Kitabı oku: «La regina dei Caraibi», sayfa 12
CAPITOLO XIX. L’ASSALTO DI VERA-CRUZ
I filibustieri della Tortue, decisi più che mai ad espugnare quella grande e ricchissima città del Messico, protetti da una fortuna veramente insperata, erano riusciti ad accostarsi alle coste senza che gli spagnuoli, che pur si tenevano sempre in guardia, se ne fossero accorti.
Per meglio ingannare gli avversarii, essi avevano approfittato d’una circostanza fortunata.
Avendo appreso che a Vera-Cruz si attendevano due vascelli provenienti da S. Domingo, i filibustieri avevano arrestato il grosso della flotta in alto mare e con due sole navi, sulle quali avevano imbarcati i più risoluti combattenti, si erano spinti audacemente nel porto, inalberando il grande stendardo di Spagna.
Lo stratagemma era riuscito al di là d’ogni speranza. Gli abitanti, convinti che fossero i due vascelli attesi, non si erano dati alcun pensiero di verificare la cosa e tanto meno le autorità del porto.
Le due navi corsare si erano ancorate sul cader del giorno, verso l’estremità del porto, fuori tiro dei forti, onde in caso di pericolo poter prendere sollecitamente il largo. Calata la notte, Laurent, Grammont e Wan Horn avevano fatto mettere in acqua le scialuppe, cominciando lo sbarco. Un drappello d’uomini scelti, sbarcato poco prima, aveva già sorprese e uccise le guardie costiere, impedendo così che gli abitanti ed il governatore potessero venire avvertiti del grave pericolo che sovrastava alla città addormentata. Operato lo sbarco, i filibustieri, divisi in tre colonne, s’erano cacciati silenziosamente sotto i boschi che in quell’epoca circondavano la piazza, guidati da alcuni schiavi che avevano fatti prigionieri. Essendo però la città chiusa da bastioni che la difendevano dalla parte di terra, unitamente ad un forte armato di dodici cannoni di grosso calibro, si videro costretti ad attendere l’apertura delle porte, non avendo scale per varcare le mura.
Laurent, Grammont e Wan Horn, fatti nascondere i loro uomini negli orti che circondavano la città, si radunarono per decidere sul da farsi, prima d’impegnarsi fra le mura.
«Una cosa sola ci rimane da fare,» disse pel primo Grammont, il quale, avendo appartenuto all’armata regolare francese, godeva una certa influenza sui suoi due compagni. «Dare innanzi a tutto l’assalto al forte che domina la città dalla parte di terra.»
«Impresa difficile,» rispose Wan Horn.
«Ma non impossibile,» disse Laurent che non trovava alcuna impresa temeraria.
«Ha dodici grossi cannoni sugli spalti,» osservò Wan Horn, «mentre noi non abbiamo nemmeno una colubrina.»
«Le nostre sciabole vinceranno le bombe.»
«E le nostre granate allontaneranno i difensori,» aggiunse Grammont. «I nostri uomini ne sono ben provvisti.»
«Volete affidare a me l’impresa?» disse Laurent. «Prima che l’alba sorga vi assicuro che il forte cadrà in mia mano.»
«E noi?» chiese Wan Horn.
«Vi rovescerete sulla città appena aperte le porte.»
«Sia,» disse Grammont, dopo una breve esitazione. «Il forte ci è necessario per non farci schiacciare fra le mura della città.»
«Allora andiamo,» disse Laurent. «I minuti sono preziosi.»
Un quarto d’ora dopo, una colonna formata di trecento filibustieri, scelti fra i più risoluti della squadra, lasciava silenziosamente le ortaglie, guidata da due schiavi. Il forte che doveva assaltare si trovava su di un’altura dominante la città e si ergeva a ridosso delle mura di cinta. Era una costruzione massiccia, fornita di merlature assai grosse e presidiata da cinquecento uomini, i quali avrebbero potuto resistere lungamente se si fossero accorti della presenza dei loro accaniti avversarii.
L’ardita colonna, protetta dalle tenebre, s’avvicinava rapidamente per tema di venire sorpresa dai primi albori. Era ancora molto scuro quando giunse nei fossati dei bastioni.
«Sorprenderemo la guarnigione,» disse Laurent ai filibustieri che gli stavano presso.
I bastioni, da quella parte, erano in parte diroccati, sicchè una scalata non era difficile per quegli uomini abituati a inerpicarsi sugli alberi delle navi coll’agilità degli scoiattoli.
«La sciabola fra i denti e avanti,» comandò Laurent.
Per primo s’aggrappa alle sporgenze del bastione e sale. Gli altri gli tengono dietro afferrandosi agli sterpi, puntando i piedi nei crepacci e aiutandosi vicendevolmente.
La catena umana s’allunga, serpeggiando, rompendosi, riallacciandosi e raggiunge felicemente la cima del bastione: restava però da superare la muraglia del forte, alta non meno di dieci metri e perfettamente liscia. Quell’ostacolo fece titubare quegli audaci. Guai se gli spagnuoli li avessero sorpresi sul bastione!… Forse neppur uno sarebbe sfuggito alla morte!
«Bisogna salire prima che sorga l’alba, – dice Laurent ai sotto-capi che lo circondano, – e non abbiamo che mezz’ora di tempo!
Infatti verso oriente l’oscurità cominciava a diradarsi lievemente. La luce degli astri impallidiva ed una striscia biancastra si diffondeva pel cielo. Il momento è terribile. Da un istante all’altro un grido d’allarme può rompere il silenzio e far accorrere l’intera guarnigione.
Un’idea attraversa il cervello di Laurent. Aveva veduto una palizzata eretta dietro al bastione, sormontata da due antenne, lunghe quanto e forse più dell’altezza della muraglia.
Manda alcuni uomini a levarle e le fa appoggiare, con infinite precauzioni, ai merli del forte.
«All’abbordaggio! – comandò.
Per primo s’aggrappa ad un’antenna e aiutandosi colle mani e coi piedi si spinge in alto. Marinaio valente, non trova alcuna difficoltà a giungere sulla cima. Appena superato il merlo, si trova dinanzi ad una sentinella spagnuola armata d’alabarda. Il soldato rimane così sorpreso per quell’improvvisa apparizione che non pensa nemmeno a far uso della propria lancia, nè a dare l’allarme.
Laurent con un salto da tigre gli è sopra e con un colpo di sciabola lo getta a terra moribondo. Il soldato però raccoglie le ultime forze per mandare un grido d’allarme: «I filibustieri!…»
La guarnigione del forte, svegliata di soprassalto, dà mano alle armi e si precipita nel cortile del forte per accorrere alle artiglierie.
È troppo tardi!… I trecento corsari si sono già radunati e l’assaltano con furore, sgominando, con una carica irresistibile, le prime file. Intanto alcuni filibustieri sfondano la porta della polveriera e fanno rotolare fuori i barili disponendoli intorno al fabbricato centrale, nel cui interno trovasi ancora la maggior parte della guarnigione.
Da ogni parte s’alza il grido:
«Arrendetevi, o vi facciamo saltare in aria!»
Quella terribile minaccia produce maggior effetto della carica. Gli spagnuoli, sapendo di quanto erano capaci quei tremendi scorridori del mare e vedendosi già impotenti a far fronte all’assalto, dopo una breve resistenza abbassano il grande stendardo di Spagna, che ondeggia sulla più alta torre e depongono le armi dopo d’aver ricevuta la promessa d’aver salva la vita.
Laurent fa rinchiudere i prigionieri nelle casematte del forte, dispone intorno numerose sentinelle, poi ordina di puntare le artiglierie verso la città gridando:
«Prima un colpo, poi una scarica generale. È l’annuncio della vittoria!
Una cannonata rimbomba, poi gli altri undici pezzi s’infiammano contemporaneamente con orribile frastuono, facendo piovere una grandine di palle sulla disgraziata città ancora immersa nel sonno.
Grammont e Wan Horn avevano atteso quel segnale in preda ad un’angoscia che è facile immaginare. Dalla presa del forte dipendeva la vittoria od una disastrosa sconfitta.
Udendo quegli spari, balzano attraverso le siepi delle ortaglie.
«Avanti, uomini del mare! Vera-Cruz è nostra!
I filibustieri abbandonano i loro nascondigli e si slanciano sulla strada che conduce alla città. Sono seicento, armati di fucili, di sciabole d’abbordaggio e di pistole e decisi a tutto, anche a dare l’assalto al formidabile forte di S. Giovanni de Luz, se sarà necessario.
Lungo la via arrestano i contadini che si dirigono verso la città coi loro cavalli e muli carichi di provviste e di erbaggi e giungono dinanzi alla porta nel momento in cui veniva aperta.
Il loro assalto è così improvviso che le guardie non pensano nemmeno a opporre resistenza. Alcune però riescono a fuggire attraverso la città, urlando:
«Alle armi!… I filibustieri!
Mentre i filibustieri si rovesciano entro la città come un torrente che dilaga, sulla loro destra, dalla parte dei primi giardini, odono alcuni spari, quindi vedono dei soldati fuggire a rompicollo inseguiti da quattro uomini che tirano stoccate e colpi di navaja con furore terribile.
Grammont che era alla testa della prima colonna, si slancia da quella parte, credendosi assalito di fianco.
Un grido gli sfugge:
«Il Corsaro Nero!
Era infatti il signor di Ventimiglia il quale aiutato dai suoi tre valorosi, aveva fugato i soldati che avevano uccisa Yara, poi superato il muro di cinta si era slanciato dietro ai fuggiaschi, ebbro di vendetta.
«Grammont!» esclamò, vedendo il gentiluomo francese.
«Giungete in buon momento, cavaliere,» gridò Grammont. «Venite!»
«Eccomi,» disse il Corsaro.
«Ed il duca è morto?»
«Fuggito ancora, mentre stavo per inchiodarlo al muro con un colpo di spada,» rispose il Corsaro con voce sorda.
«Lo ritroveremo, signor di Ventimiglia. All’assalto, uomini del mare! Il Corsaro Nero è con noi!»
La battaglia era incominciata per le vie della città, terribile, sanguinosa.
I soldati e gli abitanti, passato il primo momento di stupore e di terrore, si erano precipitati nelle strade per contrastare il passo ai corsari. Da tutte le parti si combatteva con rabbia estrema, mentre i cannoni del forte tuonavano senza posa, abbattendo campanili e case e facendo piovere sui tetti una grandine di bombe.
In mezzo al fragore orrendo delle abitazioni che diroccavano sotto quei tiri incessanti, alle scariche di moschetteria, alle urla dei combattenti ed alle grida lamentevoli dei feriti, si udivano le grida dei capi a tuonare senza posa:
«Avanti!… Abbruciate!… Distruggete!
Intanto dalle finestre cadono sulle loro teste vasi di fiori, scranne, tavole, macigni e dai tetti partono colpi di fucile. Ad ogni momento turbe di soldati li assalgono ai fianchi od alla coda impegnando sanguinosi combattimenti. Non importa!… Avanti sempre!…
«Uno sforzo ancora e Vera-Cruz è nostra!» gridano i capi.
Le ultime vie, con uno sforzo supremo, sono superate ed i filibustieri irrompono dove si ergeva in quell’epoca una bellissima cattedrale. Le truppe spagnuole ammassate sulla piazza, di fronte al palazzo del governo, tentano di far argine all’irruzione dei corsari. Hanno piazzati alcuni pezzi di cannoni e chiamata parte del presidio del forte di S. Giovanni de Luz, forte diventato affatto inutile avendo le difese volte verso il mare.
«Avanti!» gridano il Corsaro Nero, Grammont e Wan Horn, gettandosi animosamente nella mischia. La lotta diventa selvaggia, feroce. Gli spagnuoli, spalleggiati dagli abitanti, resistono tenacemente, ma più nulla ormai arresta i filibustieri. Con scariche bene aggiustate spazzano il terreno dinanzi a loro e uccidono sui loro pezzi gli artiglieri, poi piombano sulle colonne spagnuole colla sciabola d’abbordaggio in pugno.
Nessuno resiste ai fieri scorridori del mare, già imbaldanziti dai primi successi. Gli spagnuoli, rotti, scompaginati, s’arrendono o fuggono attraverso le vie della città, travolgendo nella loro pazza corsa donne e fanciulli. I filibustieri assaltano il palazzo del governo e fanno strage di quanto trovano entro, poi lo incendiano; altri danno l’attacco ai palazzi, sfondano con travi le porte o frantumano le grosse inferriate, afferrano gli abitanti e li trascinano nella cattedrale nonostante i pianti e le urla.
Dei barili di polvere vengono messi alle porte assieme a degli uomini muniti di micce accese. Hanno ricevuto l’ordine di far saltare l’edifizio al primo tentativo di rivolta da parte dei prigionieri.
Intanto gli altri saccheggiano i palazzi, le case, i magazzini, le chiese, i monasteri e perfino le navi ancorate in porto.
Bisogna far presto. Tutti sanno che nei dintorni, a non molte leghe, vi sono grosse guarnigioni le quali possono piombare improvvisamente su Vera-Cruz.
Mentre i filibustieri si abbandonavano al saccheggio più sfrenato, il Corsaro Nero seguito da Carmaux, da Moko, dall’amburghese e da una quindicina d’uomini della Folgore, visita i palazzi, le case, perfino i più umili tuguri. Non ha che un solo desiderio: scovare il suo mortale nemico.
Cosa importa a lui dei tesori che si trovano in Vera-Cruz? Tutti li avrebbe dati per poter riavere nelle mani l’odiato fiammingo.
Vane ricerche. Nelle case non trova altro che donne piangenti, fanciulli strillanti, uomini feriti e filibustieri minacciosi occupati a derubare i miseri abitanti.
«Nulla!… Nulla!…» rugge il Corsaro.
Ad un tratto un’idea gli balena nel cervello.
«Dalla marchesa di Bermejo!» grida ai suoi uomini.
Attraversa di corsa la città aprendosi il passo fra i cittadini fuggenti ed i filibustieri che li inseguono e giunge, un quarto d’ora dopo, dinanzi al giardino.
Il cancello era stato abbattuto ed alcuni corsari erano già giunti dinanzi al palazzo per metterlo a sacco.
Con grida minacciose avevano intimato ai servi di aprire la porta che era stata sbarrata, ma non avevano ricevuto risposta alcuna. Credendo che gli abitanti volessero fare resistenza, già stavano per scagliarsi contro le finestre del pianterreno quando comparve il Corsaro.
«Via di qua!» gridò il signor di Ventimiglia, alzando la spada.
I filibustieri si dileguarono tosto.
«Grazie, cavaliere,» disse una voce a lui ben nota.
La marchesa di Bermejo era comparsa ad una finestra del piano superiore, assieme ai due servi armati di fucile.
«Aprite, signora,» disse il Corsaro, salutandola colla spada.
Un momento dopo la porta, che era stata barricata, lasciava il passo al Corsaro.
La marchesa era già scesa e l’attendeva nel medesimo salotto dove aveva avuto luogo il duello col duca.
«È perduta la città, è vero, cavaliere?» disse la marchesa, con voce alterata.
«Sì, signora,» rispose il Corsaro. «Ve lo avevo detto che la guarnigione si sarebbe arresa dinanzi all’assalto dei filibustieri.»
«Triste guerra, cavaliere.»
Il Corsaro non rispose. Si era messo a passeggiare per la stanza con viva agitazione. Ad un tratto si fermò dinanzi alla marchesa, dicendole:
«Io non l’ho trovato.»
«Chi?»
«Il duca.»
«L’odiate molto quell’uomo?»
«Immensamente, signora.»
«E siete tornato qui colla speranza di trovarlo nascosto.»
«Sì, marchesa.»
«Non è più tornato.»
«Dite il vero?»
«Ve lo giuro.»
«Dove si sarà rifugiato quell’uomo adunque?»
La marchesa lo guardò in silenzio; pareva che esitasse a rispondere.»
«Voi ne sapete qualche cosa, signora, – disse il Corsaro.»
«Sì,» rispose la marchesa, con voce recisa.
«Voi amate quell’uomo?»
«No, cavaliere.»
«Chi dunque v’impedisce di dirmi dove potrei trovarlo?»
«Egli era ai servizi della Spagna.»
«Per opera d’un infame tradimento, – proruppe il Corsaro con ira.»
«Lo so, – mormorò la marchesa, chinando il capo.»
Poi dalla borsetta di velluto cremisi che le pendeva dal fianco levò un biglietto e lo porse, dopo una breve esitazione, al Corsaro, dicendo:»
«L’ho ricevuto due ore fa: leggetelo.»
Il Corsaro s’era impadronito vivamente di quella carta. Non vi erano che poche righe.
«Sono riuscito a raggiungere l’Escurial ed a prendere il largo. Farete le mie scuse al governatore, ma motivi urgenti mi costringono a recarmi nella Florida.
Diego vi dirà il resto.
Wan Guld»
«Partito!» esclamò il Corsaro. «Egli mi sfugge ancora!…»
«Saprete dove ritrovarlo,» disse la marchesa.
«Voi conoscete l’Escurial?»
«Non so che nave sia, cavaliere, ma da Diego potrete avere molte informazioni preziose.»
«Chi è quell’uomo?»
«Un confidente del duca.»
«Dove si trova?»
«Nel forte di San Giovanni de Luz.»
«Il forte non ha capitolato, signora.»
«Cercate un mezzo per avere in mano quell’uomo. Egli sa molte cose sul duca che io stessa ignoro e forse potrà spiegarvi il motivo per cui il duca si reca nella Florida.»
«Infatti questa partenza per quella lontana regione mi è inesplicabile.»
«Ed a me pure, cavaliere,» disse la marchesa. «Era qualche tempo che mi parlava di questo viaggio e…»
«Continuate, marchesa,» disse il Corsaro, vedendola esitare.
«Vorrei raccontarvi una strana istoria, che vi può interessare.»
«È probabile.»
«Voi allora sapete molte cose che…»
«Non io, Diego.»
«Allora bisogna che io abbia nelle mie mani quell’uomo.»
«Per ora ascoltatemi, cavaliere.»
«Di cosa si tratta?…»
«Ve l’ho già detto. È una istoria che v’interessa.»
Poi guardandolo fisso, disse lentamente:
«Di Honorata!…»
CAPITOLO XX. LA MARCHESA DI BERMEJO
Il Corsaro udendo quel nome si era lasciato cadere su di una sedia, nascondendosi il viso fra le mani. Un sordo gemito gli era uscito dalle labbra assieme ad un singhiozzo soffocato. Egli rimase alcuni istanti come accasciato, impotente a pronunciare una sola parola od a ripetere il nome della povera fiamminga che aveva così immensamente amata e pianta come morta.
Ad un tratto si alzò di scatto. Era livido ed i lineamenti del suo volto erano spaventosamente alterati. Guardò per alcuni istanti, come trasognato, la marchesa, poi facendo uno sforzo, disse con voce rotta:
«Volete straziarmi il cuore, signora? A quale scopo parlarmi di quella giovane? È morta e dorme in pace, negli abissi del mare, a fianco dei miei fratelli.»
«Forse v’ingannate, cavaliere,» disse la marchesa.
«Volete farmi balenare la speranza che la giovane fiamminga sia viva?» chiese il Corsaro, avvicinandosi bruscamente alla marchesa, più pallido che mai.
«Diego Sandorf ne è convinto.»
«Chi è quest’uomo?»
«Ve l’ho detto: il confidente del duca: un vecchio fiammingo»
«E fu lui a parlarvi di Honorata?»
«Sì, cavaliere.»
«Allora voi sapete…»
«Tutto, tutto… Fu una terribile vendetta la vostra, ma…»
«Tacete, marchesa,» disse il Corsaro ricadendo sulla sedia e ricoprendosi il viso.
Stette alcuni minuti silenzioso, immerso in cupi pensieri, poi scuotendosi e rialzandosi, disse:
«No, Honorata Wan Guld è morta.»
«Chi ve lo assicura, cavaliere? Avete veduto il suo cadavere ondeggiare sulle acque del golfo?»
«No, ma la notte in cui io l’abbandonai nella scialuppa soffiava forte il vento e l’uragano stava per scoppiare. Anche a me fu narrato che la fiamminga era stata raccolta e per molto tempo ho sperato, ho creduto alla voce, ma ora… è una delle tante leggende del golfo.»
«Diego Sandorf mi ha assicurato che la duchessa era stata veramente raccolta da una caravella spagnuola, naufragata più tardi sulle spiagge della Florida.»
«Ed a me fu raccontato, da don Pablo de Ribeira, intendente del duca a Puerto Limon, che la scialuppa montata dalla duchessa era stata incontrata verso le coste occidentali di Cuba. A chi credete ora?»
«A Diego Sandorf, cavaliere,» disse la marchesa. «Voi forse avete dimenticato che il duca è partito per la Florida.»
«E voi credete?…» chiese il Corsaro, colpito da quelle parole.
«Che egli sia andato a cercare sua figlia.»
Un’ondata di sangue era montata in viso al Corsaro, tingendo vivamente quella pelle ordinariamente pallidissima.
«Viva!» esclamò. «Honorata viva!… Che Dio abbia potuto compiere questo miracolo?… Marchesa, mi è necessario questo Sandorf. Bisogna che io lo interroghi.»
«Vi ho detto che è rinchiuso nel forte di San Giovanni de Luz.»
«Andiamo a rapirlo!» esclamò il Corsaro, come se avesse preso una rapida decisione.
«Quale audacia!… Ma non sapete che nel forte vi sono sessanta cannoni e ottocento uomini?
«Che importa?»
«Vi uccideranno, cavaliere.»
«Sono abituato a sfidare la morte.»
«Bisogna vivere.»
«Oh!… Sì, per vendicare i miei fratelli,» disse il Corsaro con voce cupa.
«E per Honorata.»
Il Corsaro ebbe un fremito, ma non rispose. Si era rimesso a passeggiare per la stanza, come una fiera rinchiusa nella gabbia.
«Addio, signora,» disse ad un tratto.
«Siete sempre deciso?»
«Sì, marchesa. Andrò a rapire quell’uomo.»
«Aspettate, cavaliere: chi sa!…»
«Cosa volete dirmi ancora?»
La spagnuola si era accostata ad una scrivania d’ebano ad intarsi di madreperla ed aveva vergato alcune righe, poi porse il foglio al Corsaro, dicendo:
«Trovate il modo di farlo avere a Diego Sandorf.
Il Corsaro si era impadronito vivamente del biglietto, su cui la marchesa aveva scritto le seguenti parole:
«Un gentiluomo mio amico desidera parlarvi. Egli attenderà questa notte sotto l’ultimo torrione di levante, dalle dodici all’alba.
È venuto coi filibustieri e ripartirà assieme a loro. Siate all’appuntamento.
Ines De Bermejo»
«Grazie, marchesa,» disse il Corsaro, «ma voi correte il pericolo di compromettervi.»
«E perchè, cavaliere? Forse che vi do il mezzo per impadronirvi del forte? Anzi evito ai miei compatriotti questo pericolo.»
«Avete favorito un filibustiere.»»
«No, un gentiluomo, cavaliere. Voi non siete un nemico della mia patria.»
«Ossia non lo sarei mai stato, se il mio triste destino non m’avesse gettato dinanzi al duca.»
Addio, signora, forse ci rivedremo prima che io salpi per la Florida.»
«Una parola, cavaliere.»
«Pariate, signora.»
«Se Honorata fosse viva… cosa fareste del duca, di suo padre?»
Il Corsaro la guardò fisso, a lungo, poi disse:
«Credete voi, signora, che le anime dei miei fratelli siano placate? Quando il mare diventa fosforescente il Corsaro Rosso ed il Verde, le vittime del duca, rimontano a galla: essi chiedono vendetta.
Quando l’uragano viene dall’oriente, in mezzo alle urla del vento, io odo una voce che viene dalle spiagge della Fiandra: è quella di mio fratello maggiore, assassinato a tradimento dal duca e quella voce chiede pure vendetta.»
La marchesa provò un brivido.
Il Corsaro, dopo un breve silenzio, proseguì:
«Fra cinque giorni sarà un anno che la salma del Corsaro Rosso, staccata da me dalla forca di Maracaibo è scesa negli abissi del mare. Se quella notte il mare fiammeggerà Wan Guld non avrà grazia da me.»
«E Honorata?» chiese la marchesa.
«Il mio destino è scritto,» rispose il Corsaro con voce triste, «ma io sono pronto a sfidarlo.»
«Cosa volete dire, cavaliere?»
Il Corsaro invece di rispondere le strinse la mano, poi uscì a rapidi passi senza aggiungere sillaba.
Nel giardino lo aspettavano i filibustieri con Carmaux, Moko e Wan Stiller.
«Che gli uomini della Folgore se ne vadano,» disse. «Rimangano solo i miei fidi.»
Stava per inoltrarsi nel gran viale seguito da Carmaux, dal negro e dall’amburghese, quando fu veduto arrestarsi.
«E Yara?» mormorò con un sospiro.
Ritornò sui proprii passi e rientrò nella sala pianterrena del palazzo. La marchesa di Bermejo era ancora là, appoggiata ad una sedia, triste, pensierosa.
«Dov’è?» le chiese il Corsaro, con un leggero tremito. «Voglio vederla un’ultima volta.»
«Seguitemi, cavaliere,» rispose la spagnuola, che l’aveva compreso.
Lo guidò in una stanza attigua, riccamente ammobiliata.
Adagiata su di un sofà di velluto verde, fra due alti candelieri e coperta di un lenzuolo di fiandra, giaceva la povera indiana.
I suoi lineamenti delicati non erano stati alterati dagli ultimi spasimi della morte. Pareva che dormisse o che sognasse, poichè le labbra erano schiuse ad un lieve sorriso.
Un filo di sangue era uscito al disotto del lenzuolo e si era raggrumato sul tappeto.
Il Corsaro contemplò, con triste sguardo, quel bel viso, poi, curvandosi sulla morta, le impresse sulla fronte un ultimo bacio, mormorando:
«Tu pure sarai vendicata, Yara; il Corsaro manterrà il giuramento.»
Poi fuggì e raggiunse i suoi uomini, come se avesse voluto nascondere alla marchesa la profonda emozione che gli aveva alterato il volto.
«Venite,» disse con voce brusca a Carmaux ed ai suoi due compagni.
Attraversò quasi correndo il giardino e si cacciò fra le viuzze della città, dirigendosi verso la piazza maggiore.
Quantunque la notte cominciasse a calare, il saccheggio continuava da parte dei filibustieri. In ogni casa che entravano, gettavano alla porta gli abitanti, costringendoli, con minacce di morte, ad abbandonare i loro averi ed a lasciare la città, sicchè le vie erano ingombre di fuggiaschi.
Il Corsaro pareva che nulla vedesse. Continuava a camminare a passi rapidi, immerso in profondi pensieri, cercando solamente di farsi largo fra i fuggenti. Carmaux ed i suoi compagni lo seguivano con non poca fatica, sagrando contro la gente che ostacolava la loro corsa.
«Vedremo dove si fermerà,» diceva Carmaux. «Il capitano è in burrasca!… Per bacco! Non l’ho mai veduto correre in questo modo!»
«Sarà successo qualche cosa di grave,» diceva l’amburghese. «Quando il capitano è uscito dal palazzo, mi pareva sconvolto.»
«Chissà che rabbia gli bolle dentro, amico Stiller. Capirai che non deve essere lieto di aver perdute le tracce di quel dannato duca.»
E l’aveva già sulla punta della spada!…
«Già la terza volta che ci guizza di mano. Prima a Maracaibo, poi a Gibraltar ed ora qui.»
«Finirà però per cadere nelle nostre mani,» concluse Carmaux.
Erano allora giunti sulla piazza maggiore, dove i filibustieri avevano stabilito il loro quartier generale.
La vasta piazza era ingombra di prigionieri, di artiglierie, di armi e di ammassi di merci rubate dai grandiosi depositi delle dogane.
Duecento filibustieri, armati di fucili, avevano occupato il piazzale del palazzo del governatore per impedire, da parte dei prigionieri, qualsiasi tentativo di ribellione e altri cento avevano circondata la cattedrale, nel cui interno erano stati chiusi i personaggi più ragguardevoli della città e dai quali si contava di trarre dei grossi riscatti.
Ad ogni istante giungevano drappelli di filibustieri, con nuovi prigionieri, o spingendosi innanzi colonne di schiavi negri o di mulatti carichi di merci preziose o di viveri che venivano tosto consumati dai corsari di guardia.
«Dov’è Grammont? – chiese il Corsaro ad un filibustiere che era seduto su di un barile di polvere, tenendo in mano una miccia accesa.
«Nel palazzo del governatore, cavaliere,» rispose la sentinella.
«E Laurent?»
«Tiene sempre il forte.»
«E Wan Horn?»
«Guarda il presidio di San Giovanni de Luz.»
Il Corsaro attraversò la piazza ed entrò nel palazzo del governatore, una costruzione massiccia che aveva l’aspetto d’un forte e che nondimeno aveva capitolato al primo assalto dei filibustieri, quantunque difesa da un presidio numeroso. In una sala, già per metà piena di verghe d’oro e d’argento e di gioielli preziosi, frutto del saccheggio, trovò il gentiluomo francese.
«L’oro affluisce come un fiume, cavaliere,» disse Grammont, appena scorse il Corsaro. – Ne abbiamo già per quattro milioni di piastre.»
Non sono venuto qui per contemplare le ricchezze di Vera-Cruz.»
«Lo so,» disse il francese, ridendo. «Mi rincresce dirvelo, il vostro nemico non si è trovato fra i prigionieri. Però quando il saccheggio sarà finito, farò frugare tutte le case della città. In qualche nascondiglio noi lo troveremo, cavaliere.»
«Sarebbe tempo sprecato.»
«E perchè?»
«È già al largo.»
«Partito!» esclamò il signor di Grammont, con stupore.
«Sì, a bordo d’un legno che si chiama l’Escurial.»
«E quando?»
«Fino da ieri sera.»
«E voi?»
«Mi preparo ad inseguirlo,» rispose il Corsaro, con tono risoluto.
«Ci lasciate?»
«Non ora però. Devo fare qualche cosa d’altro in Vera-Cruz e venivo in cerca di voi per consigliarmi.»
«Cosa volete tentare ancora?»
«Devo recarmi a S. Giovanni de Luz.»
«Nel forte!» esclamò il gentiluomo francese, facendo un atto di stupore.
«Sì, Grammont.»
«Quale pazzia state per commettere?»
«Non è una pazzia; devo andarci per avere una informazione urgente.»
«Che riguarda il duca?»
«Lui e… Honorata.»
«La fiamminga?… Che sia vera la leggenda?»
«Si dice che sia viva.»
«Lo credete?»
«Ve lo dirò quando avrò parlato coll’uomo che si trova nel forte di San Giovanni.»
«Vi sono gli spagnuoli nella rocca.»
«Lo so.»
«Vi andrò egualmente.»
«Vi prenderanno.»
«Forse no.»
«Avete qualche talismano?»
«Un semplice biglietto che farò recapitare all’uomo che desidero interrogare.»
«E da chi?»
«Da qualche soldato spagnuolo.»
«Ne abbiamo tre o quattrocento fra i prigionieri.»
«Benissimo: ora ascoltatemi, di Grammont. Se io domani, all’alba, non dovessi ritornare, ritenetemi come morto o, alla meno peggio, prigioniero.»
«Allora so che cosa mi resta a fare.»
«Spiegatevi, di Grammont.»
«Preparare i miei filibustieri per l’assalto della rocca.»
«Voi non lo farete.»
«Non ora, ma domani mattina. Se all’alba voi non sarete qui, io, Laurent e Wan Horn daremo la scalata alla rocca e vivaddio la prenderemo, malgrado il presidio ed i sessanta cannoni che la difendono.»
«Non voglio che si sacrifichino inutilmente i nostri uomini. Se io non sarò di ritorno, avvertirete Morgan d’incrociare al largo colla mia Folgore, per una settimana intera, dopo la quale andrà dove vorrà.»
«E voi credete, cavaliere, che i nostri filibustieri se ne andrebbero tranquilli, sapendovi nelle mani degli spagnuoli? Non speratelo.»
«Faranno ciò che vorranno. D’altronde non sarò così sciocco da lasciarmi prendere.
Agirò con prudenza. Orsù, datemi un prigioniero.
Il signor di Grammont uscì e poco dopo rientrava conducendo un giovane soldato spagnuolo. Il povero uomo, credendo forse che lo si volesse fucilare, era pallido come un cencio lavato e guardava il filibustiere con occhi terrorizzati.
«Eccone uno che può fare per voi, » disse Grammont, spingendolo verso il signor di Ventimiglia.
Questi lo guardò per qualche istante, poi ponendogli una mano su una spalla, gli disse: «Io ti accordo la libertà senza riscatto, non solo, ma ti regalo cinquecento piastre se mi rendi un servizio.»
«Parlate, signore,» disse lo spagnuolo, rinfrancato da quelle parole.
«Tu conosci la marchesa di Bermejo.»
«E chi non la conosce in Vera-Cruz?»
«E Diego Sandorf?»
«Il confidente del duca fiammingo?»
«Sì.»
«Lo conosco, signore.»
«Tu ti recherai all’istante al forte di S. Giovanni de Luz e consegnerai al signor Sandorf questo biglietto. Gli dirai che glielo manda la marchesa di Bermejo. Io aspetterò la tua risposta alla base del torrione di levante, dal lato del golfo e riceverai le cinquecento piastre. Bada però che se tu cerchi di tradirmi, noi espugneremo il forte per farti morire fra i più atroci tormenti.»
«Preferisco la libertà e le cinquecento piastre, signore.»