Kitabı oku: «La regina dei Caraibi», sayfa 6
«Prosegui, fanciulla, Le donne della tua razza sono forti.»
«È vero, mio signore, ma certe immani sciagure spezzano il cuore.
Il duca era stato ricevuto, come vi dissi, pari ad un fratello. Mio padre, che giammai aveva veduto uomini dalla pelle bianca, aveva creduto quel naufrago un essere superiore, come una specie di divinità del mare, tanto più che i nostri stregoni avevano predetto che un giorno, dai lontani paesi ove il sole si leva, sarebbero venuti degli uomini cari al Grande Spirito.
Ah! La triste profezia doveva purtroppo avverarsi, ma quegli uomini, anzichè protetti dal Grande Spirito, erano figli del regno delle tenebre e creati dal cattivo genio, dallo Spirito del male.
L’uomo bianco, gettato dal mare sulle nostre spiagge, ebbe onori e favori e divenne l’amico di mio padre, degli stregoni e dei più celebrati guerrieri del mio paese e guadagnò così bene la loro fiducia da strappare a quegli ingenui il segreto dell’oro.»
«Il tuo paese era ricco d’oro?» chiese il Corsaro.
«Sì aveva delle miniere ricchissime che da secoli venivano lavorate dai nostri schiavi per pagare il tributo annuale al Re del Darien. Tesori immensi erano stati accumulati in certe caverne nascoste fra le montagne e che i soli cacichi conoscevano.
Un giorno mio padre, che non diffidava dell’uomo bianco, lo condusse in quelle caverne e gli mostrò quelle ricchezze favolose e quell’infame, dimenticando i favori ricevuti, da quel giorno non sognò che di tradire il nostro popolo per impadronirsi di quelle montagne d’oro.
Si finse ammalato ed esternò il desiderio di ritornare per qualche tempo al suo paese.
Egli aveva detto a mio padre che sarebbe morto se non avesse riveduto, sia pure per breve tempo, gli uomini della sua razza. Fu creduto ed un mattino partì in una delle nostre canoe, accompagnato da quattro indiani, promettendo di tornare presto.
Egli mantenne la parola. Due mesi dopo una grande casa galleggiante approdava alle nostre spiagge e ne discendeva l’uomo bianco assieme a parecchi marinai carichi di barili.
«Prendi», disse a mio padre, additandogli i barili. «Questo è il regalo che faccio al tuo popolo.»
Fece sfondare quei recipienti e chiamò a raccolta la tribù, offrendo a tutti da bere. Non era vino quello che aveva recato bensì l’acqua di fuoco.()
I nostri sudditi mai avevano assaggiato un simile liquore prima dell’arrivo degli spagnuoli. Come puoi immaginarti, mio signore, si gettarono avidamente su quei recipienti che davano loro l’ebbrezza.
L’acqua di fuoco non scemava. Dalla casa galleggiante ne giungeva sempre, con una prodigalità folle ed il popolo, ignaro dell’orribile tradimento, beveva ancora, beveva sempre. Soli mio padre ed i miei fratelli, insospettiti, non avevano voluto assaggiarne non ostante le insistenze dell’uomo bianco.
Quando giunse la sera tutta la mia tribù era ebbra. Guerrieri, donne e fanciulli danzavano all’impazzata o cadevano al suolo come fulminati e l’uomo bianco ed i suoi marinai ridevano, ridevano, mentre mio padre piangeva.
A un tratto verso il mare udimmo delle detonazioni tremende. Erano i cannoni della nave che tuonavano contro il villaggio, spargendo dovunque il terrore e la morte.
Mi pare di vedere ancora gli uomini bianchi avanzarsi di corsa attraverso le capanne, macellando quel popolo incapace di difendersi.
Ah!… l’orrenda notte!… Vivessi mille anni non la scorderò mai, mai, mio signore!…»
«Miserabili!» esclamò il Corsaro, pallido d’ira. «Continua, Yara.»
«Mio padre si era trincerato fra le capanne di sua proprietà assieme ai miei tre fratelli e ad alcuni guerrieri che non s’erano lasciati adescare dall’acqua di fuoco degli uomini bianchi. Quei pochi prodi avevano cercato di opporre resistenza al nemico, difendendosi col furore che infonde la disperazione.
Alle intimazioni di resa del duca, essi rispondevano con nuvoli di frecce ed a colpi di lancia e di mazza. Gli spagnuoli per vincerli avevano incendiate le capanne circostanti.
Vedo ancora le lingue di fuoco volteggiare in alto, lasciando cadere sulle abitazioni di mio padre nembi di scintille.
Ad un tratto anche le nostre case fiammeggiavano. Le travi cadono e le pareti ardono fra turbini di fumo, ma mio padre ed i miei fratelli lottano ancora con estremo furore, mentre gli spagnuoli scaricano le loro armi in mezzo a quelle fornaci ardenti.
Mi ricordo d’aver udito mio padre a gridare:
«Avanti, miei guerrieri!… Uccidiamo quel traditore!…».
Poi non vidi, nè udii più nulla. Il fumo mi aveva fatta cadere al suolo quasi asfissiata.
Quando tornai in me, del villaggio non rimaneva in piedi una sola capanna e di tutti i suoi abitanti non vivevo che io sola. Mio padre ed i miei fratelli erano periti fra le fiamme sotto gli occhi del duca infame.
Più tardi però seppi che il traditore non aveva ricavato che magro frutto da quell’orrendo macello, poichè alcuni guerrieri di una tribù vicina, accortisi delle sue intenzioni, avevano avuto il tempo di deviare un fiume inondando le caverne contenenti i tesori.
«E chi ti aveva salvata?» chiese il Corsaro.
«Un soldato spagnuolo. Mosso a compassione della mia giovane età, si era slanciato fra le fiamme, strappandomi ad una morte certa. Fui condotta, come schiava, a Vera-Cruz, poi a Maracaibo, poi fui donata a don Pablo de Ribeira. Il duca si era accorto del tremendo odio che io covava contro di lui e per tema che un giorno potessi vendicarmi, quel vile si era affrettato ad allontanarmi. Ma l’odio non era ancora spento nel mio cuore,» proseguì la giovane indiana, con accento selvaggio. «Io non vivo che per vendicare mio padre, i miei fratelli e la mia tribù! M’intendi, mio signore?»
«T’intendo, Yara.»
«E tu mi aiuterai a vendicarmi, è vero, mio signore?»
«Ti vendicherò, Yara. La mia Folgore veleggia già verso Vera-Cruz.
«Grazie, mio signore. Tu non avrai mai avuto una donna più affezionata di me.
Il Corsaro mandò un sospiro e non rispose. Forse in quel momento il suo pensiero correva dietro alla giovane fiamminga che aveva abbandonata sul Mare dei Caraibi e che ancora, dopo quattro lunghi anni, rimpiangeva.
CAPITOLO X. LE COSTE DEL YUCATAN
Intanto la Folgore, abilmente guidata da Morgan, veleggiava rapidamente lungo le coste del Nicaragua, tenendosi però ad una grande distanza dai piccoli porti, per tema d’incontrare qualche fregata o qualche squadra della flotta del Messico .
Aveva ormai lasciate le spiagge di Costarica, passando molto al largo di S. Juan del Norte, porto che anche in quell’epoca aveva una certa importanza, però sulla linea purissima dell’orizzonte si vedevano ancora spiccare, come immensi coni, i suoi sei grandi vulcani e specialmente l’Irazu che spinge la sua vetta a 3500 metri.
Il vento era favorevole e concorreva anche, e potentemente, la corrente del Gulf Stream ad accelerare la marcia della nave. Questa corrente, che rade tutte le coste dell’America centrale, entrando lungo le spiagge dell’America del Sud per tornare nell’Atlantico presso le isole Bahama, conserva sempre una notevolissima velocità che varia dai ventidue ai cinquantasei chilometri al giorno. Presso la Florida giunge perfino a compierne ben centoquarantotto ogni ventiquattro ore.
Quantunque il mare apparisse deserto, non fidandosi le navi spagnuole ad uscire dai porti quando sapevano aggirarsi la squadra dei filibustieri, Morgan aveva comandato di mantenere delle vedette sulle coffe e sulle crocette, onde non farsi sorprendere da qualche poderosa fregata.
Egli era ormai certo di essere stato già segnalato su tutte le coste del Nicaragua, dopo l’audace impresa di Puerto Limon e non era improbabile che qualche porzione della squadra del Messico si fosse messa in cerca della Folgore per catturarla o per colarla a picco.
Perciò la massima vigilanza era stata raccomandata a bordo anche dal Corsaro Nero e alla sera veniva raddoppiata, mentre si spegnevano tutti i lumi, anche i fanali di prora, per poter navigare con maggior certezza di non venire sorpresi.
Dieci giorni dopo la partenza da Puerto Limon, la Folgore era giunta felicemente al capo Gracias de Dios, punta estrema del Nicaragua. Avvistato quel capo, la veloce nave, dopo d’aver fatta una breve comparsa dinanzi alla vasta laguna di Caratasca per vedere se si celava qualche squadra di filibustieri, si slanciava a tutte vele sciolte nel golfo d’Honduras, immensa insenatura di forma triangolare che bagna contemporaneamente le coste del Yucatan e del Belize a settentrione, del Guatemala all’ovest e dell’Honduras al sud.
Nel momento in cui la nave, dopo d’aver oltrepassato il capo Cameron, puntava sull’isola Bonaca, il Corsaro Nero, sorretto da Yara e da Carmaux, compariva per la prima volta sul ponte.
Le sue ferite s’erano di già quasi rimarginate, mercè le assidue cure del medico di bordo e di Carmaux, però era ancora un po’ debole ed il suo pallore era tale da crederlo di marmo.
Egli si arrestò un momento presso il coronamento del cassero, respirando a pieni polmoni la fresca brezza che soffiava dall’est e fissò i suoi occhi verso il capo Cameron, in direzione del mare dei Caraibi. Rimase aggrappato al bordo per qualche minuto, senza cercare l’appoggio nè di Yara nè di Carmaux, poi si sedette o meglio si lasciò cadere su uno dei due pezzi da caccia, mentre la giovane indiana si coricava ai suoi piedi, appoggiandosi ad un rotolo di funi.
Era uno splendido tramonto, uno di quei tramonti che non si vedono che sulle rive del nostro Mediterraneo o sulle sponde del Golfo del Messico. Il sole scendeva fra una nuvola immensa color di fuoco, la quale si rifletteva sulla tranquilla superficie del mare, facendolo rosseggiare per un tratto vastissimo. Pareva che una gran parte dell’orizzonte e del mare ardessero come se laggiù fossero sorti numerosi vulcani o bruciasse una flotta intera.
La brezza, che soffiava da terra portava fino sul ponte della nave i profumi acuti dei cedri già in fiore, dei paletuvieri e degli aloè e quelli acri dei pini marittimi, mentre l’aria era così trasparente da permettere di discernere, con una nitidezza meravigliosa, le già lontanissime sponde dell’Honduras.
Nessuna vela si scorgeva sull’orizzonte, nè alcun punto nero che indicasse la presenza di qualche scialuppa. Solamente in alto ed a fior d’acqua si vedevano volteggiare bande di rincopi, di fetonti e di corvi di mare grossi come galli e bande di rondoni marini.
La Folgore, spinta dalla brezza, filava leggera su quelle acque quasi tranquille e trasparenti, civettosamente sbandata sul tribordo, lasciandosi a poppa una scia candidissima, che si prolungava indefinitamente. Pareva un immenso alcione sfiorante la superficie del mare.
«Splendida sera,» aveva mormorato il Corsaro, come parlando fra sè. «Quanti ricordi mi ridesta questo tramonto!…»
Yara aveva alzato il vezzoso capo, guardando con quei suoi grandi occhi, ripieni d’una tristezza infinita, il Corsaro.
«Tu pensi alla fiamminga, mio signore, è vero?» gli disse.
«Sì,» rispose il Corsaro, con un sospiro. «Mi ricorda la sera in cui ella mi attese nella mia villa, alla Tortue. Ah! quanta felicità quella sera!… Ma io allora ignoravo ancora che ella fosse la figlia del mio più mortale nemico.
Stette un momento silenzioso, continuando a guardare il sole che si tuffava lentamente in mare, mentre la grande nube di fuoco si faceva rapidamente più pallida, poi continuò:
«Quella sera fu decisa la mia sorte, poichè mai, prima d’allora, avevo sentito il mio cuore a battere, nè mai avevo creduto che una fanciulla potesse apparirmi così bella. Folle!… Io avevo scordato la triste profezia della zingara!… Io non avevo voluto prestar fede a quelle funeste parole: La prima donna che tu amerai ti sarà fatale, m’aveva detto quella strega. E se mi è stata fatale, io lo so!…»
«Perchè parlare ancora di quella fiamminga, mio signore?» disse Yara. «Essa ormai è morta ed ha raggiunto, in fondo agli abissi del mare, le vittime di suo padre.»
«Morta!…» esclamò il Corsaro. «No, non può essere morta, poichè anche dopo quella notte ho veduto tornare a galla le salme dei miei fratelli. No, le loro anime non sono state ancora placate.»
«Essi volevano il corpo di Wan Guld e non quello della fanciulla.»
«L’avranno presto, Yara. Fra sei od otto giorni noi incontreremo la squadra comandata da Laurent, da Grammont e da Wan Horn, tre dei più famosi filibustieri della Tortue.»
«Mio signore, vuoi un consiglio?»
«Parla, Yara.»
«Andiamo a Vera-Cruz prima che giunga la squadra dei tuoi amici. Se il duca si accorgesse che i filibustieri muovono su quella piazza, s’affretterebbe a salvarsi nell’interno. Tu sai già che a Gibraltar ed a Maracaibo ti sfuggì prima della capitolazione di quelle due città.»
«È vero, Yara. Tu conosci Vera-Cruz?»
«Sì, mio signore, e saprei guidarti con piena sicurezza e condurti anche in un palazzo ove potresti sorprendere il duca.»
«Tu potresti fare questo? – gridò il Corsaro.»
«Io so dove abita la marchesa di Bermejo.»
«Chi è questa marchesa?»
«L’amica del duca,» rispose la giovane indiana. «Sorprendere il fiammingo nel suo palazzo sarebbe impossibile, essendo guardato, giorno e notte, da numerose sentinelle.»
«Mentre dalla marchesa?…»
«Oh! La cosa sarebbe facile,» disse Yara. «Una notte sono entrata anch’io nella stanza della marchesa, arrampicandomi su di un albero.»
«Cosa volevi fare?» chiese il Corsaro, guardando la giovane con stupore.
«Uccidere l’assassino di mio padre.»
«Tu!… Così giovane!…»
«L’avrei fatto,» disse Yara con accento risoluto. «Disgraziatamente quella sera il duca non si era recato dalla sua amica.»
«E tu sapresti condurmi da quella signora?»
«Sì, cavaliere.»
«Morte dell’inferno!» esclamò il Corsaro. «Io andrò a cercarlo e lo ucciderò.»
«Ma noi non potremo entrare in molti in città. Verresti scoperto ed appiccato come i tuoi fratelli.»
«Andremo in pochissimi e fidati. La mia nave ci sbarcherà su qualche spiaggia deserta, poi riprenderà il largo e andrà a raggiungere la squadra dei filibustieri. Quando essi verranno ad assalire la città io e tu ci saremo già vendicati del duca.»
«Ah! mio signore!» esclamò Yara, mentre una viva fiamma le animava gli occhi.
Il Corsaro si prese il capo fra le mani e si rimise a guardare il mare che a poco a poco si oscurava.
Il sole era allora già scomparso. Le stelle salivano lentamente in cielo mentre, verso l’opposto orizzonte, una grande striscia d’argento che sempre più s’allungava indicava il prossimo apparire dell’astro notturno.
La brezza era diventata fresca e sibilava dolcemente fra l’attrezzatura della nave, gonfiando le vele.
Il Corsaro guardava sempre, spingendo gli sguardi lontano lontano, verso la grande striscia d’argento. Conservava una immobilità assoluta ed un silenzio religioso.
Yara, seduta ai suoi piedi, rispettava quel silenzio. Anch’ella pareva che cercasse qualche cosa sull’infinita distesa del mare.
«Yara,» disse ad un tratto il Corsaro, scuotendosi. «Vedi nulla laggiù, in mezzo alla luce che la luna proietta sulle acque?»
«No, mio signore,» rispose la giovane indiana.
«Non vedi tu un punto nero attraversare quella striscia argentea?»
Yara s’alzò guardando attentamente verso la direzione indicata dal Corsaro, ma nulla distinse. Laggiù il mare scintillava come un immenso specchio leggermente ondulato, senza alcuna macchia oscura.
«Io non vedo,» disse la giovane dopo alcuni istanti.
«Eppure io giurerei di aver veduto una scialuppa solcare quello spazio illuminato.»
«È una tua fissazione, mio signore.»
«Forse,» rispose il Corsaro, con un sospiro. «Io la vedo sempre, sempre, o alla luce dei lampi od a quella della luna. Quell’apparizione non la vedo che io solo, forse.»
«Che sia lo spirito della fiamminga che erra ancora sul mare?» chiese Yara, con un brivido di terrore.
Il Corsaro non rispose. Si era alzato vivamente e s’era appoggiato alla murata, guardando sempre là dove il mare si confondeva coll’orizzonte.
«È scomparsa,» disse, dopo alcuni istanti.
«Quel punto nero che tu hai veduto poteva essere qualche squalo, mio signore.»
«Sì uno squalo, un cetaceo od un rottame,» disse il Corsaro. «Anche Morgan dice sempre così, eppure sono convinto che si tratta di ben d’altro. Orsù, dimentichiamo!»
Si era scostato e si era messo a passeggiare pel cassero, aspirando con una certa voluttà l’aria fresca della notte.
Yara invece era rimasta seduta, colla testa nascosta fra le mani. Ad un tratto Morgan s’accostò vivamente al Corsaro, dicendogli:»
«Avete scorto nulla, cavaliere?»
«No, Morgan.»
«Ho veduto dei punti luminosi brillare sulla linea dell’orizzonte.»
«Molti?»
«Molti, cavaliere.»
«Qualche squadra naviga forse al largo?»
«Lo sospetto.»
«Che sia quella del Messico?… Brutto incontro in tale momento.»
«La vostra nave è rapida, signore, e può sfidare impunemente le pesanti fregate spagnuole.»
«Vediamo,» disse il Corsaro, dopo qualche istante.
Prese il cannocchiale che il luogotenente gli porgeva e lo puntò verso l’est, scrutando attentamente l’orizzonte.
Dei punti luminosi, disposti a due a due come i fanali regolamentari delle navi, filavano sui flutti, ad una distanza di dodici o quindici miglia.
«Sì,» disse, staccando dagli occhi l’istrumento. «È una squadra che passa al largo. Fortunatamente noi navighiamo coi fanali spenti.»
«Credete che sia veramente la squadra del Messico?»
«Sì, signor Morgan. Forse l’ammiraglio che la comanda ha avuto notizia del nostro approdo a Puerto Limon e della comparsa di una nave sospetta sulle spiagge di Costarica e ci cerca.»
«Va verso il sud, capitano?»
«Sì, e quando giungerà a Puerto Limon, noi avremo già lasciate le coste del Yucatan. Andate, cercatemi pure, io vi aspetto a Vera-Cruz, ed allora non saremo soli, è vero signor Morgan?»
«Ci saranno gli altri.»
L’indomani la Folgore, che aveva navigato costantemente verso il nord-nord-ovest, avvistava l’isola Bonaca, terra quasi deserta in quell’epoca, essendo abitata da pochissimi indiani, però i filibustieri si tennero molto al largo per tema di incontrare, presso quelle spiagge, qualche veliero. Il Corsaro Nero che ormai abbandonava di rado la coperta, essendo quasi completamente guarito, lanciò la Folgore verso il nord, volendo evitare le coste dell’Honduras che erano pure state occupate dagli spagnuoli. La Baia dell’Ascensione non era ormai molto lontana. In quarantott’ore e forse meno, quella rapida nave vi poteva giungere e senza affaticare troppo l’equipaggio, tanto più che il vento non accennava a cambiare e che la corrente del Gulf Stream aumentava di celerità.
Le speranze del Corsaro non andarono deluse. Quarant’ore dopo la filibustiera avvistava un piccolo legno navigante a cinquanta o sessanta miglia dalla baia. Era un esploratore mandato al largo dai capi filibustieri. Appena accortosi della presenza della Folgore, si diresse rapidamente verso di essa, facendo segnali a bandiera e sparando due colpi in bianco.
«Ci aspettavano,» disse il Corsaro a Morgan. «Speriamo che la squadra sia tanto numerosa da poter affrontare anche le fregate del vicerè del Messico.»
«Ci saranno tutti i nostri amici» rispose il luogotenente.
Qualche tempo dopo il Corsaro, guardando attentamente la piccola nave che s’avvicinava correndo bordate, disse:
«È la Marignana che ci viene incontro.
«E porta sul corno i colori di Grammont, di Laurent e di Wan Horn,» aggiunse Morgan.
«Sì, i tre audaci filibustieri sono a bordo,» rispose il Corsaro. «Ci fanno l’onore d’una loro visita in alto mare. Bisogna credere che ci abbiano scorti ben da lontano, per lasciare la baia su così piccola nave. Signor Morgan, fate mettere la nostra nave in panna e prepariamoci a ricevere degnamente questi preziosi alleati.»
La Marignana era allora a tre o quattrocento metri e si era pure messa attraverso il vento. L’equipaggio stava allora calando in mare una baleniera.
«Tutti gli uomini in coperta!» tuonò il Corsaro.
I centoventi filibustieri che formavano l’equipaggio della Folgore si disposero lungo le due murate, su di una doppia fila, in assetto di combattimento, mentre Carmaux e Moko portavano sul cassero parecchie bottiglie e dei bicchieri. La baleniera s’era già staccata dalla Marignana e aveva puntata la prora verso la Folgore. La montavano dodici marinai armati di fucili, e tre filibustieri che portavano ampi cappelli adorni di piume di pappagallo.
Il Corsaro Nero fece abbassare la scala d’onore di babordo e scese fino alla piccola piattaforma, dicendo:
«Siate i benvenuti a bordo della mia Folgore.»
I tre filibustieri erano già balzati agilmente sulla piattaforma, tendendo le loro destre al Corsaro.
«Cavaliere, siamo lieti di rivedervi,» aveva detto uno dei tre.
«Ed anch’io, Grammont. Salite, amici.»