Kitabı oku: «La tigre della Malesia», sayfa 29
Le batterie del centro, oppresse alla loro volta, distrutte sotto le bombe che si succedevano senza intervalli, ne seguirono l’esempio e non rimase che la trincea di sinistra, la più forte e la meglio armata, esposta al tiro di tutti i legni.
Sandokan cercava rianimare i combattenti colla sua presenza, puntando egli stesso i pezzi o facendo fuoco alla testa dei più abili tiragliatori, ma doveva pur egli convincersi che il momento della ritirata non sarebbe stato lontano. Ruggiva in cuore all’idea di dover perdere la sua isola, ma forse in fondo benediva la flotta che poneva fine alla pirateria.
Non era più la Tigre, lo sapeva, non era più il medesimo uomo di un tempo ora che amava.
Si avrebbe detto che, pur facendo prodigi di valore, dando esempio ai deboli e ai forti, mancasse di quella pazza temerità per cui andava tanto famoso.
– È il destino – mormorò egli, tergendo la fronte madida di sudore nel mentre che Giro Batoë rotolava al suo fianco col petto fracassato da una palla di cannone. – Lo sapeva, era destino!
Una delle polveriere del villaggio saltò pochi minuti dopo con terribile violenza. Sei indigeni e tre pirati, fra i quali Balamê, furono seppelliti sotto le macerie, e dalla scossa i terrapieni franarono, mentre i legni infuriavano con maggiore energia. La prima trincea si dovette abbandonare assieme a mezze artiglierie, ridotte inservibili, e a ben venti cadaveri.
Fu tentato l’ultimo sforzo per arrestare il nemico che si avanzava verso la costa. Si diresse ancora una volta il fuoco contro l’altro piroscafo, cercando di mandarlo a picco, ma non vi riuscirono. I cannoni erano troppo pochi per pensare a lui solo e le difese troppo ruinanti per sopportare il fuoco degli altri legni.
La seconda trincea saltò assieme alla seconda barriera che seppellì il Nano con una decina dei suoi uomini.
– Sandokan! – esclamò Yanez, precipitandosi verso di lui col volto annerito dalla polvere. – La posizione è insostenibile.
– Lo so – rispose il pirata, dando fuoco a un mortaio colla speranza di frantumare le ruote del piroscafo.
– Se noi rimaniamo ancora, nessun di noi sfuggirà alle loro bombe. Sandokan emise una bestemmia. Gettò uno sguardo disperato sui superstiti ridotti a soli ventisei pirati, e una ventina d’indigeni, che continuavano freddamente il loro dovere. Contò le artiglierie che rimanevano: non erano che sette pezzi.
La flotta andava avvicinandosi formando un semi-cerchio attorno le cadenti batterie opprimendoli sotto un turbine di ferro, mentre le truppe da sbarco si affollavano nelle imbarcazioni galleggianti ai fianchi dei legni. Uno dei prahos aveva di già gettato l’âncora presso le prime scogliere e i suoi uomini si apparecchiavano a prendere posizione.
La partita era irreparabilmente perduta. Fra pochi momenti gli assalitori, venti volte forse più numerosi, doveano sbarcare e attaccare alla baionetta le cadenti batterie e sterminare gli ultimi pirati, affranti, feriti, decimati.
Per un istante Sandokan ebbe la pazza idea di voler contrastare lo sbarco all’arma bianca con un pugno di prodi, ma fu un lampo. Le ultime batterie ruinarono sotto i piedi dei difensori che rimasero allo scoperto esposti al fuoco della flotta. Un ritardo di pochi istanti poteva diventare funesto; le prime scariche di mitraglia cominciavano a decimare quei prodi che ancor non sapevano decidersi ad abbandonare quei luoghi. Bisognava ritirarsi.
E Sandokan, sacrificando l’isola, la sua potenza e persino il suo nome, anziché sacrificare gli ultimi avanzi dei suoi tigrotti, raccogliendo tutte le sue forze per pronunciare quella parola giammai uscita dalle labbra della Tigre, con una voce che pareva il ruggito di una belva, comandò la ritirata. Nel momento che i tigrotti colle lagrime agli occhi, il cuore straziato evacuavano le fumanti batterie, salvandosi nei boschi, il nemico sbarcava massacrando gli agonizzanti a colpi di baionetta.
La stella di Mompracem s’era estinta per sempre!…
CAPITOLO XXIX. Sul mare
La ritirata, dolorosa parola per ogni coraggioso e doppiamente dolorosa per quei pirati che mai l’avevano udita pronunciare in tanti e tanti anni di battaglia, effettuavasi ordinata e rapidamente.
Era pure straziante per quegli uomini l’abbandonare quei cari luoghi testimoni della loro potenza e grandezza; era atroce per quegli eroi evacuare quell’isola che avevano chiamato propria ed evacuarla lasciandola in mano al nemico, eppur non potevano far altrimenti.
Spenti i più prodi campioni della pirateria, arsi i loro legni, arse le loro capanne, le loro batterie, abbattuta la loro bandiera, vinta e domata la terribile Tigre della Malesia, senza forze e senza mezzi, non rimaneva altro che emigrare ed abbandonare quelle temute coste prima che il nemico avesse a spegnere totalmente i superstiti.
Ridotti a un drappello di soli ventidue uomini, la maggior parte feriti, ma ancora validi, ancora assetati di sangue, ancora anelanti di vendetta, colla morte nel cuore, colle lagrime agli occhi, essi continuavano la ritirata senza scambiar una parola seguendo la Tigre che marciava alla loro testa ai fianchi di Yanez.
Quest’uomo veramente strano e terribile che si faceva chiamare Tigre della Malesia, quantunque sconfitto, quantunque avesse perduto la sua isola che egli chiamava carne delle proprie membra, quantunque avesse perduto il suo mare che chiamava sangue delle sue vene, quantunque in un sol colpo avesse perduto e la sua potenza, e la sua gloria e fors’anco il suo nome un dì cotanto formidabile, conservava in quella ritirata una calma veramente ammirabile. Si avrebbe quasi detto che egli, che ci teneva tanto un tempo alla sua fama, fosse quasi quasi contento, e chi sa, forse in fondo in fondo poteva essere vero.
Era da tanto tempo che aveva preveduto la decadenza della sua isola, che vi si era a poco a poco rassegnato. Del resto sentivasi egli stesso impotente di lottare con quelli di Labuan ormai troppo forti, e sentiva di non poter essere più la Tigre di una volta dalle pazze imprese, ora che aveva dietro di sé una giovanetta che amava alla follia, ora che era stato affascinato dalla Perla di Labuan.
Nondimeno era inquieto e sul suo volto si scorgevano traccie evidenti di una commozione forte che non riusciva interamente a nascondere.
– Venite, tigrotti – diss’egli nel momento che questi si arrestavano quasi saltasse loro in mente di ritornare ai loro distrutti lari. – Chi rimane su questa terra che non è più nostra, è morto. A che adunque arrestarsi, a che adunque sperare, quando il nostro villaggio e i nostri bastioni non sono più là a porgerci un rifugio, quando i cannoni sono diventati muti, quando i prahos furono infranti, quando le nostre armi sono spezzate?
«Volete farvi assassinare dalle baionette dei vigliacchi che ci assalirono cento volte più numerosi di noi? Volete che essi abbiano a mietere gli ultimi fiori di Mompracem che forse un dì potranno rifiorire? Venite, perdio, venite! Abbiamo ancora da pugnare e chi sa, forse da pugnare terribilmente. Si udivano in lontananza le grida dei vincitori che davano il sacco al villaggio, che bruciava assieme alle batterie. Sandokan raddoppiò il passo, traendosi dietro con un gesto energico i suoi uomini e si diresse verso un torrente disseccato sulle cui rive si aggirava Inioko.
– Marianna dov’è? – domandò il pirata cercandola collo sguardo.
– Sono laggiù tutte e due, vi aspettano ansiosamente – rispose Inioko. – E che ne fu?… Abbiamo noi vinto, capitano?
Sandokan non rispose che crollando ripetutamente il capo, poi attraversato il letto del torrente, si diresse rapidamente verso le due donne che gli movevano incontro. La giovanetta nel vederlo gettò un grido di gioia; il pirata l’accolse fra le sue braccia senza dir verbo e la strinse contro il suo petto. Ella, compresa di ciò che era successo al villaggio, indovinò la rotta.
– Povero Sandokan, poveri pirati! – esclamò ella con sincero cordoglio. – Io cominciava ad amare di già Mompracem.
– Sì, amor mio, siamo stati battuti – rispose Sandokan. – I forti hanno vinto schiacciando i prodi. La fatalità fu inesorabile.
– E ora che facciamo noi? – domandò Ladgia volgendosi verso il Portoghese.
– Si emigra – rispose Yanez. – Sandokan, il nemico ci è alle spalle, non perdiamo minuti che sono preziosi.
I pirati giungevano l’un dietro l’altro conducendo i cavalli. Non mancava che salire in sella.
– Amici – disse Sandokan, volgendosi verso i suoi uomini. – Diamo un ultimo addio a questi luoghi e partiamo. Nessuno rimprovererà gli ultimi pirati di aver ceduto il campo senza averlo contrastato. È inutile rimanere, emigriamo finché la via è libera, cerchiamo salvarci prima che i vincitori abbiano ad assassinare fino all’ultimo i tigrotti di Mompracem. Coraggio miei poveri compagni. Voi siete stati testimoni dei miei sforzi per arrestare l’invasore; nessuno di voi potrà rimproverare la Tigre, non è vero?
– No, no – risposero in coro i pirati. – Non ti rimprovereranno mai!
– Lo sapeva io che i miei uomini erano ancora gli stessi dopo la sconfitta – disse Sandokan commosso. – Era scritto lassù che Mompracem dovesse cadere, che la Tigre finisse di ruggire, che i pirati scomparissero. Siamo stati vinti, ma non domati, ci hanno scacciati da questi luoghi che erano nostri, ma ci siamo ben difesi. Compagni! Gli è doloroso emigrare, finire la vostra gloriosa carriera in terra straniera, ma il destino l’ha voluto. Seguiamolo, espatriamo giacché non abbiamo più forze per lottare col prepotente nemico che ci ha vinti, la Tigre ne dà l’esempio, e voi lo seguirete. A quale scopo farsi assassinare quando ogni generoso sforzo riescirà inutile? Voi piangete, e io credete che non abbia il cuore che sanguini?
«In terra straniera avrete ancora forze sufficienti per ritornare pirati. Vi sono ancora delle isole nella Malesia per offrirvi rifugio. Andatevi, consolidatevi, create una nuova società con una nuova Tigre; chi sa? Forse un dì potrete ritornare a Mompracem e far tremare ancora i leoni di Labuan.
– Ma voi, ove andate? – domandarono i pirati che alle parole di Sandokan singhiozzavano.
– Io non sono più la Tigre – rispose amaramente Sandokan. – Non contate più su di me che appartengo corpo e anima all’avvenire. Vi guiderò finché vi sarà bisogno, vi difenderò coll’antico valore di cui andava orgoglioso, poi, quando non avrete più bisogno di me, vi scioglierò da ogni impegno. Non so più ruggire, non ho più il braccio armato, non saprei vivere su di un’altra isola come pirata. Ho bisogno di riposo, la mia carriera è finita.
Dei singhiozzi gli montavano alla gola, mentre i pirati e la giovanetta piangevano come fanciulli. Era pur commovente veder le lagrime solcare le brunite gote di quei prodi, e i singhiozzi sollevare quei petti di ferro. Lo stesso Portoghese, il filosofo, non sapeva rattener le lagrime e piangeva come un fanciullo accanto a Ladgia.
– Non piangete – continuò Sandokan. – Se gli Inglesi vedessero le lagrime solcar le gote degli eroici tigrotti di Mompracem, riderebbero, essi che tremavano dinanzi alla nostra potenza, essi che impallidivano dinanzi al nostro valore.
«Vi comprendo, amici miei, è atroce abbandonare e perdere ogni cosa ed essere stati per di più vinti. Ma chi sa, che un giorno guidati da un altro capo valente, non abbiate a ricambiare queste lagrime in fiume di sangue. Io allora non sarò più fra voi, ma…
Egli s’interruppe. Un nodo gli serrò la gola.
– Capitano! Capitano!… – esclamarono i pirati, circondandolo. – Perché non rimanete fra noi, voi, sì valoroso? Non siamo più adunque noi i figli della Tigre?
– Non tentatemi, amici, non lo posso, è impossibile, l’antica Tigre è condannata a morire lontana dalla sua isola e dal suo trono… Amici, non parliamone più, avrei ora a chiedere un favore ai miei tigrotti. Me lo accorderete voi, in memoria dei servigi che vi resi?
Vi rispose una voce sola:
– Parlate! Parlate! Il nostro sangue e le nostre vite son sempre vostre.
– Bene – disse Sandokan prendendo per mano Marianna e conducendola in mezzo ad essi. – Voi ieri l’avevate gridata regina di Mompracem: la sconfitta l’abbatté col suo trono. È d’uopo che essa abbia ad uscire dall’isola sana e salva. La difenderete voi?
– Sì! Sì! – urlarono i pirati sguainando le scimitarre e i kriss. – Viva lady Marianna! Viva la moglie della Tigre!
– Grazie, miei buoni amici – disse la giovanetta commossa. – Mi ricorderò di voi e di Mompracem fino all’ultimo respiro.
– Grazie, tigrotti – ripeté Sandokan, tendendo le mani verso di loro. – E ora, a cavallo, miei prodi, a cavallo! Bisogna abbandonare le coste prima che il nemico abbia a tagliarci la ritirata.
Era passato anche troppo tempo. Sandokan aiutò la giovanetta a salire a cavallo nel mentre che Yanez faceva altrettanto colla Dajacca e diede il segnale della partenza.
I cavalli spronati a sangue partirono alla carriera, seguendo un sentieruzzo aperto fra immense boscaglie che menava alle spiaggie occidentali. Sandokan apriva la via, allontanando i rami e recidendo colla scimitarra le liane che attraversavano il sentiero e dietro a lui veniva Marianna. Yanez, Ladgia e i pirati galoppavano in coda colle armi in pugno per essere pronti a qualsiasi attacco.
A mezzanotte essi giunsero in vista dei fuochi accesi nel villaggio degli indigeni, presso al quale dovevano trovarsi i tre prahos speditivi due giorni innanzi.
Ognuno nel vederli respirò.
– È il mare questo che mugge? – chiese la giovanetta a Sandokan.
– Sì, Marianna, è il mare – rispose il pirata sospirando. – Non avrai paura a seguirmi sul mare, non è vero, anima mia?
– No, non avrò paura quando tu verrai con me. Tu sei forte e basterai a difendermi contro ogni pericolo.
– Sì, Marianna, la mia scimitarra ti difenderà e il mio petto ti farà scudo, e spunterà le armi dei maledetti. Non ti toccheranno finché avrò una goccia di sangue nelle vene e un tigrotto sui prahos. Te lo giuro!
La giovanetta lo guardò con occhi lagrimosi.
Sandokan la comprese e avvicinando il suo cavallo a quello di lei:
– Non avranno né l’uno né l’altro. – Poi, cangiando tono: – ho mille risorse, che tutti ignorano. La Tigre non morrà mai.
Spronò un’ultima volta il suo cavallo e rizzandosi in sella mandò un lungo fischio che era un segnale. Due fischi simili vi risposero e i fuochi del villaggio si spensero subitamente.
– Orsù – gridò egli volgendosi verso coloro che lo seguivano. – La fortuna è ancora con noi: i prahos sono all’âncora.
I ventiquattro cavalieri entrarono alla carriera nel villaggio, schiamazzando.
Sandokan balzò d’arcione, aiutò Marianna a discendere e mosse assieme ai suoi compagni verso gli uomini dei prahos.
– Il nemico? – chiese brevemente egli gettando uno sguardo ai tre legni che sonnecchiavano in una piccola baia.
– Non fu veduto su queste coste – rispose uno dei marinai. – Ma… non si è forse mostrato dinanzi al villaggio, capitano?
– Sì, puoi ben comprendere l’esito della pugna – disse il pirata sordamente. – Vinto, la fatalità ci spinge di più a emigrare; la fatalità ci spinge ad abbandonare la nostra Mompracem. Fa armare i tuoi legni, bisogna affrettarsi.
Tenendo per mano Marianna, egli si spinse fino alla spiaggia e scrutò con un colpo d’occhio il mare sepolto fra le tenebre.
– Tu lo vedi, Marianna – disse il pirata dopo essersi assicurato che alcun lume brillava sul fosco orizzonte. – Noi abbandoneremo senza essere visti queste care coste un dì tanto potenti e or vinte e domani saremo lontani, fuori dai pericoli che ci minacciano oggi, tanto lontani da far perdere ai leoni, che hanno vinto le tigri e che agognano la loro regina, ogni speranza di raggiungerci. Io questa notte perderò la mia isola che ho tanto amato, il mio nome terror dei forti e del quale andava orgoglioso, tu perderai quel trono che sarebbe stato potente, tanto da schiacciare col suo peso Labuan e Borneo uniti, quella grandezza alla quale ti avevano innalzato i pirati di Mompracem. I miei uomini perderanno la Tigre e la speranza di ritornare un giorno a questi luoghi e rifiorire. Mi seguirai tu malgrado tante perdite dove io ti condurrò?
– Sì, Sandokan, io ti seguirò ove tu vorrai – rispose la giovanetta passandogli amorosamente le braccia attorno al collo. – Ti seguirò oggi, domani, sempre. Che importa se non rivedrò più né Labuan, né Mompracem? Che importa se io perdo quel trono che mi avevi dato, quando tu sei ancora mio? Non è forse tu che io amava sopra ogni cosa?
– Sì, lo so, Marianna – mormorò il pirata stringendola appassionatamente fra le braccia. – Vedi, tu non sai ciò che io perdo in questa notte maledetta, non potrai giammai comprendere i dolori che straziano il cuore di un pirata che si vede strappare la sua isola, vera carne delle sue membra, dopo di aver assistito all’assassinio di tanti prodi che chiamava suoi figli. Tu non indovini i timori che agitano la mia anima che era di ferro. Se non avessi te, io sarei capace di rimanere, di disputare palmo a palmo il terreno all’invasore, di seguire nella morte coloro che mi hanno preceduto, e non lo faccio perché non posso farlo, perché io voglio vivere per te, perché voglio difenderti contro i leoni che ti minacciano, e dissipare le inquietudini che mi agitano.
«Senti, Marianna, non ho mai avuto paura, e si direbbe che in questa notte, dopo la sconfitta, io ho paura!
– Non lo crederò, mio valoroso, tu sei ancora la Tigre. Essi hanno ancora paura di te, tremano.
– La Tigre! – esclamò il pirata con accento doloroso. – Essa è morta, Marianna, o se non lo è del tutto è moribonda; io lo sento, il mio braccio non possiede più l’antico vigore, l’anima non è più di ferro, il cuore è incatenato, il ruggito si è spento sotto i soffi della fatalità e sotto l’ardente alito di una fanciulla divina che amo. Io sento che non tornerò più a Mompracem, per ritornare a farla brillare, sento che sono morto.
«E sia, non mi lamenterò giammai che tu abbia incatenato la belva, che tu l’abbia domata; era scritto lassù che così dovesse accadere, che Sandokan non morrebbe sul mare né sulla sua isola, ma fra le braccia di una fanciulla. Il pirata sospirò, poi, cangiando bruscamente tono e discorso:
– Marianna – diss’egli, – partiamo. Partiamo prima che l’uragano che ci minaccia si scateni, prima che la Tigre nel momento supremo del sacrificio abbia a risvegliarsi, prima che i tigrotti abbiano tempo di pentirsene.
Il mare è libero, i prahos ci aspettano pronti a prendere il largo, il vento è propizio. Partiamo prima che l’alba dissipi le tenebre.
– Partiamo, Sandokan, e quando noi avremo varcato la crociera, su qual terra pianteremo il nido?
– Sulla terra che tu vorrai, amor mio, su di una terra ove la Perla di Labuan possa ritrovare i suoi boschi e i suoi fiori, senza rimpiangere la sua lontana patria. Tu sceglierai, io ti seguirò ovunque, purché il grido di Mompracem non lo possa udire mai più.
I prahos erano stati accostati alla spiaggia e avevano salpate le âncore e spiegate le enormi loro vele, che si gonfiavano di già sotto i soffi della tramontana. I pirati, cupi e taciturni, non aspettavano che il segnale dell’antico capo per imbarcarsi.
Sandokan, tenendo per mano la fanciulla, li raggiunse. Egli si arrestò in mezzo a essi e additò i tre prahos.
– Amici – diss’egli con voce che si sforzava di rendere calma, – il momento di partire è giunto. Un ultimo addio alla nostra isola, che tornerà ad addormentarsi sul mare come dormiva prima che noi vi piantassimo le nostre capanne, e poi prendiamo il largo. Il destino lo vuole.
Attraversò i suoi uomini con passo fermo, mentre i più vecchi singhiozzavano e i più giovani lagrimavano e salì risolutamente a bordo del prahos più grosso. Dieci dei più forti della banda lo seguirono. Il Portoghese con Ladgia con altrettanti pirati prese posto nel secondo prahos che portava tutti i tesori di Sandokan e Inioko cogli ultimi che rimanevano occupò il terzo, il minore dei tre e il meno armato, ma nondimeno capace di tener fronte a una cannoniera.
Il segnale venne dato un momento dopo, e i tre legni sotto il vento settentrionale, taciti e protetti dalle ombre della notte, presero il largo portando seco gli ultimi superstiti della formidabile banda di Mompracem. Sandokan, a fianco della giovanetta che appoggiava il capo sul suo petto, era in piedi a poppa, per vedere un’ultima volta quelle coste che non doveva riveder più mai. I suoi uomini gli facevano corona, cogli occhi fissi su quelle vette che a poco a poco si perdevano fra le tenebre, testimoni della passata grandezza dei pirati in quei mari. I più vecchi campioni della pirateria piangevano come fanciulli, tendendo le robuste braccia verso la loro isola con gesto disperato.
– Compagni! – disse Sandokan, alzando le braccia sopra di essi. – Diamo un ultimo addio a questi luoghi, e cerchiamo seppellire il passato sperando nell’avvenire, che una voce interna mi dice sarà ridente per entrambi. Oggi perdiamo l’isola, oggi perdiamo il mare, la nostra potenza, la nostra patria, domani forse la riconquisterete, facendo pagar cara l’audacia dei potenti che hanno schiacciato i deboli: i fiori che muoiono oggi, potranno rifiorire domani.
«Chi dice che non ritornerete a Mompracem, e che non abbiano a ritornare ancora i tempi della Tigre? Chi dice che oggi io fuggiasco, senza artigli e senza forza per ruggire, non abbia a guidarvi ancora di vittoria in vittoria? Chi sa, potrebbe forse venire un giorno che l’addormentato avesse svegliarsi e ritornare il pirata?
«Emigriamo oggi che siamo deboli, salviamoci dai colpi di un nemico senza pietà, e dimentichiamo il passato. Via queste lagrime che non sono degne di un pirata di Mompracem! Vedete, io non piango, eppur soffro egualmente la perdita del mio mare, della mia isola che amava sopra ogni cosa, dei miei compagni che formavano la mia potenza e che amava come fossero miei figli, e di più il nome che non udrò forse più mai!…
– Non ditelo, non ditelo! – esclamarono i pirati. – Oh! sì, lo udremo ancora. Non é vero che ritornerete fra noi? Non è vero che tornerete la terribile Tigre dei tempi passati?
La Tigre scosse il capo con gesto disperato.
– Non lo posso, ve lo dissi ancora, noti sono più libero, non ho più forze, non so più ruggire. Ho delle catene che mi legano e che non posso spezzare; ho paura che non ci rivedremo più mai. Poveri compagni! Poveri tigrotti di Mompracem!…
Il pirata trasse a sé Marianna, e spense un singhiozzo che salivagli alla gola in un bacio sulle sue labbra.
– Essa mi ha domato – diss’egli mostrandola ai pirati con gesto appassionato. – Sono suo!
Alzò il capo, e guardò il mare con inquietudine. Egli trasalì nello scorgere due punti luminosi che solcavano l’orizzonte.
Emise un ruggito soffocato: si volse verso i suoi uomini come una belva rabbiosa.
– Voi mi parlavate poco fa di vendetta, di sangue, di pugne – diss’egli con voce arrangolata, serrandosi fortemente al petto Marianna quasi che temesse che gli venisse strappata. – Ebbene, ecco laggiù due leoni, che aspettano il momento opportuno per gettarsi sulla Tigre e sui suoi figli. Su, su, tigrotti! Impugnate le armi! Io divento ancora una volta la Tigre della Malesia assetata di sangue e di vendetta!
Un urlo di furore s’alzò fra i suoi uomini, al quale risposero quelli degli altri prahos che avevano egualmente scorto il nemico, che s’avanzava tacitamente. Ogni braccio alzò la scimitarra, minacciando i due prepotenti che venivano a sfidarli persino sul mare.
– Anche sul mio mare, adunque, vieni a inseguirmi? – muggì Sandokan con terribile accento. – Oh! non mi avrai finché mi rimarrà la forza d’alzare il braccio e stringere un’arma, non mi vincerai per due volte di seguito. Maledetto da Dio! Su, tigrotti, su, tutti colle armi in pugno! La Tigre della Malesia vi guida e la vostra regina vi addita la vittoria!
Non ci voleva di più per animare i pirati, che ardevano di vendetta e che sognavano con un disperato combattimento di riacquistare la perduta Mompracem. Tuttavia non bisognava commettere pazzie e gettarsi perdutamente contro i due vascelli che potevano essere cinquanta volte più forti di loro. Sandokan lo comprese pel primo e s’accorse che una seconda pugna sarebbe stata più che pericolosa pei suoi uomini, prodi ma pochi, per sé e per Marianna. Dominando la smania di vendicarsi e l’ira che bollivagli in petto, anziché muovere incontro ai due vascelli ordinò di volgere la prua all’oriente.
– Compagni – diss’egli, intimando silenzio a coloro che chiamavano il nemico. – Prima di cimentarsi in un ultimo combattimento che potrebbe rinnovare la sconfitta di oggi, tentiamo d’ingannare coloro che c’inseguono. Quando suonerà il momento di dare l’abbordaggio o d’ingaggiare la battaglia, colla sicurezza di vincere, ne darò il segnale primo di tutti. Non compromettiamo inutilmente gli ultimi avanzi della pirateria, che potrebbero un giorno risorgere.
L’oscurità favoriva la fuga; nulla di meglio che effettuarla, finché rimaneva il tempo. I pirati, ubbidienti alle parole dell’antico capo, paventando una seconda sconfitta, si appigliarono al suo proposto partito.
I tre prahos che un momento prima veleggiavano al sud, virarono di bordo e senza essere stati scorti, si diedero alla fuga verso l’ovest lasciandosi alle spalle l’isola.
Il vento era anche propizio, non troppo forte per poter intraprendere una gara di celerità coi legni nemici che erano forniti di macchina, ma sufficiente per frapporre una rispettabile distanza prima che l’alba avesse a dissipare le tenebre e metterli allo scoperto. Sandokan sperò di poter isfuggire al nemico che non sospettava sicuramente la presenza dei prahos.
– Marianna – diss’egli, volgendosi verso la giovanetta pallida bensì ma fiduciosa al pari di lui. – Il nemico è là, ma non ci ha scorti; non temere di nulla, noi ti difenderemo fino all’estremo. Prima che i maledetti abbiano a porre la mano su di te per trascinarti ancora nella loro isola, bisognerà che mi abbiano ad uccidere.
– Non tremo, Sandokan, tu lo vedi – rispose la giovanetta che ad onta di ciò si sentiva assalita da funeste inquietudini. – Lo so che tu e i tuoi mi difenderanno, lo so che i pirati sono ancora forti. Io non ho paura come non ne ebbi ieri.
– Sì, non hai paura, io so che tu sei coraggiosa. Eppure… no, non ti avranno, io rispondo della tua difesa.
I tre prahos, a una distanza di cinquanta passi l’un dall’altro, continuavano la fuga passando a poche miglia dai due fanali che parevano avvicinarsi come eseguissero una perlustrazione in quel tratto di mare. Tutti i pirati, armati sino ai denti, caricati i cannoni, manovravano in silenzio sui ponti, senza perderli di vista, cercando indovinare la manovra senza dubbio un po’ strana delle due navi. Si avrebbe detto che senza rumori, eccetto quelli delle macchine che rantolavano e le battute delle ruote che mordevano le acque, cercassero di avvicinarsi ai tre legni, che sfilavano come ombre confuse tra le tenebre, verso l’ovest.
– Che ci avessero di già scoperti? – mormorò Sandokan, che sentiva l’inquietudine di nuovo assalirlo.
– Ohe! – gridò d’un tratto una voce che fu conosciuta per quella del Portoghese. – Non vedete che ci danno la caccia?
I due legni nemici, un piroscafo e una cannoniera, quegli stessi che avevano preso parte al bombardamento, descrivendo un brusco angolo avevano cangiato via. Essi mossero arditamente quanto inaspettatamente verso i tre prahos lontani allora mezzo miglio; i loro camini eruttavano nubi di fumo dai riflessi rossastri e le ruote mordevano precipitosamente le acque.
– Ah! miserabili! – esclamò Sandokan mentre i pirati gettavano un urlo di furore correndo ai cannoni.
– Dio mio, io sono perduta! – mormorò la giovanetta appoggiandosi al braccio di Sandokan, che la sosteneva.
– Non ancora, non ancora! – rispose il pirata. – Marianna, raggiungi la tua cabina, e lascia a me la forza per ischiacciarli.
Un colpo di cannone partì dal piroscafo che giungeva a tutto vapore cercando separare i tre prahos. La palla fischiò alle orecchie di Sandokan, mentre una seconda palla partita dalla cannoniera che già cercava di abbordare il legno del Portoghese, smussava l’albero di maistra. Inioko aprì subito dopo il fuoco, imitato dagli artiglieri degli altri prahos.
– Nella cabina, anima mia! – esclamò Sandokan, commosso. – Bisogna che io sia completamente libero perché ritorni la Tigre della Malesia.
Afferrò fra le vigorose braccia la giovanetta e mentre che la mitraglia fischiava a lui d’intorno frantumando con orrendi scrosci gli attrezzi, si precipitò nella cabina. Marianna si aggrappò disperatamente al suo collo nel momento che pigliava lo slancio per risalire la scala.
– Sandokan! Sandokan! – esclamò ella con voce tremante. – Non lasciarmi così, non allontanarti dal mio fianco… Ah! Sandokan, ho paura… ho paura, ho sinistri presentimenti.
Il pirata se la staccò con dolce violenza.
– Non tremare, amor mio – le disse. – Lascia che io salga in coperta, lascia ch’io provi ancora una volta le emozioni che provavo quando ero Tigre, lascia che io oda ancora una volta il ruggito dei cannoni e il sibilo delle bombe e le urla dei morenti, che io veda ancora sangue e cadaveri. Bisogna che io ti difenda.
– Ah! Se tu sapessi quali sinistri timori mi assalgono! – mormorò la giovanetta. – Rimani presso di me e io ti difenderò dalle armi dei miei compatrioti. Sandokan! Sandokan!…
Il cannone tuonava furiosamente in coperta e si udivano le urla terribili dei combattenti e i gemiti strazianti dei feriti. Sandokan si svincolò dalla giovanetta e si scagliò come un forsennato verso la scala urlando:
– Sangue! Sangue! La Tigre della Malesia ha sete! Guai chi tocca mia moglie! Io la difendo!…
La cannoniera si batteva disperatamente contro il prahos del Portoghese che le faceva saltar i suoi uomini e che le frantumava le ruote, le murate e gli alberi, a meno di mezzo miglio di distanza. Il piroscafo assaliva invece con vantaggio il prahos di Sandokan e quello del Dajacco coprendoli di ferro, fracassando i loro fianchi, smontando le artiglierie e sventrando i marinai.
La comparsa della Tigre rianimò i pirati che si sentivano impotenti dinanzi a tanta pioggia di bombe e di mitraglia. Il terribile uomo si mise in persona a uno dei cannoni, urlando sempre ferocemente.