Kitabı oku: «La perla sanguinosa», sayfa 19
12. La valle dei pitoni
Sgombrato il passaggio e non desiderando accamparsi in quel luogo frequentato da quei pericolosi colossi, il quartiermastro ed il malabaro, raggiunto Jody, si rimisero animosamente in marcia colla speranza di arrivare prima del tramonto alla sorgente del fiume.
Fortunatamente quegli enormi animali nella loro ritirata avevano aperto un largo sentiero che seguiva parallelamente il fiume, ingombro però dì tronchi atterrati, avendo quei giganti l’abitudine di rovesciare colle loro formidabili proboscidi tutti i vegetali che impediscono il passaggio ai loro corpacci; sicché i tre ex-forzati poterono avanzare con sufficiente rapidità, senza aver bisogno di mettere mano alla scure.
Quelle boscaglie d’altronde non erano così folte come avevano dapprima supposto, essendo formate per lo più da fichi sacri, i quali, pur occupando estensioni vastissime, crescono coi tronchi ad una considerevole distanza gli uni dagli altri.
Verso sera l’inglese ed i suoi compagni si accamparono sulle rive del fiume, in una piccola radura cosparsa solamente da pochi mazzi di bambù di dimensioni esagerate. Dovevano essere poco lontani dalle sorgenti, poiché il Kalawa in quel luogo era poverissimo d’acqua e non più largo d’una diecina di metri.
«È ora di lasciarlo, – disse il malabaro. – Il lago di Kalawewe è ad oriente e noi dobbiamo tenere quella direzione per poi piegare verso il mezzodì, se vorremo raggiungere le montagne di Sengakogulla Manara.»
«Quanto impiegheremo a compiere la traversata?» chiese Will.
«Fra quattro giorni, come vi ho detto, noi raggiungeremo il monastero, se i pitoni non ci arresteranno.»
«I pitoni! Che cosa c›entrano quei colossali serpenti col nostro viaggio?»
«Saremo costretti ad attraversare la valle dei pitoni delle rocce, un brutto luogo, dove ogni anno i pellegrini lasciano non pochi compagni. Quel passo è pieno di quei pericolosissimi rettili. Pullulano come i funghi nel mio paese. Ho dovuto ucciderne parecchi nel mio ultimo viaggio,» disse Palicur.
«Non si può cercare un›altra via?»
«È impossibile, signor Will. Le montagne in quel luogo sono tagliate così a picco, da sfidare le zampe delle scimmie.»
«È vero che sono enormi i pitoni delle rocce?» chiese Jody.
«Ne ho veduto di quelli che misurano perfino trenta piedi di lunghezza.»
«Dieci metri!»
«Ed erano grossi come le tue cosce.»
«Sono anche velenosi?»
«No, Jody; invece posseggono una tale forza, da stritolare fra le loro spire non dico un rinoceronte, ma certo un bufalo, e tu sai se questi ruminanti sono robusti,» rispose Palicur.
«Passeremo di notte, quando saranno addormentati,» disse il quartiermastro, che non sembrava molto preoccupato.
Cenarono, senza essere stati disturbati, batterono per precauzione i dintorni e, stabiliti i quarti di guardia, s’addormentarono, mentre uno di loro vegliava sulla sicurezza comune.
Durante la notte vi fu più d’un allarme, causato dalla presenza di due grossi animali che erano comparsi sulla riva opposta del fiume, pantere o tigri, le quali però ebbero il buon senso di non attraversare quel corso d’acqua e di limitarsi a brontolare.
Alle sei del mattino i tre amici abbandonarono definitivamente il Kalawa, inoltrandosi sotto le immense boscaglie che li dividevano dall’imponente catena del Sengakogulla.
Per due lunghi giorni si dibatterono disperatamente fra quei vegetali, aprendosi faticosamente il passo fra i fichi baniani, i talipoti, i banani selvatici, i sagoia, le palme zuccherine ed i sarmenti dei pepe, finché raggiunsero il lago Kalawewe, un grande bacino ancora poco noto, che non si sa da quale corso d’acqua sia alimentato: sulle sue rive sostarono ventiquattro ore anche per rinnovare le loro provviste di viveri ormai esaurite.
Le rive del lago non scarseggiavano di selvaggina, essendo quello l’unico bacino d’acqua dolce in un’area vastissima, sicché non riuscì loro difficile fare parecchie schioppettate, specialmente contro i bufali che si mostravano numerosissimi nelle paludi prossime al lago.
Il giorno appresso si posero risolutamente in cammino, attraverso una regione che pareva completamente deserta ed era di quando in quando interrotta da alture che diventavano sempre più elevate. Tutto il centro di quella grande isola è montagnoso. Altissimi picchi si diramano in varie direzioni, sormontati da quello chiamato picco di Adamo dagli europei, di S. Tomaso dai maomettani e di Hamelel dai cingalesi, una montagna enorme, di forma conica, visibile alla distanza di trenta e più leghe, e di cui si ascendono gli scoscesi e selvosi fianchi per via di scale intagliate nell’ardesia e anche per via di scale a mano, attaccate a catene di ferro.
Alla sommità trovasi una pianura lunga centocinquanta piedi, larga centodieci, con un piccolo stagno d’acqua limpida entro cui i buddisti devotamente si bagnano, e vicino allo stagno si vede l’impronta d’un piede gigantesco che sarebbe stata impressa da Adamo prima di lasciare per sempre, dopo il peccato commesso da Eva, il paradiso terrestre.
Infatti secondo i buddisti e secondo alcuni scienziati, il famoso paradiso che fu abitato dai due primi esseri della creazione sarebbe stato in quell’isola meravigliosa, che è senza contrasti la più fertile di quante se ne trovano al mondo e che per splendore di vegetazione non ha rivali.
È bensì vero che, secondo studi ed investigazioni più recenti, si sarebbe invece trovato nella Lemuria, un vastissimo continente situato fra l’Australia e l’Africa meridionale, poi quasi interamente scomparso al pari dell’Atlantide e di cui Madagascar, Ceylon e le isole della Sonda sarebbero gli ultimi avanzi. Ed ecco forse il motivo perché la paleontologia non ha trovato ancora le reliquie sicure, positive dei nostri vari antenati, inghiottite dalle acque dell’Oceano Indiano in seguito a chissà quale spaventevole cataclisma, o nascoste, può anche darsi, negli strati profondi delle isole, non ancora esplorate a questo riguardo.
Il minuscolo drappello, guidato dal malabaro, che non esitava mai sulla direzione da prendere, anche senza guardare la bussola che il quartiermastro non aveva dimenticato di portare con sé, dopo aver guadato il Makowilla, che è il fiume più importante dell’isola e ha le sue sorgenti sul picco d’Adamo, giunse finalmente dinanzi all’importante catena di Sengakogulla, che spingeva le sue vette boscose a quattromila e quattrocento piedi.
«Non scorgo nessun passaggio, – disse Will, che si era fermato ad ammirare quell›enorme massa di monti. – Dovremo salire quelle cime?»
«Non vi riuscireste, signore, – rispose Palicur. – I fianchi di quei colossi, come già vi dissi, sono inaccessibili almeno da questo versante. Non esiste che la valle dei pitoni delle rocce.»
«Sì, mi ricordo che ci hai parlato di quel passo. Quando vi giungeremo?»
«Fra un paio d›ore, signore.»
«Corriamo dei gravi pericoli?» chiese Jody, che aveva una decisa antipatia per tutti i rettili.
«Può darsi, amico, – disse il malabaro. – Certo non ci lasceranno passare senza tentare qualche attacco contro di noi.»
«E come mai si trovano radunati in quel luogo in così gran numero?» chiese il quartiermastro.
«Si dice che un famoso incantatore di serpenti, avesse cercato di fare di quella valle, che è profondamente incassata, un immenso serraglio di pitoni, a scopo di lucro, essendo ben pagati quei mostruosi serpenti dai musei europei e dai mercanti di belve. Si narra che ne avesse radunato parecchie coppie, innalzando poi delle cinte alle estremità della valle, e che un giorno fosse stato preso da uno dei suoi prigionieri e stritolato.
«Rimasti soli ed indisturbati, col tempo si sarebbero moltiplicati in numero straordinario. Fatto sta che la valle ne è piena e che nell’attraversarla si corrono sempre dei grandi pericoli.»
«Se ci assalgono, sapremo difenderci, – disse Will. – Nessun rettile resiste ad una buona palla conica lanciata da una carabina. Amici, in marcia!»
La salita dei primi scaglioni della grande catena non fu molto faticosa, anche perché le foreste che coprivano i fianchi non erano così folte come al piano; verso il mezzodì però l’ascensione divenne bruscamente così ripida, da mettere a dura prova i loro garetti.
Le montagne si accostavano, mostrando le loro cime tagliate quasi a picco, i cui lati strapiombavano entro burroni e abissi spaventevoli che pareva non avessero fondo.
Un rombo assordante, prodotto da un gran numero di cascate precipitanti lungo le balze, si propagava attraverso quelle gigantesche piramidi rocciose, che si rimandavano senza posa l’eco.
I tre ex-forzati si cacciarono dentro uno stretto vallone, cosparso solo di magri cespugli, che saliva serpeggiando fra le montagne, e rallentarono la marcia per sorvegliare le cime, non essendo improbabile che lassù si trovassero dei Vadassi e che qualche masso venisse precipitato sulle loro teste.
Era prossimo il tramonto, quando si trovarono improvvisamente dinanzi ad un vasto burrone, chiuso da rocce tagliate a picco e tutto irto di macigni enormi, che pareva fossero precipitati dall’alto in seguito a qualche spaventevole terremoto.
Non si scorgevano che radi alberi, invece abbondavano le alte graminacee, ormai disseccate dai torridi raggi del sole.
«Là sotto sta il pericolo,» disse Palicur, che si era arrestato guardando con una certa ansietà quelle erbe.
«È questa forse la valle dei pitoni?» chiese Will.
«Sì, signore.»
«Non ne vedo nemmeno uno, però.»
«Si riposano sotto le graminacee.»
«Aspettiamo la notte?»
«Sì, signor Will; sarebbe una grande imprudenza se attraversassimo la valle di giorno. Vi raccomando il più profondo silenzio.»
«Ed io raccomando che le armi siano ben caricate,» disse Jody.
«Prepariamoci la cena,» concluse il quartiermastro.
Per non venire sorpresi da quei colossali rettili, scalarono una rupe che sorgeva quasi isolata all’entrata della valle e divorarono un po’ di carne arrostita al mattino, non osando accendere il fuoco.
Avevano già fatto una pipata e si disponevano a ripartire, quando un colpo di fucile rimbombò ad un tratto verso l’opposta estremità della valle.
Tutti si alzarono precipitosamente, interrogando ansiosamente cogli sguardi le tenebre che ormai erano calate e che avvolgevano la grande catena.
«Chi può aver fatto fuoco? – si chiese Will, un po› inquieto. – Che si trovi qui qualche europeo?»
«O qualche Candiano?» disse invece Palicur.
«Ascoltiamo.»
Tesero gli orecchi, sperando d’udire qualche altro sparo o qualche grido umano, ma nessun rumore ruppe il silenzio che regnava nella valle. Solamente in lontananza una cascata d’acqua rumoreggiava monotona.
«Sarà stato qualche cacciatore, – disse finalmente Palicur. – La selvaggina non manca fra queste montagne.»
«Che questa detonazione abbia svegliato i pitoni?»
«Può darsi, signor Will, e vi consiglierei di attendere qualche po› ancora prima di metterci in marcia.»
«Non abbiamo fretta, quindi possiamo consumare un›altra carica di tabacco.»
Lasciarono trascorrere una mezz’ora, senza che lo sparo si ripetesse, poi scesero silenziosamente nel burrone colle carabine armate, procedendo cautamente onde non svegliare quei formidabili rettili. Che dormissero tutti, non era da crederlo, perché di passo in passo i tre amici udivano di quando in quando scrosciare le graminacee e ronzare qualche sibilo.
Palicur s’arrestava di frequente, credendo di veder rizzarsi improvvisamente dinanzi a loro uno di quei serpentacci, e non si riponeva in cammino se prima non si era ben assicurato d’essersi ingannato. Anche il quartiermastro ed il mulatto si sentivano male in gamba e si fermavano ad ascoltare, pronti a fuggire.
Avevano raggiunto felicemente quasi la metà del vallone, il quale si prolungava per una mezza dozzina di chilometri, quando Palicur per la decima volta sostò, imbracciando la carabina.
«Stiamo per venire assaliti?» chiese Will sottovoce, raggiungendolo rapidamente.
«Scende da quella rupe.»
«Un pitone?»
«Sì, signor Will. Cerca di tagliarci la via.»
A quindici passi da loro s’alzava una rupe che formava una specie di sperone assai aguzzo. Quantunque mancasse la luna, alla luce delle stelle il quartiermastro e Jody scorsero, non senza sentirsi bagnare di sudore la fronte e percorrere da un brivido di spavento, un enorme cilindro il quale si allungava verso le graminacee che coprivano il fondo del burrone.
«Spara, Palicur,» disse Will.
«No, signore, – rispose il malabaro. – Gli altri si sveglierebbero e siamo appena a metà via. Forse non ci ha ancora veduti. Accovacciatevi e non fiatate più.»
Le erbe in quel luogo erano abbastanza alte per nasconderli. I tre amici si appiattarono l’uno accanto all’altro, colle dita sui grilletti delle carabine, decisi a vendere cara la pelle.
Il pitone continuava a scendere, svolgendo mollemente le sue anella e tenendo la testa nascosta fra le erbe. Era uno dei più colossali che Palicur avesse veduto fino allora, perché misurava una lunghezza di almeno dieci metri ed era grosso quanto il tronco d’una palma già sviluppata.
«Muove verso di noi, malabaro, – sussurrò Jody. – Non vedi agitarsi le erbe dinanzi a noi?»
«Aspetto che mostri la testa,» rispose il pescatore di perle.
«Ed io gli fracasserò la spina dorsale,» disse Will.
«Risparmiate i vostri colpi, signore.»
Stava per puntare l’arma, quando il rettile si mostrò, rizzandosi tutto d’un colpo sulla coda e lasciandosi cadere di peso sui tre disgraziati.
«Fuoco!» gridò Will.
Due spari rimbombarono quasi simultaneamente: il marinaio ed il malabaro avevano fatto fuoco nel medesimo tempo.
Il mostruoso rettile si rialzò nuovamente, sibilando rabbiosamente e sferzando le graminacee colla poderosa coda.
«Colpito!» gridò Jody.
«Fuggiamo! – comandò Palicur. – Ve…»
Non poté finire la frase. Il pitone, quantunque avesse una mascella fracassata, l’aveva afferrato a tradimento colla coda, avvolgendogli le gambe così strettamente, da atterrarlo di colpo.
«Aiuto, signor Will! – urlò il disgraziato, che si sentiva spezzare le tibie dalla stretta irresistibile del mostruoso serpente. – Mi uccide!»
Il quartiermastro si strappò la scure che portava alla cintola e fece atto di slanciarsi, quando si sentì a sua volta afferrare e spingere in alto. Un altro pitone li aveva sorpresi alle spalle senza far rumore e accorreva in aiuto del compagno.
Il marinaio mandò un urlo terribile.
«Sono morto!»
Jody fortunatamente era libero, essendo rimasto un po’ in disparte. Il bravo mulatto aveva una carabina a doppia canna e non aveva perduto la testa. Udendo il grido del quartiermastro si voltò rapidamente, risoluto a non lasciarlo stritolare dall’enorme rettile.
«Prendi, canaglia! – urlò. – Ecco la morte dei traditori!»
Un lampo squarciò le tenebre, seguito da una rumorosa detonazione. Il serpente, che la palla aveva colpito nel cranio sfracellandoglielo orribilmente, svolse rapidamente le spire, lasciando cadere l’inglese, il quale fu lesto a sottrarsi ad una nuova stretta.
«Ed ora all›altro!» gridò il macchinista, che conservava un ammirabile, anzi invidiabile sangue freddo.
Girò su se stesso e lasciò partire il secondo colpo.
Il pitone delle rocce che stringeva il malabaro, nuovamente ferito un po’ sotto alla gola, mandò un sibilo spaventevole, poi si abbandonò senza vita, cadendo al suolo come un ammasso di stracci, e allentando subito le formidabili spire.
«Signor Will! Palicur!» chiamò il mulatto, che ricaricava precipitosamente la carabina.
I suoi due amici erano già in piedi e coi calci dei fucili martellavano furiosamente i due rettili, per paura di venire ripresi fra quelle anella che per poco non avevano fracassato loro le costole.
«Fuggiamo! – gridò il macchinista. – Odo altri rettili avanzarsi. Raccomandatevi alle vostre gambe.»
«Sì, via! – disse il malabaro. – I pitoni ci piombano addosso da tutte le parti!»
Si erano appena slanciati a corsa disperata, quando un grido sfuggì al quartiermastro:
«La valle è in fiamme! Siamo perduti!»
13. Un altro attacco misterioso
Una luce vivissima, scaturita improvvisamente fra le alte graminacee quasi secche che coprivano il fondo della vallata, si era alzata verso l’estremità di quella chiusa, tingendo il cielo di rosso e fugando rapidamente le tenebre.
Era una vera cortina di fuoco, alta parecchi metri, che il venticello notturno scendente dalle altissime montagne ravvivava. Essa minacciava d’invadere tutto lo spazio racchiuso fra quelle immense rupi tagliate a picco.
Come era avvampato? Mistero! D’altronde i tre disgraziati, sfuggiti appena allora da un gravissimo pericolo, non avevano certamente il cervello abbastanza calmo per ragionare.
Il fatto era che il fuoco avvampava e si dilatava con una rapidità così prodigiosa, da far temere che chiudesse il passo ai tre amici e che li rinserrasse in un cerchio ardente prima che potessero raggiungere l’uscita o l’entrata di quel burrone.
I pitoni che sonnecchiavano sulle rocce o sotto le erbe, svegliati da quella brusca invasione di luce e dal crepitio dei vegetali, sorgevano da tutte le parti, alzandosi sulle loro code per vedere che cosa stava accadendo.
Pareva che per opera magica la valle si fosse tutta d’un tratto coperta di tronchi d’albero privi dei rami e delle foglie, poiché quei colubri giganteschi si mantenevano rigidi, guardando la cortina fiammeggiante, come se non riuscissero ancora a comprendere di quale natura era il pericolo che li minacciava.
«Seguitemi! – gridò Palicur, che si era prontamente rimesso. – Raccomandatevi alle vostre gambe e ricordatevi che chi cade è uomo morto!»
«Lo sospettavo che quei maledetti selvaggi ci avrebbero teso un agguato in qualche luogo, – disse Will. – Su, lesti e attenti ai serpenti!»
Si erano slanciati tutti e tre verso l’uscita della valle, correndo come antilopi, gettando sguardi a destra ed a manca per paura di vedersi piombare addosso qualche pitone. Ondate di fumo caldissimo di quando in quando li avvolgevano, mentre sopra di loro volteggiavano miriadi di scintille e cadevano folate di cenere ardente.
I rettili, accortisi finalmente che stavano per venire raggiunti dal fuoco, si erano messi in movimento, sibilando rabbiosamente e contorcendosi disperatamente per guadagnare maggior terreno. Erano per lo meno tre o quattrocento, tutti di dimensioni enormi e si dirigevano anch’essi verso l’uscita del burrone, a sbalzi ed a scatti.
Lo spettacolo era spaventevole. Guai se quell’orda si fosse mossa prima! Certo nessuno dei tre ex-forzati sarebbe scampato alle irresistibili strette di quei mostri.
Jody, Palicur e Will, per buona ventura, oltre ad essere robusti possedevano delle buone gambe e mantenevano a distanza i rettili.
«Più presto! Più presto! – ripeteva senza posa il malabaro che precedeva gli altri due. – Il fuoco guadagna rapidamente!»
E infatti l’immensa cortina di fuoco s’avanzava sempre più veloce, alimentata dalla brezza notturna, tutto divorando sul suo cammino.
Parecchi pitoni erano stati ormai raggiunti e si contorcevano fra le fiamme. Un nauseante odore di carne bruciata si spargeva per l’aria. Finalmente, con un ultimo sforzo, i tre ex-forzati riuscirono a raggiungere lo sbocco del burrone. Le fiamme non erano che a pochi passi e fu un vero miracolo se non caddero asfissiati dal fumo che li investiva accecandoli.
Dinanzi a loro s’apriva una stretta gola che serpeggiava fra due altissimi montagne e dove non si scorgevano altro che enormi macigni affatto spogli d’ogni vegetazione.
Vi si erano già slanciati, quando alle loro spalle rimbombarono due spari, seguiti poco dopo da altri due.
Palicur mandò un grido e si arrestò portandosi una mano all’orecchio destro.
«Colpito?» chiese Will, raggiungendolo.
Il malabaro, invece di rispondere, si volse rapidamente, colla carabina imbracciata. I suoi occhi scorsero subito una nuvoletta di fumo alzarsi sulla cima d’una roccia che dominava la valle dei pitoni, ad un’altezza di due o trecento metri, e delle forme umane, profilarsi sul rosso dell’incendio.
«Ah! Briganti!» urlò furioso.
Paf! Paf! Due spari rintronarono, destando l’eco delle montagne, poi un essere umano si staccò dalla roccia, volteggiò parecchie volte su se stesso, e piombò poco dopo nella voragine di fuoco.
«Via!» gridò l›abile tiratore.
Si gettò la carabina a bandoliera e si mise in corsa, comprimendosi l’orecchio. Delle gocce di sangue gli cadevano sulla spalla lordandogli la giacca.
«Palicur, dove ti hanno ferito?» chiesero ad una voce Jody ed il quartiermastro, che gli si erano lanciati dietro.
«È nulla! Correte! Dopo, quando saremo dietro quelle rocce,» rispose il malabaro senza arrestarsi.
Quella corsa sfrenatissima durò una decina di minuti, poi i tre amici, superata una curva formata dalla gola, si fermarono dietro ad un masso così alto da metterli al coperto da qualsiasi scarica.
«Dunque?» chiese il quartiermastro, rivolgendosi al pescatore di perle.
«Bah! È nulla, signor Will. La palla mi ha asportato semplicemente il lobo dell›orecchio destro. Ferita dolorosa forse, che dà molto sangue, ma niente affatto pericolosa. È vero che se la palla fosse giunta due centimetri e anche meno più avanti, la mia testa sarebbe scoppiata come una noce di cocco.»
«Lascia vedere.»
«Vi ho detto che non è nulla, signor Will.»
«È necessario arrestare l›emorragia. Jody, mettiti di guardia sulla cima del masso, il primo uomo che vedi apparire, fucilalo come una tigre.»
«Vi prometto di non mancarlo, signor Will, – rispose il macchinista, – quantunque quelle canaglie abbiano ben pagato quel pezzo d’orecchio con una vita umana.»
Mentre il bravo giovane si arrampicava sul masso nascondendosi entro una fenditura, l’inglese levò dalla sua bisaccia un pezzo di tela e fasciò l’orecchio ferito al malabaro, dicendo:
«Già, qualche centimetro più innanzi, e tu, mio povero Palicur, non saresti più nel numero dei viventi. Sei fortunato di possedere due buoni orecchi!»
Fasciò destramente la ferita, dopo averla lavata con un po’ d’acqua mescolata con alcune gocce di gin, quindi disse:
«Hai ben veduto l›uomo che hai colpito?»
«No, signor Will. La rabbia in quel momento mi accecava.»
«Tuttavia era un uomo, è vero?»
«Di questo non dubito.»
«Chi credi che fosse? Uno di quei maledetti selvaggi che ci assalirono sul fiume?»
«Sarebbe un po› difficile dirlo, signor Will – rispose il pescatore di perle. – Che un uomo sia caduto in mezzo alle fiamme e che a quest’ora non sia più vivo, oh sì, di questo rispondo io. La mia palla deve averlo colpito in qualche parte vitale.»
«Devono essere stati loro a dar fuoco alle erbe.»
«Certo, signor Will. M›immagino che i pitoni non abbiano nelle loro tasche, ammesso che la loro bocca possa servire a tal uopo, né zolfanelli, né acciarino e tanto meno dell›esca.»
«E quei colpi di fucile?»
«Devono essere candiani, signore, e non vadassi. Se fossero selvaggi ci avrebbero saettati con delle frecce, sia pure avvelenate.»
«Sarei curioso di chiarire questo mistero.»
«Pensiamo a battercela per ora, signor Will. Sulle cime delle alte montagne quei furfanti non oseranno assalirci e nemmeno…»
Un grido del macchinista gl’interruppe la frase:
«Gambe, amici!»
«Che cosa c›è ancora, Jody?» chiese Will.
«I pitoni s›avanzano.»
«Non sono stati tutti bruciati?»
«Non pare, signor Will, – rispose il macchinista. – Molti sono rimasti indubbiamente nel burrone e stanno cuocendo al forno, però ne vedo parecchi avanzarsi nella gola. Pare che non amino il caldo quelle dannate bestie!»
«Scendi subito.»
Il mulatto, che vedeva i rettili accostarsi rapidamente, facendo dei balzi straordinarii, si lasciò scivolare lungo la rupe, cadendo ai piedi dei suoi due amici.
«Abbiamo appena un minuto per scappare,» disse.
«E quelli che ci hanno fatto fuoco addosso li hai veduti?» chiese il quartiermastro.
«No, signor Will.»
«Puoi camminare, Palicur?»
«Un orecchio non ha nulla a che fare colle gambe, signore, – rispose il malabaro. – Non sono stato storpiato.»
«Di corsa dunque!»
A poca distanza si udivano già i fischi stridenti dei pitoni delle rocce, che l’incendio aveva cacciato dalla valle.
Palicur ed i suoi compagni, i quali avevano più paura di quei rettili che del fuoco, lasciarono la rupe che li aveva protetti e ripresero la corsa attraverso la gola, balzando attraverso i massi che ingombravano loro il passo e varcando dei crepacci che superavano con non poca fatica.
Verso la mezzanotte, ansanti, sfiniti, si fermarono sulla vetta d’una collina che dominava il passo e che, avendo i fianchi non molto scoscesi, aveva permesso l’arrampicata.
«Basta, – disse il quartiermastro, che non era abituato a quelle lunghe corse. – Non sono già un podista io e nemmeno un indiano od un mezzo figlio dell’Africa. La poppa di questa interminabile nave finisce qui e più innanzi non potrò andare.»
«Non vi chiedo di più, signor Will, – rispose il malabaro, sorridendo. – Il più famoso marinaio della flotta anglo-indiana non avrebbe potuto reggere ad un simile sforzo.»
«Che si siano fermati i pitoni?» chiese Jody.
«Non saranno andati molto lontano, – rispose Palicur. – La marcia non é il loro forte e appena al sicuro avranno ripreso il loro sonno.»
«E noi faremo altrettanto, – aggiunse il quartiermastro. – Quassù non correremo il pericolo di venire sorpresi.
«E poi non commetteremo l’imprudenza di addormentarci tutti, – disse il malabaro. – Io che sono il più resistente monterò il primo quarto di guardia. Riposatevi pure: il sonno non mi coglierà prima della mezzanotte, ve lo assicuro.»
Jody spiegò la tenda, tagliò alcuni rami da un piccolo tamarindo che cresceva a breve distanza e la rizzò in quattro colpi.
Mentre egli vi si cacciava sotto, imitato subito dal quartiermastro, il malabaro fece il giro della piccola altura, poi si sedette su un masso da cui poteva dominare il passaggio sottostante, guardandosi bene dall’accendere il fuoco per non segnalare a quei misteriosi nemici l’accampamento.
La notte era calma e serena ed il silenzio non era rotto che dal lontano scrosciare della cascata. Verso la valle dei pitoni delle rocce si scorgeva ancora qualche bagliore rossastro e qualche getto di scintille, che il vento spingeva attraverso le tenebre come una folata di stelle cadenti.
L’incendio, non trovando più alimento, si spegneva rapidamente.
A mezzanotte il malabaro, nulla avendo notato di sospetto, svegliò Jody e alle tre il quartiermastro gli subentrò nel quarto, senza che nulla di straordinario fosse accaduto.
Anche quei misteriosi nemici non si erano più fatti vedere. Si erano inerpicati sui fianchi delle montagne o si erano allontanati, riattraversando la valle dei pitoni? Oppure, approfittando delle tenebre, erano già passati silenziosamente sotto la collina, sfuggendo alla vigilanza del malabaro e dei suoi due compagni?
Quantunque fossero molto inquieti sulla direzione presa da quei bricconi, ignorando anche le loro intenzioni, poco dopo lo spuntare del sole i tre amici si riponevano in cammino attraverso a quelle alte montagne, ansiosi di giungere al famoso monastero.
Impiegarono tre giorni a varcare quelle cime selvose, perseguitati sempre dal timore di cadere in qualche imboscata, e finalmente giunsero nella valle, chiusa da una parte dalla catena centrale della isola e dall’altra dal fiume Mahowilla che avevano nuovamente ritrovato.
Ormai s’avvicinavano a gran passi a Candy, sulle cui vicine montagne s’innalza Annarodgburro e il bogaha, il celebre albero che secondo la leggenda servì di ricovero a Buddha.
Il paese diventava popolato. Grossi villaggi, abitati da Candiani, si succedevano, specialmente lungo il fiume e sui fianchi delle montagne, quindi delle splendide pagode per la maggior parte diroccate, poi avanzi di grandi città scomparse forse da migliaia d’anni.
Ceylon, al pari della vicina India, è ricca di macerie grandiose. Non è raro trovare in mezzo alle più folte foreste delle rovine colossali, dei palazzi e delle pagode d’una architettura superba, sepolte sotto un caos di vegetali da chissà quanto tempo, e anche delle statue ancora laminate d’oro, rappresentanti sempre Buddha.
Anzi su una di esse venne trovato un dente enorme che dai cingalesi fu creduto appartenesse al loro dio: i portoghesi, che pei primi invasero quell’isola meravigliosa, lo tolsero con la violenza agli adoratori e lo restituirono solamente dietro l’enorme compenso di settecentomila ducati, che non poterono però godere, perché furono costretti a restituire la somma, avendo deciso la santa inquisizione di far bruciare quell’oggetto di un culto superstizioso.
Undici giorni dopo aver lasciato la valle dei pitoni, il malabaro ed i suoi compagni salutarono finalmente il monastero di Annarodgburro ed il famoso albero che stendeva i suoi immensi rami sopra i tetti del non meno famoso monastero.