impazientito.
«Nemmeno questo deve morire» disse Yanez. «Ci seguirà nella pagoda di Kalikò. Chissà che noi possiamo trovare anche questo secondo avvelenatore».
«Ah!… Se trovassimo anche Sindhia…» esclamò Tremal-Naik. «L’insurrezione sarebbe finita con un sol colpo di carabina sparato nel dorso d’un solo uomo».
«Non credo che sia così stupido da accostarsi tanto alla capitale. Sarà ancora sulle frontiere, occupato a radunare i suoi paria, i suoi thugs, i suoi ladri, e tutti gli avventurieri che corrono sempre dove vi è la speranza di un grosso saccheggio».
Rimase un momento silenzioso, si avvicinò ad uno scrittoio, e su un pezzo di carta vergò alcune righe.
«Tu, Kammamuri, partirai subito con uno dei miei elefanti finché giungerai alla stazione ferroviaria di frontiera, e manderai a Sandokan questo dispaccio. Le comunicazioni colla Malesia ormai sono facili ed anche abbastanza rapide, e poi il famoso pirata non mancherà di navi a vapore». «Senza colazione?» chiese il maharatto, sorridendo. «Mangerai al primo villaggio che troverai e con maggior sicurezza che qui».
«Altezza» disse il capocuoco, con voce quasi piangente. «Non vi fidate più di noi? Se volete, in pochi minuti, noi vi prepareremo una nuova colazione». «Senza veleno di bis cobra?» chiese, scherzosamente, Yanez. «Ve lo giuro, Altezza».
«Allora va’, brav’uomo. Mi fido di te e poi Kammamuri ed i suoi compagni avranno anche loro ben fame».
«Non potranno più reggersi in piedi dopo una notte così pesante, signor Yanez» disse il maharatto. «Tu però andrai a sorvegliare i cuochi».
«Non era necessario che me lo diceste, quantunque abbia piena fiducia in questi bravi cuochi».
In attesa della colazione, che per poco non li mandava tutti all’altro mondo, se avessero assaggiato la prima, sturarono alcune bottiglie di birra accuratamente sigillate, e che portavano sulla ceralacca lo stemma dell’Assam: tre elefanti colle trombe alzate. I bravi cuochi mantennero la loro parola. Non era trascorsa ancora mezz’ora che già tornavano correndo con altri tondi confezionati sotto l’alta sorveglianza di Kammamuri. Mangiarono lestamente, senza apprensioni, non dimenticando né i due prigionieri, né il rajaputo che li teneva d’occhio, né il cacciatore di topi e così pure il giovane cercatore di piste.
Essendo appena le nove, ed avendo dato l’ordine Yanez che gli elefanti fossero pronti per le cinque, montati da cento rajaputi scelti, decisero di prendere un po’ di riposo. Solamente Kammamuri, sempre instancabile, si rifiutò, premendogli di non perdere il treno che da Agen, ultima borgata di frontiera, doveva condurlo a Calcutta.
Come già si sa, Timul doveva tenergli compagnia, mentre gli altri dovevano rimanere, insieme a quattro vecchi rajaputi fidatissimi, per sorvegliare il bramino e vegliare sulla rhani e sul piccolo Soarez. Yanez aveva già deciso di condurre con sé il paria dalla barba bianca ed il giovane avvelenatore. Non disperava, con quest’ultimo, di trovare il fakiro. A mezzogiorno, quando già tutti si riposavano, Kammamuri lasciava la palazzina insieme al cercatore di piste ed a due rajaputi, Montava uno dei migliori elefanti del maharajah, valente quasi quanto l’impareggiabile Sahur. Alle cinque invece partivano Yanez, Tremal-Naik, insieme al vecchio paria ed al giovane avvelenatore.
Tutti gli elefanti dei parchi reali, una ventina ed anche più, guidati dai loro cornac, e con Sahur in testa, si erano raggruppati dinanzi al bengalotu, offrendo uno spettacolo straordinario, tanto più che tutte le haudah, ossia le casse, erano piene di rajaputi formidabilmente armati, scelti fra i montanari di Sadhja, tutti antichi sudditi del padre della rhani. La popolazione, che aveva riparato alla meglio i guasti prodotti alle sue case dal ciclone della notte, era accorsa in massa a godersi quella partenza, però, non senza un certo senso d’amarezza, Yanez aveva notato che gli applausi entusiastici d’un tempo erano mancati.
«Vedi» disse a Tremal-Naik che gli sedeva dinanzi. «Pare che non riconoscano più in me il marito della rhani. Ah!… Come sono ingrati questi indiani!»
«Non tutti però» disse il famoso “Cacciatore di Tigri e di Serpenti della Jungla Nera”. «Ne converrai, amico principe».
«Non ve ne sono che due soli sui quali io possa assolutamente contare, e si chiamano Tremal-Naik e Kammamuri». «Noi siamo vecchi amici, ed ormai io sono diventato più europeo che altro». «La Young-India ti ha preso un po’ fra le sue spire».
«È probabile, Yanez. Ed è tempo che anche noi indiani facciamo un grande strappo alle nostre antichità e che sacrifichiamo un bel numero di numi assolutamente inutili. Il risveglio verrà, te lo assicuro, e allora gli indiani, coscienti delle proprie forze, getteranno nell’Oceano Indiano tutti quei vampiri che si chiamano inglesi, e che ci sfruttano, levando al nostro popolo persino l’ultima goccia di sangue».
«E sarà quella una spaventevole insurrezione che noi forse non vedremo, poiché siamo già ben maturi. Mio figlio, se tornerà qui o se rimarrà qui…»
«Perché hai detto, Yanez, se tornerà qui?» chiese Tremal-Naik, colpito da quelle parole che il portoghese aveva pronunciato con voce malinconica.
«Che cosa vuoi che ti dica, amico, io sento che la corona dell’Assam, un giorno o l’altro, mi verrà tolta dal capo». «Che brutte idee hai tu».
«Allegre non certamente» rispose Yanez. «La corona però costerà ben cara e gronderà sangue. Perderò forse l’impero, poiché vedo che il tradimento ci opprime da tutte le parti, però la lotta sarà terribile. Aspetta che giunga Sandokan coi suoi Tigrotti e che scateni i montanari di Sadhja, e poi vedremo che cosa farà Sindhia coi suoi banditi ed i suoi paria». «Lavorerà di veleni» disse Tremal-Naik, facendosi oscuro in viso.
«E quanti avvelenatori prenderò, li metterò sulle bocche dei cannoni. Basta ora di essere troppo generoso» disse Yanez, facendo un gesto d’ira. «Avrei dovuto, con questo popolo, essere crudele come l’ex rajah. Va bene, se vi riescono se lo riprendano e si facciano massacrare per le strade per divertirlo e fargli passare l’ubriachezza. È così, è vero, Tremal-Naik?»
«Hai ragione, amico: certi popoli devono essere governati da tiranni sanguinari e senza scrupoli, e uno di quelli è il nostro Sindhia. Il risveglio però, come ti dicevo, verrà, un po’ tardi ma verrà, e quel giorno non vorrei trovarmi nella pelle di uno di questi principi, come non vorrei trovarmi nella pelle d’un inglese. Tardi, ma qualche cosa di spaventoso succederà, e farà impallidire l’insurrezione di Delhi».
«Bah!…» disse Yanez, «Dopo tutto, come ti ho sempre detto, io non sono nato per guidare un impero, specialmente quando questo ha troppe ruote che, di quando in quando, stridono maledettamente, come se mancassero di grasso. Aspettiamo Sandokan e poi vedremo che cosa dovremo fare». «Tu credi che partirà subito?»
«Non tarderà un’ora. Si è sempre divertito, quel diavolo d’uomo, a battersi nell’India. Figùrati se non correrà sapendoci tutti in pericolo».
«Prima di venti o venticinque giorni però non potrà essere qui, e noi forse abbiamo un po’ tardato ad avvertirlo di ciò che succede qui».
«Intanto provvederemo noi. Quando vorrò, tutti i montanari di Sadhja caleranno sulle pianure condotti dal vecchio Khampur che tanto ci ha aiutati a scacciare quell’ubriacone di Sindhia». «M’incarico io di questo affare» disse Tremal-Naik. «Per ora però aspettiamo e cerchiamo di sorprendere i cospiratori». Poi volgendosi verso il vecchio paria gli chiese: «Quando potremo giungere alla pagoda di Kalikò?»
«Se gli elefanti forzeranno il passo, fra le due e le tre ore del mattino» rispose il prigioniero.
«Bada di non ingannarci, perché noi non siamo uomini da perdonare un delitto e tanto meno un tradimento. Hai veduto come abbiamo ridotto il vostro preteso bramino».
«Sono vecchio, eppure ci tengo ancora alla mia pelle, maharajah. E poi ora sono nelle vostre mani, e nessuno dei vostri mi aiuterebbe certamente a fuggire. Lasciate che passi dietro al cornac, per mostrargli la via più breve e migliore per giungere alla pagoda».
«Fa’ pure» disse Yanez, levandosi dalla fascia una pistola a due colpi e mettendola dinanzi a sé, su un piccolo sgabello. «Ti avverto che le palle che stanno dentro queste canne ti prenderanno in pieno dietro il dorso se cercherai di fuggire».
«Vi prometto, Altezza, di esservi fedele. Non avrete da lamentarvi di me, purché non vi mostriate troppo crudele contro i miei compagni arrestati nelle paludi dei coccodrilli».
«Io non pensavo nemmeno più a loro» rispose il maharajah. «Terminata la guerra, se guerra ci sarà, saranno tutti liberi».
«Grazie, Altezza, pei miei compagni, i quali, ve lo assicuro, hanno sempre ignorato il vero scopo del loro arruolamento».
Erano giunti al bastione di Batur, che guardava verso le immense pianure del sud, coperte da vegetazione meravigliosa e di varie tinte. I venti elefanti, uno alla volta, essendo il loro peso troppo enorme, attraversarono il largo ponte levatoio gettato su un profondo fossato irto di pali aguzzi, poi, aizzati dai cornac, si misero a trottare, raggiungendo ben presto delle folte boscaglie, le quali avevano interrotto le risaie, riducendole anzi a malpartito.
Nell’India le piante si sviluppano da un momento all’altro, anche se mancano le piogge. Forse le loro radici sprofondandosi assai nel terreno, trovano degli strati d’acqua chiusi fra strati argillosi. In quindici giorni un bambù diventa alto quindici metri e grosso quasi come il corpo di un uomo, se misurato alla base; i tamarindi, i tara, i cocchi, i mindi aumentano, giorno per giorno, il volume delle loro foglie. Spaventevole è poi lo sviluppo delle piante parassite. In poche settimane invadono immense estensioni di terra seppellendo perfino i villaggi e distruggendo le piantagioni. No, il contadino indiano, quantunque favorito da un clima meraviglioso, non può essere contento perché deve dare delle continue battaglie a quelle gigantesche erbacee che mai non si arrestano. Guai se si ferma: allora è la carestia a corta scadenza, quella terribile carestia, che tutti gli anni fa morire di stenti inenarrabili più di qualche milione di abitanti, malgrado i soccorsi inglesi.
I venti elefanti, guidati sempre da Sahur, che serviva da pilota, passavano a piccolo trotto di boscaglia in boscaglia, facendo tremare il suolo sotto le loro poderose zampe, e le foglie delle piante coi loro formidabili barriti. Dinanzi a loro, presi da un pazzo spavento, fuggivano truppe di nilgò, bande di pavoni, orde di pappagalli chiacchieroni.
Un sentiero veramente non vi era, ma quei colossi, dotati d’una forza terribile, non si trovavano imbarazzati ad aprirsi un varco, spezzando, fracassando, atterrando piante parassite ed alberi che mettevano a terra a gran colpi di proboscide.
Verso il tramonto la imponente truppa giunse sulle rive d’un piccolo lago, abitato anche quello da coccodrilli che si tenevano seminascosti fra le piante acquatiche, niente affatto disposti a prendersela con quei bestioni dei quali dovevano ormai ben conoscere le potenze.