Kitabı oku: «Le due tigri», sayfa 2
In quel momento si udirono un fragor di catene e un tonfo, poi dei comandi, quindi si sentí una scossa piuttosto brusca.
– Hanno gettato le ancore, – disse Yanez, alzandosi. – Saliamo, Sandokan.
Vuotarono le tazze e rimontarono sulla tolda.
La notte era scesa già da un paio d’ore, avvolgendo le pagode della città nera e i campanili, le cupole ed i grandiosi palazzi della città bianca, ma miriadi di fanali e di lumi scintillavano lungo le ampie gettate, nello Strand e nei superbi squares che sono annoverati tra i piú belli del mondo.
Sul fiume, che in quel luogo era largo piú d’un chilometro, un numero infinito di navi a vapore ed a vela, provenienti da tutte le parti del mondo, ondulavano sulle loro ancore, coi fanali regolamentari accesi.
La Marianna si era ancorata verso gli ultimi bastioni del forte William, la cui massa imponente giganteggiava fra le tenebre.
Sandokan si assicurò se le ancore avevano preso buon fondo, fece abbassare le immense vele che sfioravano le grab vicine poi ordinò di calare la bandiera.
– È quasi mezzanotte, – disse a Kammamuri. – Possiamo recarci dal tuo padrone?
– Sí, ma vi consiglierei di indossare un costume meno vistoso per non allarmare le spie dei Thugs. Io ed il mio padrone abbiamo la certezza di essere sorvegliati dai banditi di Suyodhana.
– Ci vestiremo da indiani, – rispose Sandokan.
– E meglio ancora da sudra – disse Kammamuri.
– Che cosa sono questi?
– Servi, signore.
– L’idea è buona. Le vesti non mancano a bordo; vieni ad acconciarci in modo da poter ingannare le spie e cominciamo la nostra campagna.
– Se la Tigre dell’India è furba, quella della Malesia non lo sarà meno. Vieni, Yanez.
Capitolo III. TREMAL-NAIK
Mezz’ora dopo la baleniera della Marianna scendeva il fiume, montata da Sandokan, Yanez, Kammamuri e da sei robusti malesi dell’equipaggio.
I due comandanti del praho si erano camuffati da servi indiani, annodandosi intorno ai fianchi un largo pezzo di tela, il dootée, e coprendosi le spalle con una specie di mantello di tela grossolana, di color marrone, il dubgah.
Entro la fascia però avevano nascoste un paio di pistole dalla canna lunga e il kriss malese, quel terribile pugnale a lama serpeggiante lungo piú d’un piede, che produce delle ferite orribili che di rado guariscono perfettamente.
La città era ormai immersa nelle tenebre, essendo stati spenti tutti i fanali delle gettate e degli squares; solamente i fanali delle navi rispecchiavano le loro luci bianche, verdi e rosse nelle oscure acque del fiume.
La baleniera filò fra i velieri, le grab, i pariah, le pinasse ed i piroscafi che ingombravano le due rive, poi si diresse verso i bastioni meridionali del forte William, approdando dinanzi alla spianata che in quel momento era buia e deserta.
– Ci siamo, – disse Kammamuri. – La via Durumtolah è a pochi passi.
– Abita un bengalow? – chiese Yanez.
– No, un vecchio palazzo indiano che un tempo era abitato dal defunto capitano Macpherson e che ereditò dopo la morte di Ada.
– Guidaci, – disse Sandokan.
Scese a terra, poi volgendosi verso i malesi, disse:
– Voi rimarrete qui ad aspettarci.
– Sí capitano, – rispose il timoniere, che aveva guidata la baleniera.
Kammamuri si era messo in marcia inoltrandosi attraverso la vasta spianata. Sandokan e Yanez lo avevano seguito tenendo una mano sotto il dubgah per essere piú pronti a estrarre le armi nel caso che fosse stato bisogno di servirsene.
La spianata però era deserta o almeno appariva tale, poiché in quell’oscurità non era facile poter distinguere un uomo.
Dopo pochi minuti imboccarono la via Durumtolah, fermandosi dinanzi ad un vecchio palazzo di stile indiano, di forma quadrata, sormontato da tre piccole cupole e da terrazze.
Kammamuri trasse una chiave e la introdusse nella toppa. Stava per aprire la porta, quando Sandokan, la cui vista era piú acuta di quella dei compagni, scorse un’ombra umana staccarsi da una delle colonne che reggevano una piccola veranda e allontanarsi rapidamente, scomparendo fra le tenebre.
Per un momento ebbe l’idea di precipitarsi sulle tracce del fuggitivo; però si trattenne temendo di cadere in qualche agguato.
– L’avete scorto quell’uomo? – chiese a Kammamuri e a Yanez.
– Chi? – domandarono a una voce il portoghese e il maharatto.
– Un uomo che si teneva celato dietro a una di quelle colonne. Avevi ragione Kammamuri di sospettare che i Thugs sorveglino la casa. Ne abbiamo avuto or ora la prova. Poco importa; quello spione non ha potuto vederci in viso con questa oscurità, e poi non mi conosce. Cercheremo però di sorprenderlo.
Kammamuri aprí la porta che poi richiuse senza far rumore e salita una scala di marmo che era ancora illuminata da una specie di lanterna cinese, introdusse i due comandanti del praho in una saletta ammobiliata semplicemente all’inglese, con sedia e tavola di bambú artisticamente lavorate.
Un globo di cristallo azzurro, sospeso al soffitto, proiettava una luce dolcissima, facendo scintillare le pietre lucidissime del pavimento, graziosamente intarsiate in nero, in rosso ed in giallo.
Erano appena entrati, quando una porta s’apri e un uomo si precipitò fra le braccia di Sandokan prima, poi fra quelle di Yanez, esclamando:
– Miei amici! Miei valorosi amici! Quanto vi ringrazio di essere venuti. Voi mi renderete la mia Darma, è vero?
L’uomo che cosí parlava era un bellissimo tipo d’indiano bengalino, di trentacinque o trentasei anni, dalla taglia elegante e flessuosa senz’essere magra, dai lineamenti fini ed energici colla pelle lievemente abbronzata e lucentissima e gli occhi nerissimi e pieni di fuoco.
Vestiva come i ricchi indiani modernizzati della Young-India, i quali hanno ormai lasciato il dootée e il dubgah pel costume anglo-indiano, piú semplice, ma anche piú comodo: giacca di tela con alamari di seta, fascia, ricamata e altissima, calzoni stretti, pure bianchi e turbantino ricamato.
Sandokan e Yanez avevano contraccambiato l’abbraccio dell’indiano, poi il primo gli aveva risposto con voce affettuosa:
– Calmati, Tremal-Naik, se noi abbiamo lasciata la nostra selvaggia Mompracem e siamo qui, vuol dire che siamo pronti a impegnare la lotta contro Suyodhana e tutti i suoi sanguinari banditi.
– La mia Darma! – gridò l’indiano con un singhiozzo straziante, mentre si comprimeva gli occhi come per impedire alle lacrime di sgorgare.
– La ritroveremo, – disse Sandokan. – Tu sai che cosa è stata capace di fare la Tigre della Malesia, quando tu eri prigioniero di James Brooke, il rajah di Sarawak.
Se io ho detronizzato quell’uomo che si chiamava lo sterminatore dei pirati e che con una sola parola faceva tremare tutti i sultani e i rajah del Borneo, saprò vincere anche Suyodhana e costringerlo a renderti la figlia.
– Sí, – disse Tremal-Naik, – tu e Yanez soli potreste misurarvi contro quei settari maledetti, contro quei sanguinari adoratori di Kalí e vincerli. Ah! Se dovessi perdere anche la figlia, dopo d’aver perduto la mia Ada, la sola donna che io abbia amata al mondo, sento che non sopravviverei e che impazzirei.
Aver tanto lottato e sofferto per strappare a quei mostri la donna che doveva diventare un giorno mia moglie e veder ora nelle loro mani mia figlia. È troppo! Sento che il mio cuore scoppia.
– Tranquillizzati, Tremal-Naik, – disse Yanez, che era vivamente commosso pel profondo dolore dell’indiano. – Non si tratta ora di piangere, bensí d’agire e di mettersi in campagna senza perdere tempo.
Udiamo, mio povero amico: sei tu convinto che i Thugs si siano nuovamente riuniti nei sotterranei di Rajmangal?
– Ne ho la certezza, – rispose l’indiano.
– E che Suyodhana sia là?
– Si dice che sia tornato fra di loro.
– Dunque la piccola Darma sarà stata portata a Rajmangal? – disse Sandokan.
– Non ne ho la certezza.
Essa però deve aver rimpiazzato il posto che occupava un giorno sua madre, mia moglie.
– Può correre qualche pericolo?
– Nessuno: la «Vergine della pagoda» incarna sulla terra la mostruosa Kalí e la si adora e la si teme come una divinità autentica.
– Dunque nessuno ardirebbe farle alcun male.
– Nemmeno Suyodhana, – rispose Tremal-Naik.
– Quanti anni ha la tua Darma?
– Quattro anni.
– Che strana idea di fare d’una bambina una divinità! – esclamò Yanez.
– Era la figlia della «Vergine della pagoda» che per sette anni rappresentò Kalí nei sotterranei di Rajmangal, – disse Tremal-Naik, con un singhiozzo soffocato.
– Fratellino mio, – disse Yanez, volgendosi verso Sandokan, – Tu mi hai parlato d’un progetto.
– E l’ho anche maturato, – rispose la Tigre della Malesia. – Solamente vorrei, prima di metterlo in esecuzione, avere la certezza che i Thugs si trovino realmente nei sotterranei di Rajmangal. Ciò è necessario.
– Come fare dunque?
– Bisogna impadronirci di qualche thug e costringerlo a confessare. Suppongo che a Calcutta ve ne saranno.
– E non pochi, – disse Tremal-Naik.
– Cercheremo di scovarne qualcuno.
– E poi? – chiese Yanez.
– Se si sono nuovamente radunati a Rajmangal, andremo a fare una partita di caccia fra quelle jungle. Kammamuri mi ha detto che fra quei pantani le tigri abbondano.
Andremo quindi a ucciderne alcune: prima quelle a quattro zampe, piú tardi quelle a due e senza coda.
Cosí potremmo sorvegliare Rajmangal e scoprire forse certe cose che potrebbero essere molto preziose per noi.
Tu sei sempre un buon cacciatore, è vero Tremal-Naik?
– Sono un figlio delle Sunderbunds e delle jungle, – rispose l’indiano.
– Ma perché cacciare le tigri prima degli uomini?
– Per ingannare l’amico Suyodhana. I cacciatori non sono né cipayes né policeman, e se è vero che quelle jungle sono ricche di selvaggina, i Thugs non si allarmeranno della nostra presenza. Che cosa ne dici, Yanez?
– Che la fantasia della Tigre della Malesia è ben lungi dallo spegnersi.
– Abbiamo da lottare con un furbo, cerchiamo di essere piú furbi e piú abili di lui. Tu conosci quei pantani, Tremal-Naik?
– Tutte le isole e tutti i canali sono noti a me e a Kammamuri.
– Vi è un buon fondo dinanzi alle Sunderbunds?
– Vi sono dei bracci di mare anche, dove il tuo praho può trovare degli ottimi rifugi contro le onde e i venti.
– Dimmene uno.
– Quello di Raimatla, per esempio.
– Lontano dal covo dei Thugs?
– Una ventina di miglia.
– Benissimo, – disse Sandokan. – Oltre Kammamuri hai qualche servo fidato?
– Sí, anche due se ne vuoi.
Sandokan mise una mano nella tasca interna della sua giubba ed estrasse un grosso pacco di venti biglietti di banca.
– Incaricherai quel tuo fedele servo di provvederci due elefanti coi rispettivi conduttori senza lesinare sul prezzo.
– Ma… io… – chiese l’indiano.
– Tu sai che la Tigre della Malesia ha diamanti da vendere a tutti i rajah e i maharajah dell’India, – rispose Sandokan, sorridendo.
Poi aggiunse con profonda tristezza e con un sospiro:
– Non ho figli io e nemmeno Yanez. Che cosa dovrei farne delle immense ricchezze accumulate in quindici anni di scorrerie? Il destino è stato crudele con me, togliendomi Marianna.
Il formidabile pirata si era vivamente alzato. Un dolore intenso, indescrivibile, aveva scomposto i fieri lineamenti dell’antico scorridore dell’arcipelago malese. Fece due o tre volte il giro della stanza, con la fronte aggrottata, le labbra increspate, le mani strette sul cuore, e gli occhi fiammeggianti, fissi nel vuoto.
– Sandokan, fratellino mio, – gli disse Yanez con voce dolce, posandogli una mano sulla spalla.
Il pirata si era arrestato mentre un rauco singhiozzo gli moriva sulle labbra.
– Che non la possa dimenticare mai? – gridò con voce strozzata e asciugandosi, quasi con rabbia, due lagrime che si raccoglievano sotto le folte ciglia. – Mai! Mai! L’ho troppo amata la Perla di Labuan! Maledetto destino.
Tremal-Naik si era avvicinato alla Tigre della Malesia. Anche l’indiano piangeva senza cercare di frenare le lagrime.
I due uomini si gettarono l’uno nelle braccia dell’altro e rimasero alcuni istanti stretti.
– Morta la tua donna e morta anche la mia, – disse l’indiano, il cui dolore non era meno intenso di quello della Tigre della Malesia.
Kammamuri, in un angolo, si asciugava gli occhi; anche Yanez sembrava profondamente commosso.
Ad un tratto la Tigre della Malesia si separò bruscamente da Tremal-Naik. Il suo viso poco prima cosí alterato, aveva la sua abituale espressione calma e ad un tempo energica.
– Quando avremo la certezza che Suyodhana si trova laggiú, – disse, – andremo nelle Sunderbunds. Puoi domani avere gli elefanti?
– Lo spero, – disse Tremal-Naik.
– Noi rimarremo qui fino a quando potremo avere nelle nostre mani qualche thug poi vedremo che cosa si dovrà fare. Quando verrai a bordo? Sei piú sicuro sul nostro praho che nel tuo palazzo.
– Domani sera, a ora tarda onde non mi spiino. Il mio palazzo è sorvegliato dai Thugs, lo so.
– T’aspettiamo. Yanez, torniamo a bordo. Sono già le due del mattino.
– Perché non vi riposate qui? – chiese Tremal-Naik.
– Per non destare alcun sospetto, – rispose Sandokan. – Vedendoci domani uscire, qualche spia potrebbe seguirci fino al praho e ciò non mi garberebbe.
Con questa oscurità anche se qualcuno tentasse di tenerci d’occhio, non vi riuscirebbe perché abbiamo la baleniera sul fiume e possiamo ingannarlo sulla nostra direzione. Addio, Tremal-Naik, domani avrai nostre nuove.
– Partiremo domani sera, dunque?
– E molto tardi, se potrai trovare gli elefanti. Prendi però delle precauzioni per non venire seguito.
– Saprò ingannare le spie. Vuoi che Kammamuri ti accompagni?
– È inutile, siamo armati e la gettata è vicina.
Si abbracciarono nuovamente, poi Sandokan e Yanez scesero lo scalone accompagnati da Kammamuri.
– State in guardia, – disse il maharatto mentre apriva la porta.
– Non temere, – rispose Sandokan. – Non siamo uomini da lasciarci sorprendere.
Appena fuori, i due comandanti del praho levarono le pistole che tenevano nascoste nella larga fascia e le armarono.
– Apriamo gli occhi, Yanez, – disse Sandokan.
– Li apro, fratellino mio, ma confesso che non ci vedo al di là della punta del mio naso. Mi pare di essere entro un’immensa botte di catrame. Che bella notte per una imboscata!
Si fermarono qualche istante in mezzo alla via, tendendo gli orecchi, poi, rassicurati dal profondo silenzio che regnava, si diressero verso la spianata di forte William.
Si tenevano però lontani dalle pareti delle case che fiancheggiavano la via, e mentre l’uno guardava a destra l’altro guardava a sinistra.
Ogni quindici o venti passi si fermavano per guardarsi alle spalle e per ascoltare. Erano convinti di essere seguiti da qualcuno, forse dall’uomo che Sandokan aveva veduto allontanarsi nel momento in cui Kammamuri stava aprendo la porta del palazzo.
Tuttavia giunsero felicemente all’estremità della via, senza che nulla fosse avvenuto e sboccarono sulla spianata dove l’oscurità era meno fitta.
– È là il fiume, – disse Sandokan.
– L’odo, – rispose Yanez.
Affrettarono il passo ma non erano ancora giunti a metà della spianata, quando ad un tratto caddero l’uno sull’altro.
– Ah! Canaglie! – gridò Sandokan. – Hanno teso un filo di ferro!
Nel medesimo istante alcuni uomini che si tenevano appiattati fra le folte erbe, si precipitarono sui due scorridori del mare facendo fischiare in aria qualche cosa.
– Non alzarti, Sandokan! I lacci! – gridò Yanez.
Vi risposero due colpi di pistola, sparati l’uno dietro l’altro.
Sandokan aveva fatto fuoco precipitosamente, nel momento in cui si sentiva colpire alle spalle da una palla di ferro o di piombo. Uno degli assalitori cadde, mandando un grido che subito si spense. I suoi compagni si gettarono a destra e a sinistra e scomparvero rapidamente fra le tenebre, prendendo diverse direzioni.
Sui bastioni del forte William si udí una sentinella a gridare:
– Chi va là?
Poi piú nulla.
Yanez e Sandokan, temendo un ritorno offensivo degli assalitori, non si erano mossi.
– Se ne sono andati, – disse finalmente il primo, non vedendo comparire piú nessuno. – Non sono molto coraggiosi questi Thugs, ammesso che fossero veramente gli strangolatori di Suyodhana. Sono scappati come lepri ai primi spari.
– L’agguato era stato ben preparato, – rispose Sandokan. – Se tardavo a scaricare le pistole ci strangolavano. È un filo d’acciaio che hanno teso per farci cadere.
– Andiamo a vedere se quel briccone è proprio morto.
– Non si muove piú.
– Può fingersi morto.
Si alzarono guardandosi intorno e tenendo in alto un braccio per tema di sentirsi imprigionare il collo da qualche altro laccio, e s’avanzarono verso l’uomo che giaceva disteso fra le erbe, colle mani strette sul capo e le gambe ripiegate.
– Ha ricevuto una palla nel cranio, – disse Sandokan, vedendo che aveva il viso imbrattato di sangue.
– Che sia un thug?
– Kammamuri ci ha detto che quei settari hanno un tatuaggio sul petto.
– Portiamolo nella scialuppa.
– Taci!
Un fischio erasi udito in lontananza, e un altro vi aveva risposto verso la via Durumtolah.
– Mio caro Yanez, – disse Sandokan. – Alla baleniera e senza perdere tempo. Avremo altre occasioni per osservare i tatuaggi dei Thugs.
Balzarono in piedi, saltarono il filo d’acciaio e si diressero rapidamente verso il fiume, mentre fra le tenebre echeggiava un terzo fischio.
La baleniera era ormeggiata al medesimo posto e mezzo equipaggio era sulla gettata armato di fucili.
– Padrone, – disse il timoniere scorgendo Sandokan, – siete stato voi a far fuoco?
– Sí, Rangary.
– L’avevo detto ai miei uomini che quegli spari erano di pistole di Mompracem. Stavo per accorrere in vostro aiuto.
– Non c’era bisogno, – rispose Sandokan. – È venuto nessuno a ronzare attorno alla scialuppa?
– No, signore.
– A bordo, tigrotti miei. È già molto tardi.
Fece accendere il fanale collocato a prora e la baleniera si allontanò.
Quasi nell’istesso momento un piccolo gonga che era nascosto dietro una pinassa, ancorata presso la gettata e montato da due uomini, nudi come vermi e unti di olio di cocco, si staccava silenziosamente dalla riva filando dietro la baleniera del praho.
Capitolo IV. IL «MANTI»
L’indomani Yanez e Sandokan, dopo d’aver dormito alcune ore, stavano sorbendo un’eccellente tazza di the; e mentre chiacchierando sugli avvenimenti della notte, videro entrare nel salotto il mastro dell’equipaggio, un superbo malese, tarchiato come un lottatore e dai muscoli enormi.
– Che cosa vuoi, Sambigliong? – chiese Sandokan che si era alzato. – È giunto qualche messo di Tremal-Naik?
– No, capitano. Vi è un indiano che chiede di salire a bordo.
– Chi è?
– Un manti, mi ha detto.
– Che cos’è questo manti?
– È una specie di stregone, – disse Yanez, che avendo soggiornato nella sua gioventú parecchi anni a Goa, ne sapeva qualche cosa.
– Ti ha detto che cosa vuole quell’uomo? – chiese Sandokan.
– Che viene a compiere un sacrificio a Kalí-Ghât onde i numi dell’India ti siano propizi, scadendo oggi la festa di quella divinità.
– Mandalo al diavolo.
– Vi osservo, capitano, che egli è stato ricevuto anche a bordo delle grab che ci stanno intorno e che è accompagnato da un policeman indigeno, il quale mi ha detto di non rifiutare la sua visita, se non vogliamo avere dei fastidi.
– Facciamolo salire, Sandokan, – disse Yanez. – Rispettiamo i costumi del paese.
– Che uomo è? – chiese il pirata.
– Un bel vecchio, capitano, dall’aspetto maestoso.
– Fa’ abbassare la scala.
Quando salirono poco dopo sulla tolda, il manti era già a bordo, mentre invece il policeman indigeno era rimasto nel piccolo gonga in compagnia di parecchi capretti che belavano lamentosamente.
Come Sambigliong aveva detto, quel medico e stregone ad un tempo, era un bel vecchio dalla pelle abbronzata, i lineamenti un po’ angolosi, gli occhi nerissimi che avevano uno strano splendore ed una lunga barba bianca.
Sulle braccia, sul petto e sul ventre aveva delle righe bianche e cosí pure sulla fronte, distintivi dei seguaci di Siva, i quali adoperano le ceneri di sterco di vacca o ceneri raccolte sui luoghi ove si bruciano i cadaveri.
Il suo vestito si limitava a un semplice dootée che gli copriva appena i fianchi.
– Che cosa vuoi? – gli chiese Sandokan, in inglese.
– Compiere il sacrificio della capra in onore di Kalí-Ghât, di cui oggi scade la festa, – rispose il manti nell’egual lingua.
– Noi non siamo indiani.
Il vecchio socchiuse gli occhi e fece un gesto di stupore.
– Chi siete dunque?
– Non occuparti di sapere chi noi siamo.
– Venite molto da lungi?
– Forse.
– Io compirò il sacrificio onde il tuo ritorno possa essere felice. Nessun equipaggio, anche straniero, si rifiuterebbe di lasciar compiere una tale cerimonia a un manti che può gettare dei malefizi. Chiedilo al policeman che m’accompagna.
– Allora spicciati, – disse Sandokan.
Il vecchio aveva portato con sé una capretta tutta nera ed una bisaccia di pelle dalla quale estrasse dapprima un pentolino che pareva contenesse del burro, quindi due pezzi di legno, uno piatto da una parte, con un buco nel mezzo, l’altro piú sottile e acuminato.
– Sono legni sacri, – disse il manti, mostrandoli a Sandokan e a Yanez i quali seguivano con curiosità le mosse del vecchio.
Piantò quella specie di punteruolo nel bastone piatto, poi servendosi d’una piccola correggia lo fece girare vertiginosamente.
– Pare che accenda il fuoco, – disse Sandokan.
– Il fuoco sacro per il sacrificio, – rispose Yanez, sorridendo. – Quante barocche superstizioni e credenze hanno questi indiani!
Dopo mezzo minuto una fiamma scaturí dal buco e i due legni presero fuoco ardendo rapidamente.
Il manti girò lentamente su se stesso curvandosi verso oriente, poi a occidente, quindi a mezzodí e finalmente a settentrione, dicendo con voce solenne:
– Luci d’India, di Sourga e d’Agni, che illuminate la terra e il cielo, rischiarate il sangue dell’olocausto che io offro a Kalí-Ghât, e non quello degli uomini che qui vedono. – Incrociò i due pezzi di legno sacro lasciando che si carbonizzassero, poi li depose su una lastra di rame e versò su di essi un po’ di burro contenuto nel pentolino.
Ravvivatasi la fiamma, il vecchio stregone prese il capretto, estrasse un coltello e con un rapido colpo lo decapitò, lasciando che il sangue colasse sui legni sacri.
Quando il sangue cessò di uscire e il fuoco fu spento, raccolse le ceneri diventate rosse, si segnò la fronte e il mento, quindi avvicinatosi a Sandokan e a Yanez marcò la loro fronte, dicendo:
– Ora potete partire e tornare al vostro lontano paese, senza temere le tempeste, perché lo spirito d’Agni e la forza di Kalí-Ghât sono con voi.
– Hai finito? – chiese Sandokan, porgendogli alcune rupie.
– Sí, sahib, – rispose il vecchio fissando sulla Tigre della Malesia i suoi occhi nerissimi, nei quali pareva splendesse un raggio soprannaturale. – Quando partirai?
– È già la seconda volta che tu mi rivolgi questa domanda, – disse Sandokan. – Perché ti preme saperlo?
– È una domanda che io faccio sempre a tutti gli equipaggi delle navi. Addio sahib e che Siva unisca la sua possente protezione a quella di Agni e di Kalí-Ghât.
Prese il capretto e discese nel suo gonga, dove il policeman indigeno lo aspettava, seduto sulla panchina di prora, fumando una sigaretta di palma.
Il piccolo battello si staccò dalla scala, ma invece di scendere il fiume dove vi erano altri moltissimi velieri, lo risalí passando sotto la poppa del praho.
Sandokan e Yanez, che lo avevano seguito collo sguardo, videro con loro sorpresa il manti abbandonare per un istante i remi, volgersi vivamente a fissare gli occhi sul coronamento di poppa, dove in lettere d’oro spiccava il nome della nave, quindi riprenderli e allontanarsi velocemente, scomparendo in mezzo alla moltitudine di velieri che ingombravano il fiume.
Sandokan e Yanez si erano guardati l’un l’altro, come se un medesimo pensiero fosse balenato nel loro cervello.
– Che cosa ne pensi tu di quel vecchio? – chieso Sandokan.
– Penso che quella barocca cerimonia è stata una scusa per salire a bordo e sapere chi noi siamo, – rispose il portoghese che appariva turbato.
– Il tuo sospetto è identico al mio.
– Sandokan, che siamo stati giuocati?
– Non è possibile supporre che i Thugs sappiano già che noi siamo amici di Tremal-Naik e che siamo venuti qui per aiutarlo a ritrovare la piccola Darma. Che siano demoni quegli uomini, o stregoni?.
– Non so che cosa dire, – rispose Yanez, che era diventato pensieroso. – Aspettiamo Kammamuri.
– Mi sembri inquieto, Yanez.
– E ne ho il motivo. Se i Thugs sanno ormai quali sono le nostre intenzioni e lo scopo del nostro viaggio, temo che avremo da fare con degli avversari formidabili.
– Forse ci siamo ingannati, Yanez, – disso Sandokan. – Quel manti può essere invece un povero diavolo che cerca di guadagnarsi qualche rupia coi suoi sacrifici piú o meno sciocchi.
– Pure, quella domanda ripetuta e quello sguardo dato al nome della nostra nave, mi hanno profondamente impressionato.
– Che abbia corbellato anche quel policeman?
– Trovo anzi strana la presenza di quel poliziotto nel gonga del ciarlatano.
Sandokan rimase alcuni istanti silenzioso, passeggiando sul cassero, poi avvicinandosi rapidamente al portoghese e prendendolo per un braccio, gli disse:
– Yanez, ho un altro sospetto.
– E quale?
– Che fosse un thug truccato da poliziotto, per meglio ingannarci.
Il portoghese guardò Sandokan con sgomento.
– Lo credi? – chiese.
– E scommetterei il mio narghilé contro una delle tue sigarette che sei anche tu convinto che quell’uomo non era un vero policeman, – disse Sandokan.
– Sí, fratellino mio: noi dobbiamo essere stati mistificati da gente piú furba di noi. Mio caro Sandokan, la Tigre dell’India dà prova di essere, almeno finora, piú astuta di quella malese.
– Sí, piú civilizzata questa indiana, mentre quella malese è ancora selvaggia, – disse Sandokan, sforzandosi a sorridere. – Bah! Prenderemo presto la nostra rivincita. D’altrondo quel briccone di manti, ammesso che fosse veramente una spia di Suyodhana, nulla ha appreso dalle nostre labbra e ignora ancora chi noi siamo, per quale motivo noi ci troviamo qui e…
Si era bruscamente interrotto, accostandosi alle murate di tribordo. Pareva che seguisse qualche imbarcazione che scivolava fra le navi ancorate in mezzo al fiume.
– Mi sembra d’aver veduto la scialuppa colla testa d’elefante che ieri ci venne incontro con Kammamuri, – disse. – È scomparsa dietro quel gruppo di pinasse e di grab, ma non tarderà a mostrarsi.
– Dovrebbe essere già qui, – disse Yanez estraendo un magnifico cronometro d’oro.
Salirono sul capo di banda tenendosi aggrappati alle griselle dell’albero maestro e scorsero infatti un fylt’ sciarra, somigliante a quello che la sera innanzi aveva condotto il maharatto a bordo, manovrare abilmente e anche velocemente fra le navi.
Era montato da quattro remiganti e guidato da un uomo che pareva un mussulmano dell’India settentrionale, dal costume che indossava.
– Che Kammamuri si sia camuffato? – chiese Sandokan. – Quella scialuppa si dirige verso di noi.
Infatti il fylt’ sciarra uscito da quel caos di navigli, correva verso la Marianna, rimontando velocemento la corrente che in quel luogo si faceva sentire pochissimo, ostacolata da tutti quei galleggianti che ne rompevano la violenza.
In pochi minuti giunse sotto il tribordo del praho, arrestandosi presso la scala.
Il mussulmano che lo guidava dopo d’aver scambiate alcune parole coi remiganti, salí rapidamente a bordo, inchinandosi dinanzi a Yanez e a Sandokan che erano accorsi e che lo guardavano con sorpresa.
– Non mi riconoscete piú, dunque? – chiese il nuovo arrivato, scoppiando in una risata. – Sono ben contento, perché allora potrò ingannare anche quei cani di Thugs.
– Ti faccio le mie felicitazioni, mio caro Kammamuri, – disse Yanez. – Se non facevi udire la tua voce stavo per dare l’ordine di rimandarti nella tua scialuppa.
– Una truccatura magnifica, – disse Sandokan. – Sei irriconoscibile, mio bravo maharatto.
Il fedele servo di Tremal-Naik era diventato veramente irriconoscibile e chiunque lo avrebbe scambiato per un maomettano di Agra o di Delhi.
Aveva lasciato il dootée e il dubgah pel kurty, costume che a prima vista rassomiglia a quello dei turchi e dei tartari, sebbene sia un po’ diverso perché la casacca è piú corta e aperta dal lato sinistro invece che dal destro, i calzoni piú ampi e anche il turbante d’altra forma, essendo piú piatto sul davanti e piú rigonfio di dietro.
Per meglio completare l’illusione, il brav’uomo aveva fatto sparire le linee che i seguaci di Visnú portano sulla fronte e si era appiccicata una superba barba nera che gli dava un aspetto imponente.
– Ammirabile, – ripeté Yanez. – Mi sembri un qualche santone di ritorno dalla Mecca. Non ti mancherebbe che un po’ di verde sul turbante.
– Credete che i Thugs mi possano riconoscere?
– A menoché non siano diavoli o stregoni, nessuno potrebbe sospettare in te il maharatto di ieri.
– Le precauzioni sono necessarie, signore. Anche stamane ho veduto ronzare attorno alla casa del padrone delle figure sospette.
– Che ti avranno seguito, – disse Sandokan.
– Ho preso le mie precauzioni per far perdere le mie tracce e spero di esserci riuscito. Ho lasciato la casa in un palanchino ben chiuso e mi sono fatto condurre allo Strand, dove vi è sempre una folla straordinaria, scendendo dinanzi a un albergo.
La mia trasformazione l’ho compiuta colà e quando sono uscito nessuno mi ha riconosciuto, nemmeno i servi.
Il fylt’ sciarra m’aspettava lontano dallo Strand, sul quai della città nera, quindi nessuno può avermi seguito.
– Bada! I Thugs sono assai furbi e ne abbiamo avuto la prova. Essi ormai sanno che noi siamo amici del tuo padrone e ci sorvegliano.
Il maharatto fece un gesto di spavento e divenne livido.
– È impossibile! – esclamò.
– Hanno già tentato di assassinarci quando uscimmo dal palazzo di Tremal-Naik, – disse Sandokan.
– Voi!
– Bah! Un attacco male riuscito che abbiamo ricambiato con due palle, di cui una non andò perduta. Non è però quell’agguato che in questo momento ci preoccupa. È una visita che ci fu fatta poco fa e che ci ha messo indosso dei gravi sospetti.
È venuto uno stregone, o qualche cosa di simile, a sacrificare una capra…
– Un manti, – disse Yanez.
Kammamuri mandò un grido e impallidí maggiormente.
– Un manti, avete detto! – gridò.
– Lo conosceresti forse? – chiese Sandokan, con inquietudine.