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Kitabı oku: «Il Bramino dell'Assam», sayfa 10

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Il palazzo della rhani ardeva, ma essendo costruito quasi interamente in pietra, le fiamme non trovavano alimento che nei mobili che divoravano con rapidità spaventosa. E tuttavia da tutte le finestre uscivano getti di fumo e di scintille e bagliori sempre più intensi. I solai, che erano in legno e che contenevano le provviste della corte, dovevano pure aver preso fuoco minacciando i tetti. Di quando in quando si udivano dei rombi causati certamente dalle botti piene di liquori che il fuoco faceva scoppiare come se fossero bombe.

Sahur si era arrestato dinanzi al palazzo fiammeggiante, intorno al quale lavoravano già febbrilmente, quantunque con scarso successo, data la imperfezione delle pompe vecchie di vent’anni, pompieri, soldati della guardia del maharajah e popolani.

«Largo!…» gridò un’ultima volta il cornac, con voce poderosa. «Servizio della rhani».

Così aveva potuto aprirsi un adito fra la folla che già cominciava ad indietreggiare dinanzi ai torrenti sempre più grossi di scintille che mordevano la carne viva.

Dov’era Yanez? Dov’erano la rhani ed il piccolo Soarez? Fra quella enorme confusione e fra tutta quella gente che ondeggiava, pel momento era impossibile saperlo.

Kammamuri, senza nemmeno occuparsi del suo padrone, gettò la scala di corda, la scese a precipizio, fendette impetuosamente la folla urlando come un dannato, e si lanciò dentro il vasto portone dal quale uscivano, come se spinte da un terribile vento d’uragano, nembi di fumo e faville. «Il prigioniero!… Il mio prigioniero!…» gridava.

Cominciavano a cadere i tetti con immenso fragore, minacciando di travolgere nella rovina anche i piani inferiori, ma Kammamuri era deciso a tutto. D’altronde era sicuro che nel sotterraneo il fuoco non fosse ancora giunto. Il fumo sì, forse.

Si era slanciato a gran corsa, turandosi la bocca con un fazzoletto di seta per non respirare quell’aria pestifera, e stava per discendere la scala quando urtò impetuosamente contro due uomini. Uno era il cacciatore di topi, l’altro l’erculeo rajaputo il quale sulle robuste spalle portava il paria già mezzo asfissiato dal fumo che era giunto fino nei sotterranei.

«Giungi a tempo, sahib!…» gridò il baniano. «Se tardavi un quarto d’ora, morivamo tutti insieme ai filosofi». «È ancora vivo il prigioniero?» chiese ansiosamente il maharatto. «Lui sì, ma i tuoi dannati uccellacci, sahib, sono morti tutti».

«Ne troveremo delle migliaia!… Via, prima che il palazzo ci cada sulla testa!…»

Le vampe erano ormai padrone dell’immenso fabbricato, e non battute che da pochi deboli getti d’acqua, cominciavano perfino a calcinare i marmi. Si udivano già, in alto, le pareti precipitare sui pavimenti con un fracasso infernale.

Kammamuri, il cacciatore di topi ed il rajaputo, che portava sempre il prigioniero, tenendolo ben stretto pei polsi, attraversarono a corsa disperata una grossa nuvolaglia di scintille e si gettarono giù dalla gradinata, dinanzi alla quale Sahur barriva spaventosamente, tentando di scappare, malgrado le dolci parole del suo conduttore.

«Porta il paria nella cassa, a fianco di quel vecchio che Timul sorveglia, e che è un altro paria» disse Kammamuri al rajaputo.

«È un affare da poco «rispose l’ercole, aggrappandosi alla scala, mentre il baniano lo spingeva. «Non lasciartelo fuggire». «Piuttosto lo uccido con una pistolettata».

«D’un morto non saprei più che cosa farne. Ritiratevi fino sulla gran piazza del Mogol ed aspettatemi là. Io devo cercare il mio padrone ed il maharajah colla piccola rhani ed il figlio».

Non aveva bisogno di gridare che gli si facesse largo, poiché il maharatto era noto a tutti e godeva anzi una grande popolarità fra gli abitanti. Vedendo un grosso gruppo di rajaputi che si affannavano a far funzionare le sgangherate pompe, si diresse a quella volta e s’imbatté in Tremal-Naik il quale andava in cerca dell’elefante. «Il signor Yanez, padrone?» chiese con voce soffocata il maharatto. «È salvo!» rispose Tremal-Naik. «E suo figlio?» «Salvo insieme alla sua nutrice, ma la rhani è misteriosamente scomparsa». «Vuoi spaventarmi, padrone?» «Non sarebbe questo il momento». «È stata divorata dal fuoco?»

«No, no, perché è stata la prima a lasciare il palazzo. Molte persone l’hanno veduta». «E dov’è andata? Che l’abbiano rapita?»

«Andiamo a trovare Yanez. Ormai è inutile tentare di salvare il palazzo. Fra un paio d’ore tutto crollerà».

CAPITOLO DECIMO: IN CERCA DELLA RHANI

Purtroppo l’incendio ormai si era reso completamente padrone dell’imponente e magnifico palazzo dei rajah dell’Assam e pessimamente combattuto da quella decina di pompe sgangherate (che ogni momento cessavano di funzionare, avendo i tubi tutti crivellati forse dai denti dei topi, la piaga dell’India) divorava con maggior furore alimentato dal vento notturno che scendeva dalle non lontane montagne. Se le poderose muraglie di pietra ed i due piani inferiori resistevano, i tetti, le gallerie tutte in legno di palissandro, ed i piani superiori in legno di rosa, bruciavano allegramente, lanciando verso il cielo fiamme spaventevoli.

Ormai i rajaputi, la polizia, la folla, scoraggiati per l’inutilità dei loro sforzi e spaventati dai continui turbini di scintille che uscivano dalle finestre e che si rovesciavano nelle vie mordendo le carni nude degli indiani, avevano rinunciato alla lotta. Solamente verso un angolo del palazzo, dove si trovavano gli appartamenti della rhani, le pompe funzionavano ancora bene o male, ed i rajaputi stesi in grandi catene non cessavano di passarsi grossi secchi d’acqua che poi venivano vuotati dentro la gigantesca fornace.

Tremal-Naik e Kammamuri trovarono il portoghese fra le pompe, coll’eterna sigaretta fra le labbra. Nemmeno la distruzione del suo palazzo lo avevano trattenuto di mescolare alcune boccate di fumo profumato a quello nero e fetente che le finestre vomitavano senza posa. Appariva però estremamente nervoso, Andava, veniva, tornava, lanciando ordini, poi si arrestava, come se tutta la sua straordinaria energia si fosse spezzata. Certamente pensava alla scomparsa di sua moglie, della piccola rhani.

«Ohe, Yanez, amico mio» gli disse Tremal-Naik. «Non ti ho veduto mai così agitato, nemmeno quando combattevi aspre battaglie colla morte dinanzi». Il portoghese gettò via rabbiosamente la sigaretta poi disse: «Capirai: si tratta di mia moglie». «Entro il palazzo non è rimasta?»

«No, te l’ho già detto; è stata veduta uscire pochi minuti prima che scoppiasse l’incendio». «Ma tu non la sorvegliavi?»

«I ministri mi avevano fatto chiamare per importanti affari di stato. Al diavolo tutti gli stati e tutte le loro ruote, che già non funzioneranno mai come vorrebbero i popoli».

«Che sia stata rapita, signor Yanez?» chiese Kammamuri, mentre una superba loggia crollava con immenso fracasso, sollevando turbini di scintille.

«No, io credo che abbia obbedito a qualche ordine dell’uomo che l’ha ipnotizzata».

«Noi sapremo cercare le sue tracce, signor Yanez. Abbiamo Timul sempre con noi».

«Lo so, ed è per questo che non sono troppo impressionato» rispose il portoghese. «È inutile ormai che noi restiamo qui. Lasciamo che il fuoco divori tutto quello che è divorabile ed andiamo a occupare la palazzina di Rampur dove già si è rifugiata la nutrice con Soarez, sotto buona scorta, per impedire qualche altra sgradita sorpresa. Noi, miei cari, navighiamo in mezzo a mille scogliere traditrici».

«Lo sappiamo meglio di te» disse Tremal-Naik. «Abbiamo catturato il capo dei paria che occupavano le cloache, e quello ha già cominciato a parlare». «Ed il bramino è morto arrostito?»

«Oh, no, signor Yanez» disse Kammamuri. «Siamo riusciti ancora a salvarlo. Non sono morti che i filosofi». «Ancora vivo!… Dov’è quella canaglia? Bisogna che lo uccida».

«Ora meno di prima, se vuoi sapere quali sono le persone che avvelenano i tuoi ministri, e che si preparano a strappare la corona alla rhani. Tu, Kammamuri, conduci i due prigionieri nella palazzina di Rampur. Assisteremo ad un confronto emozionante. Vedo che hanno salvato un ratt coi suoi zebù e non tarderemo a raggiungerti».

«Sì, padrone» rispose il bravo maharatto, allontanandosi a gran corsa per raggiungere Sahur.

Una vettura, dalla cupoletta d’oro, tirata da quattro buoi trottatori, era stata salvata insieme con un gran numero di elefanti che occupavano il parco e che i loro conduttori, vedendo le prime scintille, si erano affrettati ad allontanare.

Si trattava di venti pachidermi fra coomareah e merghee, tutti ammaestrati per le cacce ed anche per la guerra, e che valevano da soli, una volta lanciati, meglio d’un reggimento di rajaputi. Yanez diede un ultimo sguardo al suo palazzo fra le cui mura, colla piccola rhani, aveva passato giorni pieni d’infinita felicità, e che ora il fuoco continuava a divorare, e salì sul ratt insieme a Tremal-Naik. «Alla palazzina di Rampur!…» gridò al conduttore. «Fa’ galoppare!…

Non occorreva che glielo dicesse. Gli zebù, punzecchiati a sangue dal lungo pungolo presero una corsa indiavolata, cercando di raggiungere Sahur il quale ormai, colle sue immense zampacce, aveva avuto subito un tale vantaggio da non scorgerlo più. Solamente in distanza si udivano, di quando in quando, i suoi barriti, che però si affievolivano rapidamente. La folla che ingombrava ancora le vie, si apriva subito dinanzi al ricco carro del maharajah, salutando con deferenza; però quei saluti non sembravano a Tremal-Naik quelli d’un tempo. La popolazione, che aveva salutato con grandi feste la incoronazione della rhani e la cacciata di Sindhia, il pazzo alcoolico, doveva essere stata guastata da chissà quali serpenti usciti forse dalle cloache o più lontano ancora.

Non dovevano però essere rettili. Dovevano essere dei pericolosi congiurati che tramavano alla distruzione dell’impero assamese, come Yanez aveva voluto chiamarlo per impressionare maggiormente le popolazioni vicine, sempre pronte a ribellarsi.

Il ratt, in meno d’un quarto d’ora attraversò la distanza e si fermò dinanzi al villino di Rampur, dove già Sahur stava divorando un ammasso di canne da zucchero e di foglie di ficus religiosa.

Rampur era più che altro un bungalow, non molto elegante, però adatto alle esigenze del clima, con alti tetti in forma di piramide e molte oangas riparate, di giamo, da bellissime stuoie variopinte per mantenere una certa frescura. Ai due lati della costruzione principale si estendevano vaste tettoie dove già si trovavano in salvo gli elefanti sottratti al fuoco. Tutto intorno poi vi erano dei bellissimi giardini, con piante altissime e ricche d’ombra. Kammamuri, giunto prima, aspettava Yanez e Tremal-Naik insieme al cercatore di piste ed al cacciatore di topi.

«Sono al sicuro i briganti?» chiese il “Cacciatore di Serpenti della Jungla Nera”.

«Oh, sì, padrone» rispose il maharatto. «Vi è il rajaputo che veglia su di loro, e quell’uomo fa troppa paura coi suoi pugni che sembrano martelli pronti sempre a sfondare o raddrizzare pentole di rame». «Sono insieme?» «Sì, padrone».

«Andiamo a vedere queste canaglie. Se non mi diranno dove si trova la rhani li farò legare alle bocche dei cannoni. Il bramino è già vissuto troppo» disse Yanez, il quale pareva che avesse perduto la sua solita calma.

Saltarono a terra ed entrarono nel bungalow preceduti da Kammamuri, entrando subito in un salotto a pianterreno che aveva il pavimento in pietra e che era ammobiliato secondo il gusto inglese: una gran tavola d’acajù, un pianoforte, dei mobili leggeri contenenti bicchieri e liquori, e seggioloni enormi, ad alto schienale, lunghi non meno di due metri, fabbricati con legno di rotang.

Appunto su due di quei seggioloni, e ben legati, si trovavano il vecchio paria arrestato nello stagno dei coccodrilli ed il famoso bramino, ormai mezzo morto, poiché pareva che boccheggiasse. «È questo l’uomo che ha parlato?» chiese il portoghese, indicando il vecchio.

«Sì, amico» rispose Tremal-Naik. «Da lui sapremo molto di più che da quel cane che si ostina a farsi credere un bramino».

«Il nostro primo prigioniero però è quasi morente. Kammamuri, fagli inghiottire qualche cosa».

«Non certo della birra, signore. Sarebbe troppo contento il poveraccio, ma non io che ho vegliato tanto tempo su di lui».

Si avvicinò ad un elegante mobile a diversi piani, tutto pieno di bottiglie piuttosto polverose e di bicchieri, e si mise a leggere le etichette.

«Whisky» disse ad un tratto, impadronendosi rapidamente d’una bottiglia dal collo lunghissimo. «Ecco quello che occorre per galvanizzare quel moribondo».

«Che cosa fai?» chiese Tremal-Naik. «Vuoi ammazzare quell’uomo? Tanto valeva che tu lo avessi lasciato nel sotterraneo ad arrostire insieme ai filosofi».

«Ma no, padrone!…» rispose il maharatto, stappando la bottiglia. «Questo sciacallo deve avere degli intestini di coccodrillo. Vedrai come si risveglierà di colpo».

«Per addormentarsi forse poi per sempre» disse Yanez. «Stappa una bottiglia di birra, e anche se non è fresca, la manderà giù come la più deliziosa delle bevande». Il maharatto scosse la testa.

«No, no» disse poi. «Niente birra e niente acqua, bensì fuoco. Lasciate fare a me, signor Yanez, e vi assicuro che quest’uomo, anche se appena accecato dal terribile vostro pugno, non morrà. Oh!… Sono duri i paria, i più resistenti di tutti gli indiani».

Empì un lungo e sottile bicchiere di cristallo giallo e si avvicinò al bramino il quale si ostinava a tener chiuso l’unico occhio che gli rimaneva. «Bevi, amico» gli disse. «Devi aver ben sete». «Acqua… acqua… birra!…» ruggì il miserabile, aprendo la bocca. «Prendi: ingoia questo».

Il bramino, divorato dalla sete, inghiottì d’un fiato il contenuto del bicchiere, credendolo ben altra cosa. Malgrado le corde che lo tenevano ben legato ai bracciuoli, fece un soprassalto, accompagnato da una orribile smorfia. «Brucio!…» disse, con voce soffocata. «Dell’acqua!…» «Sì, subito, un secchio, se ti decidi una buona volta a parlare». «Non so… non so…»

«E allora manda giù un altro bicchiere di questo delizioso liquore» disse l’implacabile maharatto, tentando di avvicinarglielo alle labbra. Il prigioniero aveva mandato un urlo spaventoso, un vero urlo da belva, e si era rovesciato violentemente indietro, forzando le corde fino a farsele entrare nei polsi. «No!… No!…» ruggì il disgraziato.

«Ed allora, miserabile, mi dirai dove si trova la rhani!…» gridò Yanez, avanzandosi minaccioso. «Ella ha obbedito a qualche tuo comando, poiché deve trovarsi ancora sotto l’influenza del magnetismo». «La rhani… la rhani… chi è?… Dov’è?… Ah!… Mi pare di vederla!…»

«Manda giù anche questo bicchiere e la vedrai meglio» gli disse Kammamuri, avvicinandogli la leggera coppa alle labbra.

Il prigioniero l’addentò rabbiosamente e la spezzò, versandosi addosso tutto il contenuto.

«Si direbbe che quest’uomo ha nel corpo veramente l’anima d’un bramino» disse Tremal-Naik. «Una tale resistenza stupisce. E sono due giorni e due notti che non beve, col caldo intenso che fa».

«Che cosa fare?» si domandò Yanez, cacciandosi le mani nei capelli. «Io voglio che questo miserabile mi dica dove ha mandato la rhani». «Quest’uomo si lascerà morire senza dirvi nulla, Altezza» disse il baniano. «Ma credi tu che le abbia imposto di dare fuoco al palazzo e poi di andarsene?» «Sì, Altezza, poiché vostra moglie è sempre sotto l’influenza del magnetismo». «Dove le avrà imposto di andare? Dove?»

«Noi lo sapremo e ben presto, signor Yanez» disse Kammamuri. «Rimanete qui col mio padrone e col rajaputo, ed intanto interrogate il vecchio paria dalla barba bianca. Da lui saprete certamente molte cose interessanti». «E tu dove vai?»

«Mi prendo Timul ed il cacciatore di topi e torno al palazzo per seguire la pista della rhani. Prima che l’alba sorga voi saprete qualche cosa o rivedrete vostra moglie. Vegliate su questi uomini e su vostro figlio. Ho troppa paura dei tradimenti». «La palazzina è ormai già circondata da una squadra di rajaputi» disse Tremal-Naik, il quale si era avvicinato ad una finestra. «Nessuno oserà avvicinarsi, almeno per ora. Se si tratta di Sindhia, non può aver già radunate tante truppe da gettarsi sulla capitale».

«Andate» disse Yanez che si tormentava la barba, e che passeggiava furiosamente per il salotto, lanciando, di quando in quando, sguardi terribili sul bramino, il quale pareva che si fosse assopito. «Riconducetemi la rhani!… Riconducetemi mia moglie!…»

«Io seguirò le sue tracce, Altezza» disse Timul. «Voi sapete che non mi sono mai ingannato».

Si munirono di lampade, poi i tre uomini lasciarono rapidamente la palazzina montando sul ratt invece che sull’elefante.

Cinquanta o sessanta rajaputi e parecchie guardie di polizia stazionavano al di fuori, armati di carabine e di pistole. Il maharajah poteva quindi vivere tranquillo, poiché nessun uomo, fuorché i ministri, avrebbero potuto rompere la rigorosa sorveglianza. Gli zebù partirono subito a gran trotto verso il palazzo reale, il quale era ormai diventato oscuro, essendosi l’incendio spento contro le massicce pareti di pietra.

La popolazione si ritirava rapidamente, commentando la grave disgrazia toccata al maharajah ed alla rhani, sicché i buoi trottatori potevano inoltrarsi rapidamente senza pericolo di storpiare qualcuno.

«Che cosa dici tu, sahib?» chiese il cacciatore di topi a Kammamuri, il quale appariva piuttosto preoccupato. «Riusciremo noi a scoprire la piccola rhani?»

«Con Timul sì» rispose il maharatto. «Questo giovane gode forse d’un senso che noi non possediamo, e vedrai che ci condurrà al posto sicuro».

«Trovare una traccia in mezzo a delle vie polverose calpestate da centinaia di persone, mi sembra un po’ difficile».

«Timul ha seguite le tracce di non pochi pericolosi malfattori, senza mai perderle, per centinaia di miglia talvolta, ed è sempre riuscito a raggiungerli ed a farli arrestare. Come faccia io non so, come non saprei spiegarmi perché certe persone privilegiate riescano a udire i lontanissimi fragori delle acque scorrenti sotto la crosta terrestre. Sapresti scoprire tu quei torrenti sotterranei, che danno acqua in abbondanza ai pozzi?» «Io no» rispose il baniano. «E nemmeno io». «Tu dunque speri, sahib?» «Molto, ed ho anche un sospetto» disse Kammamuri. «Vuoi dire?»

«Che la rhani non abbia lasciata la città, e che si trovi più vicina a noi di quello che si potrebbe supporre. Ho un’idea fissa che ora tengo tutta per me». «Che potenza aveva negli occhi quell’uomo?» «Ho veduto che faceva perfino indietreggiare i topi affamati, quel caro bramino». «Me lo ricordo, sahib». «Ci siamo» disse in quel momento il giovane cercatore di piste.

Il ratt si era fermato dinanzi alla gigantesca porta del palazzo reale, tutta affumicata sì, ma sempre ben salda sulle sue numerose e magnifiche colonne. L’incendio ormai si era spento, non già per gli sforzi dei maldestri pompieri, bensì per mancanza di materie infiammabili. Tutti i piani superiori, tutte le gallerie, tutti i tetti erano stati distrutti, però il piano terreno era sfuggito al fuoco a causa delle sue pareti e dei suoi pavimenti di pietra. Molti rajaputi e molte guardie si aggiravano intorno al palazzo, respingendo gli ultimi curiosi, fra i quali si potevano trovare dei famosi ladri pronti ad approfittare della disgrazia.

Kammamuri fece chiamare uno dei capi della polizia e dopo aver avuto con lui un breve e rapidissimo colloquio, entrò con Timul nel vasto vestibolo grondante d’acqua per gli ultimi colpi delle pompe. «Una scarpetta sola, sahib» aveva detto il cercatore di piste.

«L’appartamento privato della rhani non ha preso fuoco, quindi invece di una troveremo anche cento babbucce».

Attraversarono correndo due immensi saloni, e giunsero alla porta del salotto di Yanez.

Le volte, in pietra, non avevano ceduto nemmeno sotto l’enorme peso dei piani superiori, però le tappezzerie delle pareti, i magnifici tendaggi, perfino i tappeti erano diventati neri e parevano come carbonizzati da un fuoco lento.

Kammamuri si precipitò attraverso le stanze private della rhani e del maharajah, regnando ancora dentro il gigantesco palazzo una temperatura da forno, e giunse nella stanza bianca. Anche là tutte le tappezzerie, ricamate in oro ed in seta, stavano per cadere ed erano diventate nere. Kammamuri aprì una grande cassa di mogano incrostata d’argento e di madreperla, vi frugò dentro per qualche momento, poi porse al cercatore di piste una scarpettina di marocchino giallo, a punta rialzata, con disegni a vari colori, chiedendogli: «Ti basta?» «Sì, sahib».

«Ora scappiamo, o cuoceremo come pagnotte. Pare proprio di essere entro un gigantesco forno».

Presero la rincorsa, però ad un certo punto il maharatto si arrestò. Si trovava sulla scala che conduceva ai sotterranei che avevano servito di prigione al bramino.

«Voglio vedere che cosa è successo degli arghilah» disse. «Un mezzo minuto ancora possiamo resistere, è vero Timul?»

«Anche cinque, sahib» rispose il giovane indiano, cacciandosi entro un sacchetto di cuoio la piccola scarpa della rhani.

Si slanciarono giù per le scale, spalancando a calci le porte di bronzo che irradiavano un intenso calore, quantunque la fiamma viva non le avesse nemmeno sfiorate, e si affacciarono al secondo sotterraneo.

I poveri filosofi giacevano tutti al suolo, coi mostruosi becchi aperti, le ali tutte arruffate, e le lunghissime e grosse gambe attortigliate strettamente intorno alle catenelle d’acciaio. Chissà quali sforzi i disgraziati avevano tentati per porsi in salvo, e lasciare quel sotterraneo maledetto entro il quale da due giorni e due notti penavano.

«Bah!…» disse Kammamuri. «L’India è perfino troppo ricca di filosofi alati ed anche non alati. Se occorrerà, ne andrò a cercare degli altri e guarderò che siano dei grandi chiacchieroni. Su, scappiamo, Timul!…» «È tempo!… I topi, sahib, i topi!…» «Corri, corri, Se ci raggiungono ci divoreranno come due biscotti».

I rosicchianti, cacciati dal gran calore, si precipitavano attraverso il sotterraneo, mandando strida altissime e spiccando salti straordinari. Forse il rajaputo od il baniano avevano riaperte le due ultime porte di bronzo che mettevano chissà in quali gallerie, ignorate perfino dal maharajah e dalla rhani, e sbucavano a battaglioni e battaglioni. Fortunatamente vi erano i sei filosofi da divorare, ed arrestarono l’assalto intorno agli uccellacci, lavorando subito di denti e battagliando, come sempre, ferocemente fra di loro. Kammamuri e Timul in pochi salti attraversarono il piano terreno e si fermarono dinanzi al baniano che li aspettava appoggiato al ratt. «Siete arrostiti?» chiese il cacciatore di topi. «Meno di quello che tu possa credere» rispose il maharatto.

Si guardò intorno. Guardie di polizia e rajaputi si erano ritirati sull’opposto marciapiede, tenendo però sempre d’occhio il palazzo reale, entro il quale dovevano trovarsi ancora immensi tesori che potevano far gola ai ladri indiani assai più destri di quelli europei. La via così era rimasta libera, poiché anche gli ultimi cittadini si erano decisi a tornare alle loro case a rassicurare le famiglie.

Timul prese la scarpettina della rhani, la fiutò a lungo, poi si gettò carponi sollevando qua e là colle mani, la polvere od il fango, avendo le pompe agito anche in quel punto. «Devo rimandare il ratt al bungalow?» chiese il baniano. «No, che ci segua lentamente a distanza. Forse ne avremo bisogno». «Per noi?» «Per la rhani».

Il cacciatore di topi fece un gesto di dubbio, tuttavia si affrettò a passare l’ordine al conduttore.

Timul continuava intanto ad avanzare, sempre carponi, reggendo con una mano la lanterna. Due o tre volte si era arrestato come fosse indeciso, poi parve aver scoperta la pista, poiché si mise ad avanzare con maggior rapidità. Era dotato d’un sesto senso quel giovane, per seguire, anche attraverso le vie polverose, le tracce? Bisognava crederlo. Agiva d’altronde come i cani, fiutando di frequente la scarpetta ed il suolo. «Che cosa dici tu di quell’uomo?» chiese il maharatto al baniano. «Che non è meno straordinario del bramino, sahib». «Hai detto proprio il vero». «E tu credi che abbia già scoperta la pista della rhani?»

«Ne sono più che convinto. Ascoltami: alcuni mesi or sono un terribile thug, calato certamente dalle montagne del Bundelkund, dove si trovano ancora nascosti alcuni adoratori della sanguinaria Kalì, commetteva degli atroci delitti, strangolando ogni notte un buon numero di persone e scomparendo come fosse uno spirito. Invano il maharajah aveva messa una forte taglia sulla testa di quell’assassino, ed invano la polizia ed anche i rajaputi percorrevano un buon numero di vie, specialmente di notte, colla speranza di sorprenderlo. Già ventiquattro o venticinque pacifici abitanti, fra cui due donne, erano stati strangolati, quando il miserabile fu sorpreso da due rajaputi presso una pagoda mentre stava per finire la sua ultima vittima, poiché doveva essere veramente l’ultima. Lesto come una giovane tigre fuggì, ma perdette una delle sue scarpe che fu subito portata a Timul. All’indomani noi sapevamo già che il thug aveva lasciata la capitale e che si avviava verso Goalpara, colla speranza di continuare, anche in quella popolosa città, i suoi delitti. Timul, non so come, aveva scoperta la pista, e lo stringeva da vicino, accompagnato da quattro valorosi sikkari, e dopo due giorni e due notti riusciva a scovarlo entro una foresta di palas ed a farlo subito arrestare». «Ciò è stupefacente!…» «Lo dico anch’io». «L’arrestato era proprio il thug che aveva commessi tanti delitti?»

«Aveva sul petto tatuato il serpente azzurro colla testa di donna, quindi non vi poteva esser dubbio che non fosse un seguace della maledetta dea che non chiede ai suoi adoratori altro che stragi. D’altronde aveva ancora indosso un fazzoletto di seta nera con una piccola palla di piombo cucita ad una estremità, e per di più un vero laccio che gli serviva di cintura. Oh, non negò i suoi delitti, anzi se ne vantò, lamentandosi solo di essere stato disturbato nelle sue operazioni». «E sarà stato appiccato».

«Fu legato alla bocca d’un cannone, ed alla presenza di centomila persone, lanciato in aria a brandelli».

«Ben fatto» disse il cacciatore di topi. «Quei miserabili non meritano alcuna grazia. Se io fossi il maharajah a quest’ora avrei già fatto altrettanto con quel preteso bramino».

«Anche tu? Ma no, ma no!… Deve parlare prima e poi morire. Se vorrà, gli lasceremo la scelta fra il laccio, una scarica di carabine o la bocca d’un cannone!…» «Se non l’avranno già accoppato». «Oh, no!…» «Non mi fiderei delle collere del maharajah, sahib». «Ed invece ha del sangue freddo da vendere. Toh, Timul si è fermato!…»

Il cercatore di piste, che aveva già percorsi più di cinquecento metri, spostando sempre la polvere ed annusando come un vero cane da caccia, si era alzato, e dopo d’aver deposta la lanterna si era messe le mani ai fianchi guardando diritto dinanzi a sé. Kammamuri, che precedeva a piedi il ratt, lo raggiunse e gli diede una spinta, dicendogli: «Saresti stato anche tu ipnotizzato?»

«No, sahib» rispose il giovane, sorridendo. «Qui non ho veduto gli occhi di quell’uomo, e poi ormai non ne ha che uno». «Che cosa cerchi allora?»

«Io credo di aver scoperta già la direzione esatta presa dalla rhani. Ti dico, sahib, che è uscita dalla città».

«Ha lasciato la capitale!…» esclamò Kammamuri, sussultando. «Allora l’hanno rapita».

«No, avrei scoperte altre tracce sospette, mentre intorno a quelle della principessa non ho osservato che dei piedi volgari di popolani». «Non potresti ingannarti?» «No, sahib».

«Dove sarà andata allora?» chiese il cacciatore di topi, non meno impressionato del maharatto. «Che quel furfante le abbia imposto di nascondersi in qualche foresta?»

«Ritroverei sempre la sua traccia» rispose Timul. «Seguitemi pure: ora non ho più bisogno di fiutare la polvere della via. Mi sono orientato». «Hai una bussola nella testa?» disse Kammamuri.

«Io non conosco quella bestia, sahib» rispose il giovane cercatore di piste. «So che guida le navi che attraversano l’Oceano Indiano, ma non ne ho mai veduta una. Chi lo sa? Può darsi che io abbia dentro il cranio una di quelle bestie. Venite: sono sicuro di non smarrirmi più».

«Uomo straordinario!…» esclamò il cacciatore di topi. «Vale il bramino o paria che sia».

Timul raccolse la sua lanterna e si avanzò abbastanza velocemente attraverso un viale immenso che conduceva verso i bastioni meridionali della capitale. Il ratt cogli zebù seguiva il minuscolo drappello, pure illuminato da due grosse lampade cinesi che proiettavano sulla via strani bagliori sanguigni. Per venti buoni minuti il cercatore di piste continuò a marciare non curvandosi che qualche volta per smuovere la polvere, e giunse finalmente nei dintorni della vecchia pagoda, presso la quale sboccava la grande cloaca.

«I miei sospetti si sono avverati!…» gridò Kammamuri. «Anche senza questo impareggiabile cercatore di piste, io sarei riuscito a trovare la rhani». «Non ti comprendo, sahib» disse il cacciatore di topi.

«Io sono quasi certo che il bramino ha imposto alla rhani di andarsi a nascondere in qualche luogo ignorato fors’anche da te, nelle cloache».

«Ignorato da me!… Ah, no, sahib!… Ho cacciato i topi per dieci anni e conosco tutti i passaggi come tutte le rotonde che servono allo scolo delle acque. Se si trova là dentro, la troveremo come puoi essere certo». «E se il bramino le avesse imposto di gettarsi dentro il fiume fangoso?»

«Non spaventarmi, signore» disse il baniano, il quale era diventato grigiastro. «No, no, non è possibile». «Noi non abbiamo ritirate tutte le scale, è vero?» «No, i passaggi esistono ancora fra le due rive». «E se fosse caduta?» «Le persone magnetizzate camminano come noi e senza correre alcun pericolo».

Timul si era fermato dinanzi alla vecchia pagoda, presso la quale sboccava il fiume fetente e fangoso.

«Sahib» disse guardando Kammamuri con due occhi strani. «Questa immensa apertura che rovescia delle acque puzzolenti, dove mette?» «Nelle cloache». «Le conosci tu?» «Le conosce passo per passo il baniano che vi ha soggiornato per anni ed anni». «Ebbene, la rhani è entrata sotto quella volta tenebrosa». «Qui non vi è più polvere, Come fai a saperlo?» «Io la sento» rispose laconicamente il giovane. «Siamo stati degli stupidi» disse Kammamuri, lanciando un pugno in aria. «Perché, sahib?» «Avremmo dovuto condurre con noi i due molossi del Tibet». «Forse che non basto io? Io forse sento più di loro».

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
230 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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