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Kitabı oku: «Il Bramino dell'Assam», sayfa 9

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Il disgraziato agitò le labbra come se volesse dire qualche cosa, poi si abbandonò come se una sincope l’avesse sorpreso. «Che muoia?» chiese il rajaputo.

«Ma che!… Le grida orribili di quei maledetti uccellacci lo faranno ritornare presto in sé. Odi? Ora muggiscono come se fossero diventati tori. Ah!… Che strani volatili!…»

«Sono furibondi, sahib» disse il cacciatore di topi. «Dài loro da bere e diventeranno tranquilli». «Acqua?… Né pel paria né pei filosofi» disse il crudele maharatto. «Finiranno per mangiarsi gli uni cogli altri per succhiarsi almeno il sangue».

«Spezzino le catene se sono capaci. Sono quelle dei molossi, e puoi immaginarti come sono solide».

Aprì la bocca mostrando due file di denti da fare invidia ad un giovane coccodrillo, poi disse: «Sento del vuoto dentro di me. Andiamo a colmarlo».

«E quest’uomo?» chiese il rajaputo, vedendo che il paria aveva riaperto l’occhio.

«Lasciamolo discorrere con Brahma o discutere coi filosofi» rispose Kammamuri, ridendo. «Oh, parlerà!… Sì, deve parlare; lo voglio, e se non confesserà, io non sarò più un maharatto. Via, a pranzo».

Attraversarono il sotterraneo, picchiando pugni sulle teste calve degli uccellacci che tentavano di farli a brani, e salirono dove si trovavano i piccoli letti da campo.

Due valletti avevano già portato due grossi canestri pieni di volatili arrostiti, di carne fredda, di ciambelle al burro, di banane e di noci di cocco ricche di fresco latte.

«Mandiamole al paria» disse il cacciatore di topi con ironia. «Deve aver fame, e una noce di cocco la sorbirebbe volentieri».

«Le vuoteremo noi» disse Kammamuri, sedendosi intorno alle ceste. «Làscialo soffrire finché si deciderà a parlare». «E tu speri sempre, sahib, che da un momento all’altro la sua lingua parli?» «Vedrai».

«Ad un simile supplizio non resisterei nemmeno io» disse il rajaputo. «Quei dannati filosofi mi hanno sfondato i timpani degli orecchi che i grossi cannoni inglesi avevano sempre rispettati». «Eppure odi ancora» disse Kammamuri, preparandosi ad assalire la colazione.

Stava tagliando una grossa anitra bramina scoperta sotto le focacce, quando Tremal-Naik comparve seguito da un giovane indiano di forse vent’anni, robusto come un battelliere del Gange e dagli occhi intelligentissimi. «Timul, il cercatore di piste!…» esclamò subito il maharatto. Guardò Tremal-Naik con un po’ di ansietà, chiedendogli: «Ci sono novità, padrone? La rhani?»

«Dorme tranquilla a fianco di Soarez», rispose il vecchio “Cacciatore di Belve feroci della Jungla Nera”. «Tuttavia Yanez è inquieto di questo prolungato magnetismo».

«Ed io non meno di lui, padrone» rispose Kammamuri. «Il miserabile paria mi ha detto che ormai la rhani sa che cosa deve fare, e che non ha più bisogno dei suoi occhi».

«Ah!… Vile sciacallo quel traditore, o meglio quell’avvelenatore, che trama contro noi tutti. Comincio ad aver paura».

«Vuoi, padrone, che gli faccia mangiare l’altro occhio da qualche arghilah? Glielo assorbirebbero come l’uovo di un uccello».

«No, non ancora. Yanez a quest’ora l’avrebbe fatto legare alla bocca d’un cannone e lo avrebbe fatto saltare ben alto in cento e più pezzi, ma io non ho voluto. Quel paria ci darà la chiave delle terribili vendette che si compiono certamente in nome di Sindhia. Quell’uomo dev’essere fuggito da Calcutta per tentare la riconquista della corona dell’Assam, che ha insanguinata non meno abbondantemente di suo fratello. M’ingannerò, ma sotto i nostri piedi vi sono delle mine pronte a scoppiare. La nostra razza, checché faccia la Young-India, non saprà mai apprezzare i benefìci della civiltà. Qui non ci vuole che fame, cholera ed esecuzioni in massa».

«Ed è il nostro male» disse Kammamuri, facendo largo al padrone ed al cercatore di piste. «Perché hai condotto Timul?» chiese, dopo tagliati i cibi. «Ho un’idea». «Quale, padrone?»

«Di recarmi allo stagno dei coccodrilli con una mezza compagnia di rajaputi, e di fare una retata di tutti quei paria che abbiamo scovato nelle cloache».

«Quegli uomini non sapranno niente, padrone» disse Kammamuri. «È il bramino che è alla testa di tutti e che sa tutto». «Chi lo sa!… Talvolta si può avere un colpo di fortuna».

Si erano messi a mangiare, serviti da due giovani valletti di bellissime forme e dai lineamenti fini che indicavano la loro discendenza dalle alte caste, facendo però più onore alle bottiglie di birra fresca ed ai banani, che al resto. Il clima dell’India non è indicato pei forti mangiatori, i quali devono ben presto rinunciare alle carni. Bevono invece molto per rimettersi dall’enorme perdita di sudore che è continua.

«Dunque tu dicevi, padrone», riprese Kammamuri, accendendo una delle sue solite sigarette di palma a tabacco rosso, «che vorresti fare una sorpresa a quei misteriosi cacciatori di coccodrilli?»

«Sì, mio caro Kammamuri, e vorrei averti in mia compagnia. Il rajaputo ed il baniano sorveglieranno, durante la tua assenza, il prigioniero».

«È che diffido terribilmente di quell’uomo e non vorrei lasciarlo nemmeno per cinque minuti».

«Se è mezzo morto!… Orsù, l’elefante favorito di Yanez, il bravo Sahur, ci aspetta alla porta del palazzo. I rajaputi sono già partiti e li troveremo sulle rive delle acque morte». «Come vuoi, padrone». «D’altronde torneremo assai presto». «Prima di sera?» «Lo spero».

«Andiamo, padrone. Veramente sarei anch’io curioso di sorprendere quei misteriosi individui, diventati cacciatori di coccodrilli forse per non essere inquietati, giacché sono dei benemeriti». «Lo vedremo se lo saranno realmente» disse Tremal-Naik. Si erano alzati, dopo d’aver vuotato un ultimo bicchiere di birra.

«Non perdete d’occhio un solo momento il prigioniero» disse Kammamuri al cacciatore di topi ed al rajaputo. «Conta su di noi, sahib» risposero i due valorosi.

«Soprattutto non dategli né da bere né da mangiare. I vostri pugni poi, per ora, lasciateli in riposo».

Prese le sue pistole e seguì Tremal-Naik attraverso gli immensi saloni del palazzo reale. Timul, il cercatore di piste, li accompagnava. Dinanzi al gran portone, sorretto da dodici colossali colonne di pietra verde, Sahur, il bravo elefante, cominciava a dare segni d’impazienza, lanciando, di quando in quando, un formidabile barrito che si ripercuoteva come un colpo di tuono entro le spaziose sale del palazzo.

Il cornac aveva gettata la scala di corda, poi aveva ripreso il suo posto fra gli orecchi del pachiderma. I tre uomini salirono sulla cassa, riparata da una leggiadra cupoletta dorata, irta di grosse foglie di banani, per attenuare il calore che in quel momento avvampava intenso, avvicinandosi il mezzogiorno. «Quando sono partiti i rajaputi?» chiese Tremal-Naik al cornac. «Da circa un’ora». «Va bene, giungeremo in buon punto. Lancia Sahur».

CAPITOLO NONO: L’INCENDIO DEL PALAZZO REALE

L’elefante, udendo il fischio ben noto del suo conduttore, trombettò allegramente, poi si slanciò ad un mezzo trotto attraverso le ampie vie della capitale.

Essendo mezzogiorno, ben poche persone si trovavano ancora sulla porta delle loro case, quasi nessuna poi nel mezzo, per non prendersi un colpo di sole, sicché Sahur poteva correre finché voleva ed aumentare sempre, senza correre pericolo di travolgere sotto le enormi zampe qualche disgraziato. Tremal-Naik, Kammamuri ed il giovane cercatore di piste, si erano ben accomodati dentro l’haudah, accendendo le loro sigarette e facendosi vento con dei grandi ventagli di foglie di mangifere artisticamente intrecciate. Sahur aumentava sempre, attraversando piazze immense e vie infinitamente lunghe, percosse da un sole implacabile. Non temeva il caldo il bravo elefante, anche perché il suo conduttore gli aveva spalmata per bene l’enorme testa con del grasso appena disciolto.

Con un ultimo slancio attraversò il ponte levatoio del bastione d’occidente e si gettò in aperta campagna, non badando a passare attraverso a splendidi campi di jorwar, che producono una specie d’orzo assai apprezzato dagli indiani. Essendo l’elefante del maharajah, aveva diritto di passare dovunque, e ne approfittava per trovarsi i buoni passaggi, con grande disperazione dei contadini che lo guardavano da lontano, senza osare però di protestare. Cantavano le grosse cicale, cantavano i grilli, ed i cani selvaggi urlavano in lontananza, in caccia forse di qualche disgraziato nilgò, un bellissimo antilope che si lascia troppo sovente sorprendere da quei temibili cacciatori fra gli altissimi kalam, dove crede sempre di essere al sicuro. Fra i rami delle gigantesche piante, ricche di fogliame quasi mostruoso, torme di pappagalli dai mille colori gridavano a squarciagola, soffocando i lievi e dolcissimi gridi delle bianche tortore e le strida rabbiose dei bulbul, i rossignoli lottatori, graziosi volatili che hanno le penne picchiettate in modo vago e la coda rosseggiante, e sulla testa un ciuffettino di penne mobili che dà loro un’aria provocante.

Sono i più coraggiosi uccelli, quantunque grossi appena come un pugno, e per la bella rossignola, che sta a guardarli si uccidono ferocemente a colpi di becco. Tanto peggio per il vinto, ma sovente anche il vincitore non va a nozze e cade svenato a mezza aria, lasciandola subito vedova.

La campagna diventava rapidamente deserta, poiché intorno alla capitale non si estendevano che dei vasti bacini, alimentati da un canale deviato dal Brahmaputra e pieni di formidabili coccodrilli dal muso corto e la mascella triangolare che li fa classificare fra gli alligatori, e che sono avidissimi della carne umana e di quella canina. Qualche gruppetto di capanne però, che avevano i tetti coperti di pavoni roteanti intorno alle femmine, appariva ancora, poi la palude coltivata in parte a risaia cominciava.

Sahur oppresso dal caldo intenso, aveva rallentata la corsa furiosa di prima, però manteneva ancora un galoppo serrato che faceva provare ai tre uomini un senso di sballottamento, come dentro un canotto in balla delle onde, con beccheggio e rollìo in piena regola.

Si era slanciato su un largo argine di terra ben battuta, fiancheggiato da canali ingombri di jihl, una specie di loto che cresce nelle acque poco profonde e che produce delle grosse rape assai ricercate dagli indiani i quali le raccolgono con un rastrello di ferro. Marabù, corvi, arghilah, nibbi, bozzagri e grosse bande di cicogne volteggiavano sopra quei vegetali sempre in cerca di qualche cadavere. Ad un tratto il cornac arrestò, con un grido stridente, Sahur. «Che cosa c’è adunque per fermarci qui?» chiese Tremal-Naik. «Vedo i rajaputi, sahib».

«Che gambe hanno quegli uomini! Se sono famosi cavalieri sono pure anche famosi fantaccini. Dove sono?» «Guardali, sahib: passeggiano sulle rive delle acque morte».

L’indiano, Kammamuri e Timul si erano rapidamente alzati. Dinanzi a loro si estendeva una palude fangosa, assai puzzolente, piena di erbe acquatiche e molto vasta. Nubi infinite di uccelli volteggiavano sopra, mandando lunghi fischi. Erano oche, più grosse delle nostre e col collo assai più lungo, ed anitre bramine dalle carni squisite.

«Sahib» disse il cornac. «L’argine è finito e dovrete scendere. Non oso lanciare Sahur attraverso la palude che può nascondere delle sabbie mobili ed inghiottirlo insieme a noi».

«Vedi degli uomini occupati a pescare, Kammamuri?» chiese Tremal-Naik al maharatto.

«Sì, padrone, trenta o quaranta persone frugano audacemente le piante degli jihl, non so se per cercare i tuberi o dare addosso ai coccodrilli». «Non vi è che un argine solo che conduca sulla terra ferma?» «Sì, padrone, quello che finisce qui». «Timul, getta la scala».

Il cercatore di piste fu pronto ad obbedire, e tutti, meno il cornac, scesero sulle rive delle acque morte.

Avevano prese le loro grosse carabine e le loro pistole a doppia canna, ed anche qualche bottiglia di birra, non potendo fidarsi di bere negli stagni avvelenati dai cadaveri che gli indiani vi abbandonano, colla vaga speranza che vadano a finire nel sacro Gange e di là direttamente nel nirvana, il paradiso indiano.

Cinquanta rajaputi, tutti ben barbuti e di forme atletiche, armati di lancia anche se non erano a cavallo e di molte armi da fuoco, a poco a poco avevano circondato lo stagno, tagliando completamente la ritirata ai misteriosi individui che abitavano le cloache e che cacciavano coccodrilli.

«Sono presi nella rete» disse Kammamuri a Tremal-Naik. «O dormire in piedi nelle acque fangose, coi caimani alle costole, od arrendersi». «Come vedi ho avuto ragione di fare questa battuta».

«Sì, padrone, ma io penso sempre al prigioniero. È il mio incubo, te lo assicuro. Si direbbe che è riuscito a magnetizzare anche me». «Un maharatto!…» «Io ho paura di quegli occhi». «Non ne ha che uno». «E forse quello sarà ora più terribile».

«Che io, Kammamuri, sia tranquillo, non te lo posso dire. Mi pare che noi camminiamo come sopra una polveriera pronta ad esplodere».

«Io non so, padrone, ma da qualche tempo mi pare che gli abitanti della capitale non siano più rispettosi come un tempo verso il maharajah e la piccola rhani».

«L’ho osservato anch’io» rispose Tremal-Naik, la cui fronte si era corrugata. «Qui sotto vi è la mano di Sindhia. Che cosa vuoi? Noi indiani preferiamo un principe tiranno ad un principe buono e leale. Sentiamo la forza dei rajah».

Si erano inoltrati sull’ultimo tratto della diga, ed avevano raggiunti i rajaputi i quali, vere salamandre, sfidavano intrepidamente la pioggia di fuoco, fumando qualche sigaretta, infischiandosene dei miasmi che salivano dalle acque morte e che dovevano essere carichi di febbre e fors’anche di cholera. Tremal-Naik abbordò il comandante della mezza compagnia e gli disse:

«Avrai doppia paga tu ed anche i tuoi uomini purché non mi lasciate scappare i cacciatori di coccodrilli».

«Nessuno passerà fra le nostre file, sahib» rispose il rajaputo. «Ormai abbiamo occupati tutti i passaggi, e se vorranno tornare in città li prenderemo». «Non credi che si difendano?»

«Non hanno che degli arpioni, sahib, le armi meglio adatte per cacciare quei brutti rettili». «Ne hanno già presi?»

«Mi pare che quelle persone vengano qui per prendere qualche bagno e uccidere ben pochi coccodrilli» rispose il rajaputo. «Ma sono persone assai sospette, te lo dico francamente, sahib».

«Sono gli stessi individui che noi abbiamo scovati nelle cloache della città» disse Tremal-Naik. «Che cosa dobbiamo fare, sahib? Aprire il fuoco su quella gente?»

«Tu corri troppo, mio caro, non siamo alla guerra. Prima invitiamoli a presentarsi dinanzi a noi. Se rifiuteranno, prenderemo qualche altra misura». «Se vuoi mando alcuni uomini dentro le erbe acquatiche».

«Vi devono essere qui troppi coccodrilli pronti a strappare qualche gamba. Vedrai che quei paria, poiché devono essere tali, si decideranno a raggiungere la riva. Fa’ star zitti i tuoi uomini».

Poi fece con ambo le mani una specie di portavoce, e con quanta voce aveva nei polmoni gridò ai cacciatori o pescatori che fossero, poiché oltre gli arpioni avevano anche delle piccole reti: «Prendete subito terra: ordine della rhani e del maharajah».

I paria, che fino allora avevano fatto finta di non accorgersi della presenza dei rajaputi, continuando a frugare entro le altissime erbe acquatiche, udendo quel comando gettarono in ispalla arpioni e reti e si raccolsero intorno ad un vecchio, magro come uno scheletro, vestito d’un semplice straccio tutto buchi e strappi. «Rispondete o dò l’ordine ai miei uomini di aprire il fuoco».

A quella minaccia il vecchio si staccò rapidamente dai compagni, salì su una lingua di terra che conduceva alla riva, e giunto a buona portata di voce pei suoi polmoni sfiatati, disse: «Che cosa vuoi tu da noi, sahib?» «Arrestarvi tutti» rispose Tremal-Naik, con voce risoluta.

«Noi siamo dei poveri pescatori che non hanno mai fatto male a nessuno» rispose il vecchio.

«Siete gli stessi uomini che noi abbiamo inseguiti attraverso le cloache. Osereste negarlo?»

Il vecchio era rimasto silenzioso guardando i suoi pescatori i quali, spaventati dalla minaccia di dover subire delle scariche, a poco a poco si accostavano pure alla lingua di terra.

«Ebbene, aspetto la tua risposta» gridò Tremal-Naik, facendo colla carabina un gesto minaccioso.

«Tu non ti sei ingannato, sahib» rispose finalmente il vecchio. «Noi non sapevamo più dove andare a dormire, e alla sera, per paura delle tigri, ci rifugiavamo nelle cloache portando i prodotti della nostra caccia e della nostra pesca».

«Accòstati coi tuoi uomini prima che ordini il fuoco, poiché il maharajah è ben deciso a sapere chi siete voi e da dove venite». «Obbediamo, sahib».

I paria si incolonnarono portando con loro un enorme coccodrillo, lungo più di sette metri, che era stato ucciso a colpi d’arpione. Il vecchio fu il primo a raggiungere la riva, e sua prima cosa fu di offrire a Tremal-Naik la sua rete la quale era piena di pesci di una specie affatto particolare, colla pelle nera e viscosa, la testa quadrata quasi come quella di un rospo, con due lunghe membrane scorrenti dalle due parti del corpo.

Quei pesci strani che rassomigliano assai nell’aspetto agli ascolott che popolano i laghi messicani, sono assai numerosi nelle acque stagnanti dell’India, e sono anche assai ricercati, essendo la loro carne gustosa e delicatissima.

«Tieni pure per te, vecchio» disse Tremal-Naik. «Io non voglio derubarti dei risultati delle tue fatiche».

«Tu sei troppo onesto, sahib. Al tuo posto un altro ci avrebbe preso anche il coccodrillo e tutte le cipolle d’jihl che a noi servono di pane, non avendo mezzi per comperarcene».

«Anche i tuoi uomini serbino pure i prodotti della caccia e della pesca, però devono venire con noi, fra i rajaputi, al palazzo della rhani». «Tutti arrestati?» «Per ora sì». Il vecchio fece un gesto di terrore e guardò fissamente Tremal-Naik. «Non ci condurrai alla morte?» chiese poi. «Il maharajah non ha ammazzato ancora nessuno di voi».

«Ed il bramino? Noi non lo abbiamo più veduto tornare fra noi, quindi abbiamo le nostre buone ragioni di credere alla sua morte». «T’inganni, vecchio: quell’uomo è sempre vivo». «E non ha parlato?»

Le parole gli erano ormai sfuggite di bocca, e tutti le avevano udite distintamente.

Tremal-Naik gli posò una mano sulla spalla, e scuotendolo rudemente gli chiese: «Perché deve aver parlato?»

«Non so» rispose il paria, mordendosi le labbra. «Credevo che avesse avuto qualche cosa da dire al maharajah, e si vede che mi sono ingannato».

«No, mio caro» disse Kammamuri, piombandogli addosso. «Tu ti sei tradito, e noi questa volta riusciremo a sapere qualche cosa su quel famoso bramino che si diverte ad avvelenare i ministri del maharajah». «Che cosa vuoi dire tu, sahib?» chiese il vecchio, con voce alterata.

«Che dai rajaputi farò scovare un coccodrillo, lo farò spingere colle lance o coi vostri arpioni fino qui, e vedremo come quei rettili gustano la carne dei paria».

«Tu vuoi farmi divorare vivo? Io sono un povero vecchio che non ha che pelle tesa sulle ossa».

«I coccodrilli si contentano anche di meno quando hanno fame, e la fame la patiscono tutti i giorni dell’anno». Poi, volgendosi verso Tremal-Naik continuò:

«Padrone, fammi condurre qui uno di quei bestioni, ma che sia vivo e ben grOSSO».

«Manderò questi paria a cercartelo. Hanno più pratica dei rajaputi in questi affari». «Andranno poi?»

Tremal-Naik fece schierare la mezza compagnia dinanzi ai pescatori e disse ad alta voce:

«Se fra dieci minuti questi miserabili non ci portano un caimano vivo, vi lascio liberi di fucilarli come persone pericolose». Il vecchio fece un gesto.

«È inutile» disse. «Non se ne trovano ormai più in queste acque stagnanti. Noi li abbiamo distrutti tutti e l’ultimo, che era il più grosso ed il più pericoloso, noi l’abbiamo preso questa mattina per tempo, quando era ancora addormentato. D’altronde se vuoi sapere da me qualche cosa, sono pronto a parlare, poiché ormai ci tengo ben poco alla mia magra carcassa».

«Vieni allora con noi sul nostro elefante ed ordina ai tuoi uomini di non tentare nessuna fuga. Tu sai che i rajaputi sono buoni tiratori».

«Tu però, sahib, mi prometti di non farli trucidare entro qualche cortile del palazzo della rhani?» «Hai la mia parola».

Si cacciò fra i suoi uomini, i quali ormai erano stati circondati strettamente dai barbuti guerrieri, disse loro alcune parole, poi raggiunse Tremal-Naik, Kammamuri ed il cercatore di piste, i quali erano impazienti di rimontare su Sahur e di fare ritorno alla capitale. Si sarebbe detto che presentivano un qualche grosso disastro.

Il cornac aveva già dato da mangiare abbondantemente all’enorme bestione, gettandogli dinanzi fasci e fasci di rami di bar, di pipal mescolati a certe erbe palustri, grosse come una lama di sciabola, chiamate dai botanici, typha elephanrina. «Siamo pronti?» chiese Tremal-Naik.

«La mia bestia non domanda che di trottare, sahib» rispose il cornac, gettando la scala.

Kammamuri fece passare prima il vecchio paria, dopo averlo disarmato d’un vecchio pistolone coperto di ruggine che difficilmente avrebbe potuto sparare un colpo su cinquanta, e gli si mise accanto tenendolo per una mano. Tremal-Naik e Timul si erano seduti di fronte al prigioniero.

In lontananza i rajaputi cominciavano a muoversi, a passo ginnastico, stringendosi ben addosso ai pescatori; però, data la distanza, non dovevano rientrare nella capitale che a notte assai inoltrata. Sahur aspirò abbondantemente l’aria che cominciava a diventare fresca, cacciandone quanto più ne poteva nei suoi giganteschi polmoni, lanciò il suo solito barrito e partì a mezzo trotto, rifacendo esattamente la via percorsa.

«Ora che siamo soli, amico», disse Tremal-Naik al vecchio, offrendogli un bicchiere di birra perché la lingua gli si sciogliesse meglio, avendo portate con sé bottiglie in abbondanza, «spero che mi dirai qualche cosa su quel misterioso bramino. Chi è? Da dove viene? Perché si è messo alla vostra testa? Quali ordini vi ha dati? Di preparare altri veleni pei ministri della rhani?» «Tu ti sei ingannato, sahib» disse il vecchio. «Quell’uomo è un paria come me». «Finalmente!…» esclamarono ad una voce Tremal-Naik e Kammamuri. «Noi veniamo dal Bengala e non siamo che dei venduti». «Spiègati meglio» disse Tremal-Naik sobbalzando.

«Un uomo ha pagato, senza lesinare, il preteso bramino perché ci guidasse nella capitale dell’Assam».

«Non vorrai dirmi già che vi manda a sterminare i topi delle cloache ed i coccodrilli delle acque morte». Sulla fronte rugosa del vecchio passò come una nube, poi disse:

«Guardatevi da quell’uomo: è il più potente magnetizzatore che io abbia conosciuto. I suoi occhi posseggono una potenza incredibile, anzi, terribile». «Chi lo ha mandato qui?» «Lui solo lo sa, poiché l’uomo che ci ha arruolati non l’abbiamo veduto».

«Non sarebbe Sindhia, l’ex rajah dell’Assam, che si trovava rinchiuso in un ospedale di pazzi di Calcutta a spese della rhani?»

«Io ho udito una sera questo nome sfuggire dalle labbra del bramino, o meglio del nostro capo. Aveva bevuto molto vino di palma e chiacchierava come un chachiuni». «E diceva?» incalzò Tremal-Naik. «Che la rhani ed il maharajah, fra non molto, avrebbero perduta la corona».

«Se non siete che in quaranta, mentre la rhani può gettarvi contro cinquemila rajaputi!»

«E sai tu, sahib, quanti ce ne sono dietro di noi che si avanzano a piccoli gruppi verso questi paesi, tenendosi sempre nascosti nelle foreste e vivendo forse solamente di orzo crudo o di banani? Io non so, ma temo che la rhani debba passare un brutto momento». «Se ha la popolazione fedele!…» Un risolino misterioso comparve sulle labbra del vecchio. «Chi può assicurarlo?» disse poi.

«Per Giove, come dice Yanez!…» gridò Tremal-Naik. «È una insurrezione che Sindhia prepara a nostra insaputa?» «Io non lo so, poiché non ho mai parlato coll’ex rajah». «Ecco una giornata ben guadagnata, padrone» disse Kammamuri.

«Lo credo anch’io. Se aspettavamo che parlasse il bramino, avremmo perduta tutta la nostra pazienza senza avere ottenuto nulla».

«Adagio, padrone: io conto sempre su quell’uomo, e ti dico che da lui sapremo ben di più».

«Si lascerà piuttosto morire di fame, di sete e di sonno» disse Tremal-Naik. «Questa gente, sempre alle prese colla miseria, e da tutti disprezzati, non ci tengono affatto a prolungare la loro esistenza, poiché sperano che dopo morti una nuova e migliore trasformazione avvenga nei loro corpi. «Io ti dico che cederà».

«Vedremo, ma se vuoi, scommetto due luccicanti mohr (monete d’oro che valgono quaranta lire l’una, ossia sedici rupie)». «Che non parlerà?» «Che non sapremo nulla da lui». «Accetto, padrone, e perderai».

«Poco di male» disse Tremal-Naik, sorridendo. «Ne perderei volentieri anche cinquecento, pur di sapere che razza di vulcano sta per aprirsi sotto i nostri piedi».

Il sole era tramontato in mezzo ad una grossa nuvola fiammeggiante, e le tenebre scendevano, con rapidità fulminea, come una volata di corvi. La luna però cominciava ad occhieggiare fra le altissime piante preparandosi ad illuminare la campagna, con grande divertimento dei grilli, dei grossi batraci e dei cani volanti. Una fresca aria cominciava a soffiare dalle alte montagne del settentrione, disperdendo rapidamente l’intenso calore accumulato dall’astro diurno.

Sahur affrettava lanciando, di quando in quando, un lungo barrito e dondolando la gigantesca testa, Aspirava l’aria con un fragore di tuono e la proiettava verso il suo conduttore per rinfrescarlo.

I rajaputi coi loro prigionieri già da tempo erano scomparsi. Per quanto corressero non potevano certo lottare colla marcia d’un elefante. Già la capitale, illuminata dai primi raggi dell’astro notturno, cominciava ad apparire, quando su uno dei bastioni rimbombò improvvisamente un colpo di cannone. Tremal-Naik e Kammamuri si erano alzati di scatto, guardandosi l’un l’altro con viva inquietudine. «Che sia già scoppiata la rivoluzione?» si chiese il primo.

«Così presto, padrone? Io non credo che gli arruolati di Sindhia siano già giunti. Abbiamo una polizia pessima, tuttavia non avrebbe mancato di accorgersi dell’arrivo di tanta gente venuta non si sa da dove, e probabilmente non armata che di arpioni e di reti». «Toh!… un secondo colpo!…» «Non odo però nessun fragore di moschetteria né di…» Si era bruscamente interrotto, poi aveva mandato un gran grido.

«Brucia qualche gran palazzo o qualche pagoda nella città. Si dà l’allarmi per chiamare aiuti». «Dove?» chiese Tremal-Naik, colpito da un sinistro presentimento. «Non lontano dal palazzo della rhani, mi pare. Guarda, padrone, guarda!…»

Proprio verso il centro della capitale, dove sorgevano i grandiosi palazzi dei dignitari e le magnifiche pagode, una immensa nube di fumo si era alzata, oscurando la luce, ed era attraversata da immensi fasci di scintille che il vento notturno portava attraverso il cielo come se fossero stelle.

«Cornac!…» gridò Tremal-Naik. «Lancia a gran corsa Sahur!… Un disastro ha colpito la città, e noi vogliamo prendere parte almeno al salvataggio delle vittime».

«Ho veduto, sahib» disse il conduttore, con voce un po’ commossa. «E so anche che cosa brucia. I miei occhi non devono ingannarsi». «Che cosa? Rispondi subito». «Il palazzo del maharajah». «Non t’inganni tu?»

«No, sahib, il cornac non s’inganna» disse Timul, il giovane cercatore di piste, il quale si era pure alzato guardando con estrema attenzione.

«Un altro tradimento!…» gridò Tremal-Naik, impallidendo. «Affretta!… Affretta!…»

«Siva non voglia che bruci anche il prigioniero» disse Kammamuri. «Mi getterò dentro la fornace, e vivo o moribondo lo porterò con me. Via, cornac!… Via!…»

Sahur, percosso replicatamente e piuttosto brutalmente dall’arpione d’acciaio, si era slanciato a corsa sfrenata, sballottando orribilmente gli uomini che occupavano la cassa. Correva più d’un cavallo spinto a gran galoppo, allargando le sue enormi zampacce per conquistare maggior terreno ¦ respirando fragorosamente.

Ormai non distava che qualche chilometro dal bastione meridionale, dove si trovava il gran ponte levatoio.

Tremal-Naik, Kammamuri ed anche Timul, in preda ad una vera angoscia, tenevano gli occhi fissi sulla grossa nuvola fumigante che cominciava già a tingersi di rosso. Il venticello notturno, abbastanza forte, l’allargava, poi la richiudeva bruscamente come se fosse stata una immensa vela, facendo schizzare in alto continui getti di scintille. Già una luce sinistra illuminava il cielo, fugando le tenebre. La luna, dinanzi a quel chiarore intenso pareva che si fosse nascosta come se avesse avuto paura di bruciarsi i famosi occhi, il non meno famoso naso e la vasta bocca.

In pochi minuti Sahur, che aumentava sempre la corsa, obbediente alle pressioni del suo conduttore, giunse sul ponte levatoio che attraversò di gran volata, a rischio di travolgere i rajaputi che erano a guardia del bastione.

Dal centro della città si alzava un gridio assordante, confuso con rulli di tamburi e di campane. Della gente passava a gran corsa a fianco dell’elefante, agitando disperatamente le braccia, ed invocando a gran voce le due supreme divinità dell’India. «Che cosa brucia?» chiesero Tremal-Naik e Kammamuri. «Il palazzo della rhani» risposero quegli uomini rimanendo subito indietro. Un’orribile imprecazione sfuggì a Tremal-Naik.

«Sì, un nuovo tradimento è stato compiuto durante la nostra assenza. Non avrei dovuto, in questi momenti, abbandonare Yanez».

«E forse anche in questo entra la mano del bramino» disse Kammamuri coi denti stretti. «Se è laggiù, legato nel sotterraneo!» «So io, padrone, quello che voglio dire».

L’incendio intanto pareva che assumesse proporzioni spaventose. Non era più fumo che saliva in alto, erano terribili lingue di fuoco lunghe molti metri, che si contorcevano colle selvagge contrazioni dei cobra-capello in furore. Sahur però affrettava sempre, costringendo la gente che si rovesciava nelle strade a stringersi contro i muri delle case e rifugiarsi dentro i portoni. «Largo!…» non cessava di gridare il cornac. «Servizio della rhani!…»

E tutti obbedivano prontamente, lasciando il passo libero al gigantesco pachiderma lanciato ad un galoppo impressionante. Era già giunto nel centro della città e minacciava di fare un vero massacro di gente, poiché tutti i vasti viali che conducevano al palazzo reale erano gremiti di rajaputi, di guardie di polizia e di cittadini che accorrevano tutti al salvataggio.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
230 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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