Kitabı oku: «La perla sanguinosa», sayfa 21
15. La perla sanguinosa
A mezzodì del giorno appresso i dintorni del monastero erano affollati di pellegrini, i quali si pigiavano contro le porte, cercando di rompere le linee dei malabari e dei negri della guardia, sfidando i colpi di frusta che grandinavano senza misericordia sulle loro teste e sulle loro spalle.
La notizia che la famosa perla, che ornava un tempo la fronte di Buddha, era stata finalmente ritrovata e che stava per essere restituita, si era sparsa, mettendo in subbuglio tutti quei fanatici adoratori del dio nero.
L’entrata nel monastero era stata impedita a tutti, eccettuato al re, ai suoi ministri, ai dissova ed ai grandi dignitari dello stato, i quali si erano affrettati a prendere posto nella gran sala in attesa del fortunato pescatore di perle.
Poco prima che il sole giungesse a metà del suo corso, Will aveva rinnovato la fasciatura al malabaro, il quale non aveva avuto durante la notte che una leggera febbre. Bisognava credere che quel diavolo d’uomo possedesse una fibra eccezionale ed una forza d’animo più unica che rara.
Aveva appena terminato, quando un drappello composto di otto malabari della guardia si presentò, coll’ordine di scortare al monastero i possessori della famosa perla. La guardia era composta di bei giovanotti, superbamente vestiti e armati fino ai denti, con lunghe carabine indiane, pistoloni e certi sciaboloni a doccia, che somigliavano a quelli usati dai cocincinesi e dagli annamiti.
Palicur, che era in preda ad una specie di esaltazione e pareva non provasse il minimo dolore per la ferita riportata, si rizzò, aiutato dal quartiermastro e dal mulatto, stringendosi al petto la famosa borsetta contenente la perla, ed appoggiatosi alle loro braccia si diresse risolutamente verso il monastero, circondato dal drappello della guardia.
La gente che si affollava sulla piazza, comprendendo che quello doveva essere l’uomo che aveva ritrovato il famoso gioiello, s’affrettava a ritirarsi per fargli largo, inchinandosi profondamente, come dinanzi ad un individuo sacro, benvoluto e protetto dalla divinità.
Le corde di canape, che la scorta agitava senza posa pronunciando il nome del re, non erano più necessarie per far posto ai tre ex-forzati e alla loro guardia.
Sulla porta del monastero una mezza dozzina di tiruvamska attendevano il malabaro per condurlo nella gran sala. Vedendo Will, un uomo bianco, non poterono trattenere un gesto di sorpresa e fecero atto di fermarlo, ma Palicur fu pronto a dire:
«È l›uomo che mi ha aiutato a ritrovare la perla ed é anche lui un seguace del grande Buddha.»
«Venite, – disse allora il più vecchio dei sei monaci. – Il re ed il grande sacerdote vi attendono.»
Mentre le guardie trattenevano i pellegrini che cercavano di rovesciarsi nel monastero, i tre amici furono introdotti nel corridoio, quindi nella vasta sala, dove giganteggiava la seconda statua del dio. Dinanzi all’enorme massa, seduti su due scanni dorati, stavano il vecchio monarca ed il grande sacerdote, mentre all’intorno si affollavano centinaia di monaci, di grandi dignitari, i dissova ed i ministri.
Palicur fece cenno ai suoi due amici, che lo avevano fino allora sorretto, di fermarsi, poi, raccogliendo tutta la sua energia e le sue forze, si avanzò con passo abbastanza sicuro verso il re e, dopo essersi inchinato tre volte fino a toccare colla fronte le pietre del pavimento, tese la destra e porse la borsetta d’acciaio, dicendo:
«Ecco la perla.»
Il sovrano, che era visibilmente commosso, la prese e l’aprì. Tosto un grido di meraviglia gli ruppe dalle labbra.
«Meravigliosa! Una perla color del sangue!»
Il gran sacerdote si era curvato verso il monarca, guardando il prezioso gioiello.
«Sì, quella che brillava sulla fronte di Buddha! – esclamò. – Io la riconosco egualmente, quantunque la sua tinta sia diventata più scura. Quel piccolo punto azzurro, quasi invisibile, me lo indica.»
Tutti, monaci, ministri e dissova, si erano affollati intorno al re ed al grande sacerdote, mandando grida di meraviglia. Giammai una perla di quel colore era stata veduta, da quando il banco di Manaar aveva dato quei bellissimi gioielli del mare.
«La figlia di Chital è dunque mia?» chiese Palicur.
«È tua, uomo valoroso, – disse il re. – L›avrai e le fornirò una dote principesca, per compensarti della tua generosità, poiché un altro uomo, invece di riportarla qui, l›avrebbe venduta agli arabi od agli europei.»
«La si conduca in mia presenza dunque: è la mia fidanzata, che piango da due anni.»
Il gran sacerdote fece segno ai monaci di fare largo e batté, con un martelletto di argento, un gong che era sospeso dinanzi alla statua di Buddha.
Tosto una porta della sala si aprì e comparvero due sacerdoti, i quali tenevano per mano una ragazza cingalese che indossava il pittoresco costume delle canditine, tutto adorno di campanelluzzi d’argento e con in capo una specie di diadema di metallo dorato, in forma di cupola.
Era una bellissima figurina di forme flessuose, bene sviluppata, la pelle leggermente abbronzata, con quelle sfumature strane che hanno certi velluti e che sono comuni anche alle donne indiane.
I suoi capelli nerissimi scendevano fino al disotto della larga fascia di seta azzurra che le stringeva le anche, ed aveva gli occhi vividi, dal lampo superbo, ed i lineamenti dolcissimi e d’una purezza piuttosto rara in una figlia di pescatore.
Palicur mandò un grido che gli irruppe violento dal petto: «Juga!»
Poi fece atto di precipitarsi verso la fanciulla, che a sua volta gli correva incontro colle braccia tese, ma le forze in quel momento lo tradirono e cadde fra le braccia di Jody, che era prontamente accorso. In quello stesso momento, verso il fondo della sala sorse un gran tumulto. Le guardie pareva cercassero di impedire il passo a qualcuno che tentava di entrare violentemente.
A un tratto, una voce poderosa che fece sussultare il quartiermastro tuonò:
«Largo al rappresentante del governo inglese! Largo, vi dico, o vi intimeremo la guerra!»
Il re si alzò vivamente, in preda ad una visibile commozione, mentre i dissova gli si stringevano attorno snudando le loro spade, come per proteggerlo da qualche pericolo.
«Lasciate entrare il rappresentante del governo inglese,» gridò il re.
Le file dei malabari a quell’ordine si aprirono ed un uomo si fece innanzi con una cert’aria prepotente, che sollevò fra i presenti un mormorio d’indignazione. Vestiva una specie di divisa somigliante a quella degli ufficiali anglo-indiani ed era seguito da tre cingalesi armati di scimitarre.
Il quartiermastro, nello scorgerlo, soffocò a stento una bestemmia. In quel preteso rappresentante del governo inglese aveva riconosciuto Foster, l’irlandese, il sorvegliante che avevano così abilmente giocato la notte che avevano lasciato il penitenziario di Port-Cornwallis, ubriacandolo col ginepro d’Olanda.
Il briccone s’avvicinò al re, toccando appena la visiera del suo elmetto, poi, senza preamboli, accennando successivamente Palicur che era sempre svenuto, Will che sembrava fulminato e Jody, disse:
«Chiedo a vostra maestà, in nome del mio governo, di arrestare questi tre uomini e di farli tradurre immediatamente a Colombo.»
«Di quale delitto sono accusati?» chiese il monarca aggrottando la fronte e guardando poco benevolmente l›irlandese.
«Essi sono tre forzati fuggiti alcuni mesi or sono dal penitenziario di Port-Cornwallis e perciò appartengono al governo inglese.»
«Anche quell›uomo bianco che deve essere un vostro compatriota?» chiese il re, indicando il quartiermastro.
«Anche quello.»
Will si scosse. Fece alcuni passi innanzi e puntando l’indice sul petto dell’irlandese, gridò:
«Quest›uomo mente, affermando di essere un rappresentante del governo inglese: egli non ha indosso alcun mandato d›arresto e anzi qui, pubblicamente, lo accuso di aver a più riprese tentato di derubarci della perla sanguinosa e di aver cercato di far assassinare, non più tardi di ieri sera, questo malabaro.»
«Ne volete una prova, sire? Guardate!»
Si curvò su Palicur, il quale non era ancora tornato in sé, gli aprì la giacca e la camicia, tolse con precauzione le bende e mostrò la ferita prodotta dal pugnale del cingalese.
Poi continuò, dardeggiando sull’irlandese uno sguardo ironico:
«Stamane è stato trovato, presso le rovine della città, un uomo morto. Sapete chi lo ha strangolato? Questo malabaro, per impedire a quel miserabile di rubargli la perla che ormai era stata promessa al gran sacerdote. Questo valoroso pescatore, nella lotta, è stato ferito da un colpo di pugnale, ma è riuscito a punire l’avversario.
«Volete sapere ora chi era l›aggressore? Il complice di quest’individuo, che pretende di essere il rappresentante del governo inglese. È vero, Jody?»
«Sì, – rispose il mulatto. – Quel briccone è un ladro, come lo era il Guercio.»
Un profondo silenzio accolse quelle parole, rotto solo dai singhiozzi della fanciulla che si era inginocchiata accanto al corpo sempre immobile del pescatore di perle; poi tutto d’un tratto un grand’urlo di rabbia echeggiò per l’immensa sala e una folla minacciosa circondò il poco fortunato irlandese, minacciandolo coi pugni e colle spade.
L’imminenza del pericolo restituì al sorvegliante un po’ di coraggio.
«Questi uomini hanno mentito! – urlò. – Io sono il rappresentante del governo inglese ed essi sono dei furfanti matricolati, degli evasi dal bagno.»
Il re, con un cenno della mano, fece tacere i suoi sudditi e fermare le spade che stavano per fare a pezzi il disgraziato ubriacone.
«Questi uomini, – disse, accennando ai tre ex-forzati, – mi hanno dato la prova di essere dei galantuomini, perché se non fossero stati tali non avrebbero riportato qui la preziosa perla che ha un valore inestimabile.
«Per di più mi hanno dato la prova di essere stati assaliti, e la ferita riportata da uno di loro, tutti quelli che sono qui presenti l›hanno veduta.
«Mostra ora il mandato d›arresto ed i tuoi documenti, che comprovino essere tu quello che affermi.»
«Io non li ho ora qui, – balbettò l›irlandese, confuso. – Potrò avere più tardi l›uno e gli altri.»
«Sta bene: quando me li mostrerai tornerai qui. Chi te li fornirà?»
«Le autorità di Colombo.»
Il re fece avvicinare i malabari della guardia che stavano alla porta:
«Conducete quest›uomo fino alla frontiera per ora, onde possa procurarsi i documenti che gli mancano. Vi do tempo quarant›otto ore per raggiungerla.»
Poi, mentre l’irlandese, confuso e svergognato, veniva condotto fuori dal monastero, aggiunse, volgendosi verso Will.
«Vedremo se quando tornerà voi sarete ancora qui. Per ora siete miei ospiti fino alla completa guarigione di questo coraggioso pescatore di perle.»
Conclusione
Otto giorni dopo un superbo elefante, scortato da venti malabari della guardia reale, lasciava Annarodgburro, avviandosi verso la costa orientale di quell’isola meravigliosa.
Era montato da Palicur, quasi completamente guarito dalla sua ferita, dalla bellissima figlia di Chital, da Will e dal mulatto.
Il re di Candy aveva mantenuto la promessa di farli fuggire prima che tornasse l’irlandese, e anche quella di regalare una ricca dote alla fanciulla.
Otto giorni più tardi i tre amici raggiungevano la costa, nei pressi di Batticoloa, e s’imbarcavano su un piccolo veliero, appositamente noleggiato, per Batavia, la regina del mare della Sonda, onde non correre più oltre il pericolo di perdere quella libertà acquistata con grandi sacrifici.
Tutti e tre hanno rinunciato al mare e sono essi dei prosperosi negozianti di spezie. Il più felice di tutti però è Palicur, che adora sempre alla follia la piccola e gentile figlia del vecchio Chital.
In quanto all’irlandese, nessuno più ne udì parlare. Probabilmente, dopo il pericolo corso e la cattiva accoglienza fattagli dal re di Candy, non si era più sentito il coraggio di mostrarsi fra quelle montagne, dove l’aria era così poco salubre pei suoi polmoni.