Kitabı oku: «La tigre della Malesia», sayfa 2
CAPITOLO II. I pirati di Mompracem
All’indomani, ancor prima che le sei fossero suonate, Sandokan e il Portoghese erano in piedi, sorseggiando una tazza di the, che un garzone dalla tinta giallognola aveva loro preparato.
– Ebbene, Sandokan – disse il Portoghese, – sei ancora fermo nella tua idea?
– Fermissimo, fratello mio – rispose il pirata.
– E lasciarti tu sfuggire una sì bella occasione, d’abbordare dei prahos carichi di mercanzie preziose, pel capriccio di recarti a Labuan?
– Oibò! Non aver paura, Yanez. L’interesse innanzi tutto.
– Sicché, daremo la caccia ai due legni?
– Certamente. Dove vedo sangue, e dove c’è occasione di fiutare polvere, ci corro.
– Per poi andarti a far assassinare a Labuan? Ah! Sandokan, tu tronchi il mio sogno di andar a finire la mia vita in una città dell’oriente.
– Pueh! – fe’ il pirata alzando sdegnosamente le spalle. – Che belle idee d’avventuriero.
– Cospetto! Vorresti tu che una volta tanto ricco da sfidare la miseria, me ne restassi ancora a Mompracem, come un sorcio in trappola?
– In tal caso, non prenderai parte alla spedizione. Non vedrai questa Perla, e potrai continuare i tuoi sogni.
– Eh! Non lo pensare nemmeno, Sandokan.
– La Perla ti attira adunque?
– Niente affatto. Ma lasciarti partire senza di me, sarebbe metterti la corda al collo per appiccarti. Senza la mia prudenza a quest’ora saresti morto le cento volte.
– Lo credi? – chiese la Tigre con tono incredulo.
– Sì, perdio, che lo credo.
– Ed io niente affatto.
– Perché, di grazia?
– Perché?… Perché io sono invulnerabile!…
– Tu vuoi burlarmi, Sandokan.
– Zitto là, fratello mio. I prahos, non sono d’umore di aspettare che tu finisca i tuoi discorsi. Prendi la tua carabina e scendiamo al villaggio. I nostri tigrotti, mi pare di vederli, s’impazientano. Hanno sete e sete di sangue.
Il Portoghese cacciò fuori un sospirone, e maledicendo in cuor suo la Perla di Labuan, staccata dalla parete una pesante carabina, seguì la Tigre di già uscita.
L’uragano era del tutto cessato, lasciando solo qualche nube sull’orizzonte e le traccie del suo passaggio nelle foreste dell’isola. Il sole, sciolti gli ultimi vapori, brillava all’oriente colla solita fulgidezza, versando torrenti di fuoco nel mare ancor agitato dai soffi della notte, e sulle verdeggianti pianure, in mezzo alle quali scorrevano numerosi ruscelli e torrenti, che parevan filoni d’argento liquido, scesi da miniere inesauribili.
I due pirati scesero la tortuosa scala, e si diressero verso la spiaggia, presso la quale prahos d’ogni dimensione e in completo armamento da guerra, danzavano all’âncora.
La loro comparsa fece uscire dalle capanne del villaggio tutti i pirati che le abitavano. Essi corsero come un sol uomo a schierarsi dinanzi ai due capi presentando colle loro cento divise e le loro cento tinte, uno spettacolo bizzarro.
Vi si vedevano in mezzo dei Cinesi dalla tinta gialla come poponi col pen-sse() nazionale; Indiani dal capo rasato, cui una continua vita di pericoli aveva dato loro una certa dose di coraggio del quale mancano generalmente i loro compatrioti; dei Malesi dalla statura bassa, ma membruti e robusti, dalla faccia quadra, piatta, ossuta, a tinta fosca; dei Battiassi di una carnagione fuliggine chiara e ancor più piccoli ma forse più robusti e che al coraggio aggiungevano ferocia d’antropofagi; dei Lampunghi non molto dissimili dai Cinesi; dei Negritos d’orribile struttura e dalle teste enormi, e un miscuglio di Giavanesi dai piacevoli lineamenti, di Daiassi del Borneo sanguinarissimi, dei Bughisi, di Macassaresi e infine dei Tagali delle Filippine.
Erano più di duecento uomini, duecento tigrotti raccozzati in tutte le terre della Malesia, senza scrupoli e senza religione, ciechi istrumenti della terribile Tigre della Malesia, cui una parola sola bastava per magnetizzarli, e una sola minaccia per farli tremare, mentre che dinanzi alla mitraglia e ai moschetti non avevano mai tremato!
Sandokan gettò uno sguardo di compiacenza sui suoi tigrotti, come amava chiamarli.
– Ehi! Patau, salta innanzi – diss’egli.
Un uomo di bassa statura, ma dalle forme di una robustezza eccezionale, un Malese che fino dai primi anni aveva fiutato la polvere di cannone sui prahos pirateschi, si staccò dalla banda e si fece innanzi con un dondolamento di lupo di mare.
– Sei tu, se non m’inganno, che vorresti vedere la Perla di Labuan? – chiese la Tigre.
– Sì, capitano – rispose il Malese.
– Sei tu, che ti lagni sempre di aver sete di sangue?
– Sì, Tigre della Malesia. Il tuo tigrotto ha sempre sete.
– Sta bene. Armerai due dei più rapidi prahos. Ti voglio accontentare.
Il Malese non aveva ancora ascoltato l’ultima parola che già volava, tirandosi dietro con un fischio mezza banda. In meno che non si dica i due più rapidi legni si trovavano pronti a sciogliere le vele.
– Bene – disse la Tigre, che non faceva a meno d’ammirare con legittimo orgoglio i suoi uomini. – Tutti sono smaniosi di andare a Labuan a vedere questa Perla; per Allah! danzeranno tutti al tuonar dei cannoni! Vieni, Yanez.
Nel momento che i due capi stavano per dirigersi alle imbarcazioni amarrate sulle sabbie, un indigeno dalla tinta nera come l’inchiostro, dalle labbra grosse come quelle degli africani, il naso stiacciato, gli occhi torvi e brillanti come quelli di una civetta, sbucando dalle foreste circostanti, avvicinossi a loro.
– Oh! l’orribile mostro! – esclamò Yanez segnalandolo al suo compagno.
– Ah! sei tu, Nini Balu? – disse Sandokan arrestandosi. – Mi hai l’aria, di portarci qualche novità. Su, cattiva creatura, sciogli la tua lingua da vipera.
– Un sospiratore affannato fuma in vista dell’isola – rispose il selvaggio.
Sandokan aggrottò la fronte, e portò involontariamente una mano sull’impugnatura del kriss.
– Tu vuoi dirmi che un incrociatore bordeggia al largo?
Il selvaggio fece un cenno affermativo col capo.
– Che fa questo vascello? – chiese la Tigre con voce rauca.
– Ci spia. Non fidarti, Tigre, di quella bestia nera. Ha un malefizio nel ventre.
Sandokan non rispose. Egli mirò distrattamente e per alcuni istanti l’onda che veniva a morire quasi ai suoi piedi, poi volgendosi bruscamente verso Yanez:
– Hai udito, fratello? – domandò egli.
– A meno di non essere sordo, sicuramente – rispose il Portoghese.
– Yanez – disse gravemente il pirata, – quel fumante incrociatore non mi dà a pensare, finché io batto il mare. Ma tu sai quanto il mare sia ampio, e quanto sia facile perdere di vista il nemico; finché io lo cerco, potrebbe piombare sull’isola e dar fuoco al nostro covo. Ora occorre un uomo di ferro per impedire che si bombardi il villaggio. Tu rimarrai.
– E tu? – domandò il Portoghese.
– In quanto a me proseguo la via che mi son fissato di tenere. Andrò, se mi si offre il destro dopo la presa dei legni, non solo a veder la Perla, ma a bombardare Vittoria, la città di Labuan.
– Ti occorrono venti prahos per lo meno, Sandokan.
– Alla Tigre della Malesia basta il suo ruggito per ispaventare il leone – disse Sandokan fieramente.
Poi si volse e fece un gesto a Patau, che avvicinossi come un lampo.
– Quaranta tigrotti a bordo dei prahos – disse. – Bada che sieno tutti assetati.
– Attaccheremo l’incrociatore? – chiese imprudentemente il Malese.
– Ciò non ti riguarda, rettile. Spicciati, per Cristo!
Il Malese si allontanò senza fiatare. Scelse quaranta dei più coraggiosi uomini, la maggior parte Daiassi, Malesi e Battiassi e li fece imbarcare a bordo dei due legni assieme a due cannoni di rinforzo.
Sandokan tornò a volgersi verso il Portoghese, che sembrava pensieroso e di cattivo umore.
– Suvvia! A che tenermi il broncio? – gli disse. – Avrai la tua parte di bottino lo stesso, lo sai bene. Vorrai dei prigionieri? Te li porterò. Vorrai sangue da bere? Te ne porterò una nave carica. Che vuoi di più?
– Ah! Sandokan! Ho il presentimento che questa spedizione ti sia fatale.
– Lascia i presentimenti alle femmine, Yanez. Orsù, i prahos mercantili non mi aspettano, lo sai. Addio, fratello.
– Addio, Sandokan. Che la buona stella ti guidi.
I due pirati si abbracciarono, come solevano far sempre quando intraprendevano una spedizione, dove non erano sicuri di tornar sempre. Poi la Tigre, colla testa alta, la carabina in mano, l’occhio acceso e le labbra contratte a un feroce sorriso, s’allontanò. Salì in una ricca imbarcazione, e in pochi colpi di remo raggiunse il suo prahos.
Le âncore, in meno che nol si dica, furono strappate dal fondo e le grandi vele furono sciolte al vento da una squadra di diavoli color verde-oliva o nero fuliggine, che parevano dotati della potente agilità delle scimie.
– Rotta per le Romades! – si accontentò di dire Sandokan, poi andò sedersi a prua sulla culatta del suo cannone favorito, con lo sguardo acuto, che avrebbe sfidato quello d’un’aquila, rivolto al sud.
I due legni, coi quali la Tigre stava con la sua solita intrepidezza per intraprendere la caccia dei mercantili e di poi la spedizione sulle pericolose coste di Labuan, appartenevano a quella specie conosciuta nella Malesia sotto il nome di prahos o di pralì.
Erano due legni bassi di scafo, di forma allungata e snella, più alti a poppa che a prua, e provvisti sottovento di bilanciere per impedire che una raffica improvvisa li rovesciasse e sopravento di un largo sostegno di bambù per la zavorra.
Portavano vele della lunghezza di quaranta e più metri di forme allungate, composte di striscie di grossa tela di cotone dipinta, con pennoni tesi obliquamente, fatti di bambù strettamente legati con fibre di rotang, e alberi triangolari, grossi, un lato dei quali veniva formato dalla coperta del prahos. Avevano doppi timoni per meglio dirigerli, un casotto sul ponte chiamato attap, l’attrezzatura tutta di bambù, di rotang e di fibre di gamuti, e grossi cannoni a prua e spingarde dal lungo tiro, per poter gareggiare colle navi meglio armate.
Al comando di Sandokan, i due legni pirateschi si affrettarono a prendere il largo descrivendo curve con matematica precisione per evitare le scogliere che fanno pericolosa corona all’isola, e bruschi angoli per non urtare contro le secche e i banchi madreporici.
Una volta usciti da quel laberinto, quantunque il vento fosse un po’ debole, misero la prua al sud, guizzando e rimbalzando come palle elastiche sulle onde, filando senza darlo a vedere tre e quattro nodi all’ora, rapidità sufficiente per poter raggiungere i legni mercantili, che dovevano camminar assai meno.
Tutti i pirati, benché la distanza fosse ancora ragguardevole dalle Romades, e nessuna vela apparisse all’orizzonte, si misero in osservazione, i più agili a cavalcioni dei pennoni per abbracciare maggior spazio e gli altri in piedi sulle murate, aggrappati alle sartie e alle griselle.
Quaranta cannocchiali viventi, in pochi minuti, scrutavano i trentadue punti della bussola, spiando la preda non solo, ma anche il fumante incrociatore, verso il quale avevano qualche apprensione.
Non era nemmeno da supporsi che avessero paura di esso o che temessero un incontro, malgrado la sproporzione delle forze. Avrebbe bastato che si fosse fatto vedere e che la Tigre ordinasse l’abbordaggio per espugnarlo. Solo avevano qualche timore che si unisse a qualche altro legno, e che sbarcasse improvvisamente soldati su qualche punto mal guardato di Mompracem.
Anche la Tigre della Malesia pensava all’incrociatore, ma non si preoccupava tanto.
Pure, volendo assicurarsi di ciò che pensavano i suoi uomini sulla probabile presenza di quel legno, chiamò Patau. Il Malese fu lesto ad accorrere.
– Credi tu – chiese la Tigre, – che quel maledetto negro non ci abbia ingannati?
– E perché avrebbe voluto ingannarci? – disse il Malese. – Nini Balu è una creatura, che non sarebbe capace di trattare colle giacche rosse(). Sono sicuro, per mio conto, che il sospiratore affannato spii l’isola colla speranza di ornare le sue antenne di impiccati.
Le labbra della Tigre si piegarono a una smorfia, che voleva essere un sorriso.
– Credi tu che i nostri uomini si preoccupino della presenza di questo legno?
– Oibò – esclamò Patau con un’alzata di spalle. – Per preoccupare i tigrotti di Mompracem, guidati dalla Tigre della Malesia, occorrerebbero cento navi, e ancor queste sarebbero poche.
– Vedete, capitano. Alla sola idea che quel sospiratore affannato ci spia, tutto il mio sangue bolle e quello dei miei compagni fuma. Quando l’incontreremo, il sangue diverrà fuoco, e voi sapete ciò che vuol dire. Succederà un massacro e nella macchina getteremo a bruciare cadaveri anziché carbone.
– Lo so, Patau, che un dì o l’altro, ne ho la certezza, ci capiterà alle spalle. Ci spia, ma freme al mio nome, e trema dinanzi alla mia potenza. Guarda: forse ha gettato dei liquori fra gli indigeni di Mompracem, forse sa che io ho abbandonato il mio covo, e forse non ignora su quale terra io muova, ma non ardisce inseguirmi. Quaranta uomini, quaranta tigrotti gli fan paura e si tace!
– È roba vecchia, capitano. Quelle giacche rosse non sono forti che coi deboli. Non avete udito dire come siano sbarcati a Labuan? Tiravano cannonate per misurarsi con quei miserabili selvaggi, che non avevano mai fiutato polvere di cannone.
– Lo so – disse la Tigre sordamente. – Ma vorrei essere stato io laggiù coi miei prahos. L’Iris non sarebbe più tornato su queste coste, e il suo comandante Rodney Mundy sarebbe andato a trovare le madrepore appeso al suo ponte di comando.
– Ah! – esclamò il Malese con tono di rimpianto. – Bisognerebbe andare un dì o l’altro a Labuan. Sarebbe il mio sogno.
– E chi dice, Patau, che io non vi andrò? Uno strano capriccio mi ha preso, Malese mio: voglio andar a vedere la Perla.
Il Malese fece un salto indietro.
– Per Allah! – esclamò egli sorpreso. – Vi avrebbe toccato il cuore questa Perla?
Una nube oscurò la fronte della Tigre della Malesia.
– Ah! – ghignò Sandokan. – Credi tu che il mio cuore, inaccessibile a ogni passione, abbia perduto la sua invulnerabilità?
– No, capitano. Ma dicesi che questa Perla sia così bella!…
– Le mie bellezze, Patau, se tu nol sai, non sono che le pugne, i fiumi di sangue, e i monti di cadaveri. La Tigre della Malesia non conosce altre bellezze.
La fronte di Sandokan s’aggrottò e la sua faccia prese una truce espressione. Volse bruscamente le spalle al Malese, e si mise a guardare attentamente il mare, senza aggiungere altra parola.
I prahos continuarono la loro caccia, veleggiando sempre verso le Romades, accelerando la corsa pel vento che andava prendendo forza, guizzando come pesci, tagliando nettamente a prua le spumeggianti onde, che spruzzavano fino alla Tigre.
Man mano che la distanza scemava, tutti gli occhi dei marinai prendevano maggior potenza visiva. Le pupille si allargavano scrutando il meridionale orizzonte, e le mani si avvicinavano insensibilmente alle carabine, alle scuri e alle sciabole d’arrembaggio, quasi indovinassero prossima la presenza dei legni mercantili, mentre quelle fiere figure d’uomini parevano acquistare novella forza, novella ferocia, cento volte raddoppiata dal magnetico sguardo della Tigre.
E infatti i prahos mercantili, segnalati il giorno precedente, non dovevano essere gran fatto lontani. Se si erano arrestati alle Romades, il che poteva essere facile, dovevano apparire fra breve tempo, calcolando la loro destinazione per Labuan o Varauni.
A ogni modo, sia in pieno mare o sotto costa, fossero pure sotto quella di Borneo, non potevano sfuggire. Avrebbe bastato una parola di Sandokan per decidere i pirati ad assalirli anche in mezzo a un porto, sotto i cannoni dei forti.
– Guarda sottovento! – gridò d’un tratto un Dayasso che erasi arrampicato fino alla banderuola della maistra.
Sandokan, a quel grido, si rizzò. Gettò uno sguardo sul ponte del suo prahos e uno su quello che veniva dietro a venti soli passi lontano, e parve che fremesse. Attraversò la coperta e andò a mettersi egli stesso al timone. Non bisogna scherzare negli arrembaggi, dove il più piccolo fallo può causare un urto e una catastrofe. Egli respinse Patau.
– Il cannone di prua non domanda che di ruggire – gli disse. – Fa in modo che possa mordere.
– Bene, capitano, morderà – rispose il Malese.
A un suo fischio sei dei più risoluti pirati si misero ai lati dell’abbronzato pezzo che pareva volesse rizzar da solo la fumigante bocca verso gli orizzonti del mezzodì.
I due prahos parvero accelerassero la corsa. In due bordate si spinsero innanzi di quattrocento metri, scuotendo di dosso la spuma delle onde. I quaranta pirati balzarono in piedi come un uomo solo colle armi di già in mano, l’occhio sanguinoso fisso al sud ove scorgevasi un punto giallastro che sembrava radere l’orizzonte a tratti, ora scomparendo come se fosse colato a picco e ora rialzandosi impercettibilmente, ma tanto da poterlo scorgere nuovamente e riconoscerlo non già per la bianca spuma di un’onda ma per la vela di un prahos che veleggiava verso l’est.
– È una vela! – esclamò un Battiasso dalla statura colossale, dalla tinta color ferro.
– E chi dice di no? – domandò un Tagalo delle Filippine dalla carnagione rossastra e col viso tagliato a rombo. – Ma non vedi tu, che è sola?
– Eh! eh! – esclamò un Malese dall’incedere furbesco. – Che sieno fuggiti gli altri due adunque?
– Bisognerà crederlo, Ragno di Mare – rispose Patau volgendosi verso il suo compatriota. – Vi ha da scommettere che gli altri due hanno volto la prua al sud o che hanno naufragato durante la notte. Buon per loro, che avrei voluto veder l’equipaggio danzare sotto il ferro del mio cannone.
– Silenzio là! – esclamò Sandokan. – Ai vostri pezzi voi; alle carabine i moschettieri.
La conversazione fu tagliata nettamente. Gli artiglieri si precipitarono ai loro pezzi e tutti gli altri, eccetto quattro uomini destinati alla manovra del prahos, si affollarono a prua e alle murate, pronti ad avventarsi all’assalto al primo abbordaggio. In un minuto il più profondo silenzio regnò sui due legni pirateschi che veleggiavano l’un accanto all’altro; tutti gli occhi fissavano la bianca vela che lenta lenta ingrandiva, gareggiando nel riconoscere prima la portata, gli uomini e le armi.
Passò mezz’ora senza che la minima parola fosse pronunciata a bordo, tanta era l’autorità di Sandokan su quegli uomini di solito così turbolenti e durante questa mezz’ora la vela si accostò ai due rapidi prahos che manovravano in maniera da tagliare la ritirata dell’est e dell’ovest. Lasciato il varco al sud e al nord, sgombri per un gran tratto d’ogni terra, un inseguimento diventava su quelle due vie un nunnulla e l’abbordaggio sicuro. Con un uomo come Sandokan non vi era da sperare nella fuga; bisognava dare o accettare battaglia, pugnare finché restava sangue nelle vene e poi soccombere.
Man mano che si avvicinavano i due rapidi legni dei pirati, la vela ingigantiva lasciando vedere a poco a poco le murate del vascello, che fu in breve riconosciuto per un gran prahos mercantile, uno di quei legni che esercitano il lucroso traffico fra le isole della Malesia, e che uno dei pirati, benché fosse abbastanza distante, asserì essere uno dei tre scorti il giorno precedente.
– Yanez mi aveva parlato di tre navigli – mormorò Sandokan. – Dove si sono cacciati gli altri due?
Si morse le labbra quasi con collera, poi diresse il suo prahos sul legno mercantile, in maniera da poterlo abbordare a prua, mentre l’altro prendeva il largo tagliando la ritirata sulla via dell’ovest e abbordarlo, se occorreva, a poppa.
A due miglia di distanza il mercantile, un po’ affogato per l’eccessivo carico e cattivo camminatore, si arrestò correndo piccole bordate come indeciso sulla via da prendere.
Certamente era stato messo in sospetto dalla presenza di quei due prahos, che eseguivano una manovra non troppo rassicurante.
Bordeggiò così per tre o quattro minuti, come volesse assicurarsi delle intenzioni dei due legni da preda, poi cangiò bruscamente rotta, e virando di bordo batté prudentemente in ritirata.
– Tanto ci voleva a riconoscerci? – mormorò Sandokan, poi alzando la voce: – ehi, Patau, prepara il tuo cannone, e voi, tigrotti, prendete i moschetti. La danza non durerà molto, ma a ogni modo ci divertiremo.
Il povero legno mercantile doveva ben comprendere che la fuga sarebbe stata quasi impossibile e un combattimento, fra due fuochi, disastroso. Senza dubbio la sinistra fama della Tigre della Malesia era giunta all’orecchio dell’equipaggio per quanto da lungi venisse e la vicinanza di Mompracem doveva accertare i timori.
Sandokan, che non perdeva d’occhio il mercantile, poté assicurarsi coi propri occhi che l’equipaggio preparavasi a una disperata resistenza. Venti minuti dopo, i due prahos erano seicento metri dal fuggiasco. La rossa bandiera dei pirati, in mezzo alla quale campeggiava una tigre, salì maestosamente sull’albero di sinistra.
– Patau – disse Sandokan, – fa cantare il tuo cannone.
Patau non aspettava che questo comando, accese la miccia e si avvicinò al cannone.
Di repente una detonazione fortissima scoppiò al largo e una nube di fumo si alzò a poppa del prahos mercantile. Due tavole della murata di tribordo del legno da prenda saltarono sotto la palla.
Né Sandokan, né l’equipaggio si mossero. Patau diede fuoco al suo pezzo. L’effetto fu pronto. La palla del calibro da sei sfondò la murata poppiera del mercantile e investì il cannone ancor fumante sollevandolo dall’affusto. Le grandi vele un istante dopo vennero ammainate sul ponte, e una scialuppa venne calata in mare. Sei o sette uomini vi presero posto coll’evidente intenzione di fuggire prima che arrivassero i pirati. Il rimanente dell’equipaggio si radunò invece a poppa smascherando un secondo cannone deciso a difendersi.
– Ah! – esclamò Sandokan, saltando in piedi col volto abbuiato. – Vi sono dei vigliacchi a bordo di quel legno come vi sono dei coraggiosi. Patau, affondami quella scialuppa! I codardi non meritano la mia generosità!…
– Bene capitano – rispose il Malese con un satanico sogghigno. – Se al primo colpo non li mando all’inferno, non sono più Patau!
Il cannone era stato caricato e Patau non mancò alla parola. La scialuppa fu spaccata a metà e un nembo di mitraglia lanciato dall’altro prahos spazzando il mare istecchì i nuotatori.
– Bravo Patau! – esclamò Sandokan. – E ora, amico mio, rasa come un pontone quel legno. Andrà a farsi raddobbare di poi a Varauni a nostre spese. I coraggiosi sono degni di noi. Fa in modo che le tue palle non abbiano a mordere che del legno.
I due prahos correvano sopra al povero legno mercantile colla rapidità delle aquile, manovrando in maniera di poterlo abbordare da due lati. I cannoni ripigliarono la infernale musica fracassando gli attrezzi, alternando violente scariche di mitraglia che laceravano vele e recidevano corde. Il legno mercantile rispondeva vigorosamente col suo unico pezzo cercando, se non di vincere, almeno di vendere caramente la vita.
– Tira! Tira che sei un coraggioso! – gridava Sandokan entusiasmato. – Tu sei degno di combattere contro di me!…
I due prahos avvolti fra fitte nubi di fumo dalle quali scattavano lampi e uscivano detonazioni volteggiavano attorno al legno mercantile che virava a furia di remi, di bordo, presentando la prua sulla quale si affollavano i difensori.
– Barra sottovento! – gridò d’un tratto Sandokan che aveva impugnata la scimitarra.
Il suo prahos abbordò il mercantile sotto l’anca di tribordo ad onta della sua moschetteria e delle precipitose manovre dell’equipaggio nemico. Sandokan, benché i grappini d’arrembaggio non fossero ancora stati lanciati, si raccolse su sé stesso col kriss fra i denti, come una tigre che sta per avventarsi, quando una mano robusta lo trasse indietro. Il Ragno di Mare gli si rizzò accanto coprendolo col suo petto d’atleta, e bestemmiando tentò saltare sul prahos mercantile dove un marinaio toglieva di mira la Tigre della Malesia.
Non ebbe il tempo, ma si gettò dinanzi a Sandokan e ricevette in sua vece la fucilata in pieno volto. Il povero Ragno cadde in mare colla testa fracassata.
Sandokan gettò un muggito da toro ferito, e aggrappandosi alla bocca di un cannone, si issò in meno che se lo dica sulla coperta del legno mercantile. L’intero equipaggio annerito dal fumo e insanguinato si avventò contro di lui cercando respingerlo.
– A me, miei prodi! – urlò il pirata spaccando la testa al primo venuto. Dieci o dodici pirati risposero all’appello. Si arrampicarono come scimie lungo i bordi e aiutandosi coi paterazzi saltarono sul ponte circondando l’equipaggio. Nel medesimo tempo l’altro prahos abbordava il legno a poppa. I suoi uomini irruppero colle scuri alzate vociferando spaventosamente.
– Che nessuno li tocchi! – tuonò la voce della Tigre. – Sono degli eroi!
Fu compreso. I pirati circondarono l’equipaggio, lo disarmarono e lo legarono senza spargere goccia di sangue. La Tigre si avvicinò al capitano del prahos.
– Tu sei un brav’uomo – disse. – I tuoi uomini sono degni del loro comandante. Io ti lascio la vita!
Il capitano del prahos lo guardò come trasognato. Sandokan poggiò le mani sulle spalle di lui e guardandolo fisso:
– Dove vai? – gli chiese.
– A Labuan – rispose macchinalmente il capitano.
– Tu conosci quell’isola?
– Sì.
– Parlami della Perla di Labuan. Chi è?
– Una donna.
– Di qual razza?
– Inglese.
Le labbra di Sandokan si contrassero mostrando i denti.
– Dove ha la sua casa? – domandò egli con voce sorda.
– Nelle foreste della costa occidentale.
– Grazie, mio prode – disse Sandokan.– Olà! Gettate un barile d’oro a questi giovinotti!
Nessuno dei pirati aprì bocca, per opporsi a un sì strano comando. Del resto non era la prima volta che la Tigre della Malesia agiva in tal modo. Fu ubbidito, e il barile d’oro, con sorpresa dei marinai del prahos mercantile, che si chiedevano se sognassero o avessero da fare con qualche deità marittima, passò a bordo del legno.
Sandokan tornò ad avvicinarsi al capitano.
– Guardami in volto! – esclamò bruscamente egli.
– Chi sei? – chiesero i marinai ad una voce.
– La Tigre della Malesia!…
Prima ancora che l’equipaggio tornasse in sé dalla sorpresa e dalla paura, Sandokan era già a bordo del suo legno circondato dai pirati.
La Tigre stese la mano verso l’est, ve la tenne per qualche tratto così orizzontalmente, poi con voce metallica, stridente, collerica:
– Tigrotti, a Labuan! a Labuan!…