Kitabı oku: «Le due tigri», sayfa 21
Capitolo XXXII. VERSO DELHI
Sandokan, Yanez ed i loro compagni udendo quel grido si erano subito fermati, ricaricando precipitosamente le carabine e gettandosi dietro agli alberi.
Si erano appena messi al riparo, quando videro giungere a corsa disperata il cornac. Il pover’uomo pareva in preda ad un vivissimo terrore e si guardava di quando in quando alle spalle come se temesse di vedersi raggiungere da qualcuno.
– Che cos’hai? Chi ti minaccia? – chiese Bedar, muovendogli incontro.
– Là!… là!… – rispose il conduttore, con voce strozzata.
– Ebbene?… Spiegati.
– Un elefante montato da parecchi uomini.
– Deve essere quello che mancava, – disse Sandokan che li aveva raggiunti. – Avrà attraversato il fiume lungi da qui per prenderci alle spalle.
Dove si è fermato?
– Presso il mio animale.
– Ti hanno veduto a fuggire gli uomini che lo montano?
– Sí, sahib; anzi mi hanno gridato dietro di fermarmi minacciando di farmi fuoco addosso. Mi porteranno via Djuba, signore, ed io sarò un uomo rovinato.
– Ho qui nella mia tasca di che pagare cento elefanti, – rispose Sandokan, – quindi tu non perderai nulla. E poi noi impediremo a quei bricconi di rubartelo. Amici seguitemi e tenetevi sempre nascosti in mezzo ai cespugli. Vediamo se possiamo sorprenderli.
– E mettere fuori di combattimento anche quel bestione, cosí non potranno piú inseguirci, – aggiunse Yanez.
– Avanti, – comandò la Tigre della Malesia.
Si slanciarono in mezzo ai cespugli che in quel luogo erano assai folti e raggiunsero le grandi macchie, senza che gl’indiani del terzo elefante si facessero vedere.
– Dove si saranno fermati? – si chiese Sandokan, un po’ insospettito.
– Che ci tendano un agguato? – chiese Yanez.
– Ne ho quasi la certezza.
– Conduttore, – disse Tremal-Naik, – siamo vicini al luogo ove hai lasciato Djuba?
– Sí, signore.
– Lasciate che vada un po’ a vedere io, – disse Bedar. – Aspettatemi qui.
– Se li vedi retrocedi subito, – gli disse Sandokan.
Il cipai si assicurò se la carabina era carica, poi si gettò al suolo e s’allontanò strisciando come un serpente.
– Preparatevi a far fuoco, – disse Sandokan ai suoi uomini. Sento per istinto che quei bricconi ci sono piú vicini di quello che supponiamo.
Non era trascorso mezzo minuto quando un colpo di fucile rimbombò a brevissima distanza.
Un urlo di angoscia vi aveva tenuto dietro.
– Canaglie! – gridò Sandokan, balzando innanzi. – Han colpito Bedar. Avanti, tigri di Mompracem! Vendichiamolo!
In quel momento si udirono i rami della macchia a scricchiolare come se qualcuno cercasse d’aprirsi il passo, poi comparve il cipai cogli occhi strabuzzati, pallidissimo. Aveva abbandonata la carabina e si comprimeva il petto con ambe le mani.
– Bedar! – esclamò Sandokan, correndogli incontro.
L’indiano gli si abbandonò fra le braccia, dicendo con voce semi-spenta:
– Sono… morto… là… imboscati… sull’elefante… sul…
Uno sbocco di sangue gli troncò la frase. Girò gli occhi verso Tremal-Naik, come per mandargli l’ultimo saluto e scivolò fra le braccia di Sandokan cadendo fra le erbe.
– Uccidiamo quei bricconi! – urlò la Tigre della Malesia. – Alla carica!
I sei pirati, Tremal-Naik ed il cornac si rovesciarono attraverso la macchia come un uragano, senza prendere piú alcuna precauzione, poi fecero una scarica. Si erano trovati improvvisamente dinanzi al terzo elefante che si teneva immobile sotto un colossale tamarindo, la cui folta ombra lo rendeva quasi invisibile.
Sandokan e Yanez avevano fatto fuoco contro l’animale, gli altri invece avevano diretti i loro colpi sulla cassa che era montata da otto uomini, fra i quali si trovavano i due Thugs dall’enorme turbante.
Sorpresi a loro volta e con tre uomini fuori di combattimento, gl’insorti avevano perduto il loro coraggio, tanto piú che l’elefante, gravemente ferito, aveva cominciato ad infuriare, minacciando di rovesciarli tutti.
Spararono a casaccio le loro armi, poi balzarono a terra a rischio di fiaccarsi il collo, fuggendo come lepri attraverso la macchia.
Sandokan aveva caricata rapidamente la carabina.
– No, briccone, – gridò. – Non mi sfuggi!
Uno dei due Thugs era rimasto entro la cassa, fulminato da una palla; ma l’altro si era slanciato dietro agl’insorti, urlando perché si arrestassero e facessero fronte al pericolo.
Sandokan che lo aveva già scorto, lo prese di mira, prima che s’internasse nella macchia e gli fracassò la spina dorsale, facendolo cadere al suolo, stecchito.
Intanto i suoi uomini, vedendo che l’elefante stava per caricarli, reso furibondo dalle ferite riportate, lo avevano accolto con un fuoco nutrito, crivellandolo di palle in siffatto modo da farlo stramazzare di colpo.
– Mi pare che la battaglia sia finita, – disse Yanez. – Peccato che quel bravo Bedar non sia piú vivo!
– Seppelliamolo e poi partiamo senza ritardo, – disse Sandokan. – Povero uomo! La nostra libertà gli è costata la vita.
Tornarono un po’ tristi dove il cipai era caduto e servendosi dei loro coltelli scavarono frettolosamente una fossa, adagiandovelo dentro.
– Riposa in pace, – disse Tremal-Naik, che era piú commosso di tutti. – Non ti dimenticheremo.
– Partiamo senza indugio, – disse Sandokan. – Non tutti gl’indiani sono morti e potrebbero tornare con dei rinforzi.
Cornac, credi che potremo ora entrare in Delhi?
– Sí, avendomi veduto uscire coll’elefante ed essendo io conosciuto.
Dirò alle guardie che ho ricevuto l’ordine d’introdurvi in città da Abú-Assam e sono certo che mi crederanno.
– Vi potremo giungere prima di sera?
– Sí, sahib.
– Allora partiamo.
Raggiunsero l’elefante che stava saccheggiando alcuni alberi carichi di frutta, si accomodarono nell’haudah e ripresero la marcia.
Djuba si era messo nuovamente in corsa, allungando sempre piú il passo.
A mezzodí la foresta era già stata traversata.
Si fermarono presso uno stagno per fare colazione, poi verso le due ripartivano costeggiando delle immense piantagioni d’indaco e di cotone, ma per la maggior parte devastate.
Dei combattimenti fra le avanguardie inglesi ed indiane dovevano essere avvenuti in quei luoghi, a giudicarlo dalla quantità prodigiosa di marabú, che volteggiavano al di sopra dei solchi, fra i quali forse giacevano ancora numerosi cadaveri.
Verso il tramonto le alte mura di Delhi erano in vista.
– Silenzio, – disse il cornac. – Se mi fermano, lasciate parlare me solo. Non credo che opporrano difficoltà alla vostra entrata.
Alle 9 l’elefante s’inoltrava sotto la porta di Turcoman, la sola lasciata aperta, senza che le sentinelle avessero fatta alcuna obbiezione.
Delhi è la città piú venerata dei mussulmani indostani, perché contiene fra le sue mura la santa Jammah-Masgid, ossia la moschea piú grande e piú ricca che sussista in tutta l’India, ed è anche una delle piú popolose e delle piú belle, contando circa centocinquantamila abitanti, duecentosessantauna moschee, cento e ottant’otto templi indi, trecento e piú chiese anglicane ed un numero straordinario di palazzi grandiosi, d’un’architettura ammirabile. Meraviglioso sopratutto è l’antico palazzo degli imperatori del Gran Mogol, chiamato palazzo del padiscià, ove trovasi lo splendido Nahobat-Kana, il padiglione imperiale, alla cui estremità s’apre il Dewani Am o sala delle grandi udienze, decorata in mosaici di gran valore, sostenuta da eleganti colonne e con un baldacchino di marmo.
È là che trovasi pure la famosa sala del trono o divani khâs, formata da un chiosco di marmo bianco, semplice di fuori ma straordinariamente ricco nell’interno, con stupefacenti arabeschi disegnati con pietre preziose incrostate nei marmi, con ghirlande di lapislazzoli, d’onice, di sardonia ed altre non meno pregiate; gli appartamenti reali, i bagni che hanno il suolo lastricato di marmo; la moschea di Muti Masgid o tempio delle perle ed i giardini imperiali tanto decantati dai poeti mongoli.
Non hanno forse avuto torto i costruttori di quelle meraviglie d’incidere sulla porta principale del palazzo: Se c’è un paradiso sulla terra; è qui! è qui!…
Quando il drappello entrò in città, dietro ai bastioni regnava un’animazione straordinaria.
Turbe di soldati s’affannavano a innalzare trincee e terrapieni ed a mettere in batteria pezzi di cannone alla luce delle torce. La notizia che gl’inglesi avevano ricevuto il parco d’assedio si era già sparsa, ed i ribelli si preparavano animosamente alla resistenza.
Tremal-Naik ed i suoi compagni si fecero condurre dal cornac fino al bastione di Cascemir, dove riuscí loro facile trovare ospitalità presso un notabile che aveva un bengalow in quelle vicinanze, nessuno osando rifiutarsi d’accogliere i ribelli, ormai padroni assoluti della città.
Erano cosí stanchi che appena cenato si ritrassero nella stanza a loro assegnata, che dai servi del padrone era stata subito fornita di comodi letti.
– Domani ci metteremo in cerca di Sirdar, – aveva detto Sandokan, coricandosi, – chissà che non si mostri in questi dintorni anche di giorno.
Quando si svegliarono, un po’ dopo l’alba, il cannone rombava cupamente su tutti i bastioni della città!
Gl’inglesi, durante la notte, avevano aperte numerose trincee ed avevano collocato a posto i pezzi del loro parco d’assedio, bombardando furiosamente le mura.
Come fortezza, Delhi non si prestava male. Gl’imperatori mongoli vi avevano spese somme favolose per renderla inespugnabile.
Aveva una cinta merlata di dodici chilometri, costruita con grossi massi di granito, e numerose fortezze e torri massicce.
Un altro muro si estendeva dal bastione di Wellesley, fino al forte di Gar di Selimo, alto otto metri e che si appoggiava alla Giumna, il fiume che lambiva la città.
Tutte le cinte erano difese da un fosso, largo sedici metri e profondo cinque e da altri bastioni solidamente costruiti, che tuttavia non potevano durare a lungo contro i grossi pezzi d’assedio dei nemici.
Gl’inglesi, la notte del 4 settembre, avevano collocati in batteria quaranta pezzi di grosso calibro, inoltre avevano concentrato in vista delle mura due reggimenti di bersaglieri del Tingrab al comando del capitano Wilde, tiratori del Giût-Ragià, bersaglieri di Merut, lancieri, ed avevano subito vigorosamente attaccato il bastione dei Mori con dieci grossi cannoni, collocati a quattrocento metri di distanza dal fossato, mentre una divisione di fanteria manteneva un fuoco nutrito contro le mura della Cadsia-Bag, dove i ribelli avevano concentrate le loro migliori truppe. Non si erano però perduti d’animo gli assediati, quantunque scarseggiassero d’artiglierie ed avevano risposto vigorosamente, con grande slancio, dirigendo specialmente il loro fuoco contro le fanterie e con tale precisione da ammazzare ben cinquecento uomini, compresi i luogotenenti Debrante e Brannernan.
Quando Sandokan e la sua scorta discesero nella via, le prime bombe cominciavano a cadere sulla città, provocando qua e là degl’incendi, che venivano prontamente spenti, ma causando gravi danni ai ricchi negozi della Sciandni Sciowk, la piú bella e la piú splendida via di Delhi, chiamata anche via degli orefici, abitata quasi esclusivamente da venditori di gioielli.
In tutte le vie regnava un vivo fermento. Insorti e cittadini accorrevano sui bastioni, sulle torri e sulle mura merlate, credendo imminente l’assalto.
Le fucilate scrosciavano senza posa, gareggiando colle artiglierie inglesi, con un fracasso assordante.
– Ecco uno spettacolo che non mi aspettava, – disse Sandokan a Yanez. – Ma già, noi vi siamo abituati.
Si erano diretti verso il bastione di Cascemir dai cui spalti gl’indiani tiravano con due pezzi, aiutati da uno stuolo di bersaglieri, ma invano cercarono Sirdar.
– Aspettiamo questa sera, – disse Tremal-Naik.
– E se Suyodhana non avesse potuto entrare in Delhi? – chiese Yanez. – Se non è giunto ieri, non gli sarà piú possibile il farlo, ora che la città è strettamente assediata.
– Non strapparmi questa speranza, – disse Tremal-Naik. – Allora tutto sarebbe finito e Darma sarebbe perduta per me.
– Sapremmo trovarlo egualmente, – disse Sandokan. – Noi non lasceremo l’India finché non ti avremo ridata la figlia e ucciso quel furfante.
Sirdar è con lui e troverà il modo di farci avere sue notizie.
Rientriamo nella nostra casa e aspettiamo. Il cuore mi dice che Suyodhana è qui e non m’ingannerò, lo vedrai, amico Tremal-Naik.
– Non prenderemo parte alla difesa? – chiese Yanez. – Comincio ad annoiarmi.
– Serbiamoci neutrali ora che gl’inglesi non sono piú nostri nemici.
Durante la giornata, i cannoni ed i fucili continuarono a tuonare con un crescendo spaventevole.
I ribelli, incoraggiati dalla presenza di Mahomud Bahadar, il nuovo imperatore, legittimo discendente dal Gran Mogol, si battevano splendidamente, con un coraggio straordinario, aiutati anche dalla popolazione che aveva promesso di seppellirsi sotto le rovine della città piuttosto che arrendersi.
Alla sera, quando il fuoco fu cessato, Sandokan, come aveva promesso al signor de Lussac, fece gettare dall’alto del bastione di Cascemir un turbante bianco contenente una lettera con cui lo avvertiva che avevano trovato ospitalità presso un notabile, unendovi l’indirizzo, poi assieme ai compagni si sedette sulla scarpa interna della fortezza colla speranza di veder giungere il bramino.
Fu però un’altra delusione; Sirdar non diede segno di vita.
– Chissà che siamo piú fortunati domani sera, – disse a Tremal-Naik. – È impossibile che quel giovane siasi pentito dei suoi propositi.
Forse qualche caso improvviso gli avrà impedito di venire qui, e poi non dobbiamo dimenticare che Suyodhana potrebbe sorvegliarlo.
Anche le sere seguenti però non furono piú fortunate. Che cosa era avvenuto di quel bravo giovane? Era stato sorpreso a scrivere qualche altra lettera compromettente ed ucciso dai settari o Suyodhana non era giunto in tempo per entrare in Delhi?
Intanto l’assedio continuava piú stretto che mai, con enormi perdite da parte degl’inglesi e degl’insorti.
S’avvicinava il giorno dell’assalto generale.
Già l’11 settembre il forte dei Mori, vigorosamente attaccato dal contingente Sumno Cascemir e battuto in breccia a duecento soli metri di distanza da una batteria di mortai, era stato ridotto in un mucchio di rovine; il 12 gli inglesi avevano cominciato a bombardare il forte di Cascemir con dieci grossi cannoni, mentre avevano collocati otto pezzi da 18 e dodici piccoli mortai dinanzi alla trincea d’acqua da cui gli insorti si difendevano gagliardamente con un ammirabile fuoco di carabine, causando agli assedianti gravi perdite e uccidendo loro il capitano d’artiglieria Fagan.
Il 13 il bastione di Cascemir rovinava fra un nembo di fuoco, poi cadevano i fortini vicini e saltava la polveriera della trincea d’acqua, mentre il nemico tentava un furioso assalto contro il sobborgo di Kiscengange, assalto però respinto vittoriosamente dagli assediati che erano protetti da alcuni pezzi d’artiglieria.
Ma le colonne inglesi, notevolmente rinforzate, si preparavano all’attacco coll’ordine feroce dato dal generale Arcibaldo Wilson, succeduto a Bernard, di ammazzare e di saccheggiare non rispettando che le sole donne!…
Era l’ultima sera della difesa, quando Sandokan ed i suoi amici si recarono ancora una volta dietro le rovine del bastione di Cascemir, per attendervi il bramino, quantunque ormai avessero perduta la speranza di rivederlo piú mai.
Vi erano là da qualche ora, quando improvvisamente un’ombra sorse da uno dei fossati laterali e s’avanzò verso di loro dicendo:
– Buona sera, sahib!
Capitolo XXXIII. LE STRAGI DI DELHI
Un grido di gioia era sfuggito da tutti i petti, riconoscendo in quell’uomo il tanto atteso bramino che credevano ormai di non poter piú rivedere.
– Suyodhana?
– È qui, signori, – ripose Sirdar.
– Con mia figlia? – chiese Tremal-Naik.
– Sí, con tua figlia, sahib.
– Presto, a casa nostra, – disse Sandokan. – Non è questo il luogo di discorrere.
Attraversarono quasi di corsa la spianata, che si prolungava dietro le rovine del bastione, tutta coperta di morti e di pezzi d’artiglierie, e pochi minuti dopo si trovavano riuniti nella stanza che aveva loro assegnata il proprietario del bengalow.
– Ora puoi parlare liberamente, senza tema che nessuno ti oda, – disse Sandokan.
– Quando siete entrati in città?
– Solamente ieri sera, a notte troppo inoltrata per recarmi all’appuntamento che vi avevo dato, – rispose Sirdar. – Abbiamo attraversato il fiume sotto il fuoco degli inglesi e siamo qui giunti sani e salvi in seguito a non so quale miracolo.
– Perché non avete potuto entrare prima? – chiese Yanez.
– La linea ferroviaria era stata guastata dagli insorti e siamo stati costretti a noleggiare due elefanti fino a Merut.
– E perché Suyodhana è venuto qui, a rinchiudersi in una trappola? – domandò Sandokan. – La città sta per cadere nelle mani degli inglesi.
– Eravamo presi fra due fuochi, – rispose Sirdar – ed era troppo tardi per ritirarci.
Avevamo nemici dinanzi e di dietro e non ci rimaneva altro scampo che di farci prendere o di rifugiarci in Delhi.
D’altronde Suyodhana non credeva che la città si trovasse cosí presto in condizioni tanto disastrose.
– Dove si trova ora? – chiese Sandokan.
– In una casa della via Sciandni Sciowk, presso il municipio.
– Il numero?
– Il 24.
– Perché questa domanda? – chiese Tremal-Naik – se Sirdar ci condurrà colà?
– Lo saprai subito.
La Tigre della Malesia si volse verso i malesi della scorta che assistevano al colloquio.
– Qualunque cosa accada – disse loro – non lascerete questa casa se non giungerà il tenente de Lussac.
A quest’ora è probabile che sappia che noi abbiamo trovata ospitalità in questo bengalow. Se noi non saremo tornati dopo l’assalto che gli inglesi daranno probabilmente domani ed egli si presentasse, ditegli che lo aspettiamo nella casa n. 8 della via di Sciandni Sciowk. Badate che da ciò può dipendere la salvezza vostra ed anche la nostra. Ed ora, Sirdar, conducici da Suyodhana. Credi che lo troveremo solo?
– I capi dei Thugs combattono sui bastioni.
– Partiamo: la piccola Darma è con lui?
– Un’ora fa vi era ancora.
– Puoi introdurci senza che se ne accorga?
– Ho la chiave della palazzina.
– Vi sono abitanti?
– Nessuno, perché il proprietario ha sgombrato.
– Yanez, Tremal-Naik, andiamo senza perdere tempo. È già mezzanotte e temo che domani gli inglesi tentino un assalto generale.
Non abbiamo tempo da perdere. Si passò nella fascia il lungo pugnale, si gettò sulle spalle la carabina e uscí, dopo aver fatto cenno ai malesi della scorta di coricarsi.
Sui bastioni rombavano sempre le artiglierie degli insorti e qualche bomba, scagliata dai mortai inglesi, solcava il cielo cadendo al di là delle cinte.
I prodi difensori della città tentavano con un ultimo sforzo di rompere le linee degli assedianti, già giunti quasi sotto le mura.
La notte era oscurissima ed un vento caldissimo e snervante soffiava dagli altipiani del settentrione.
Il piccolo drappello, tenendosi rasente alle case per non venire colpito dalle granate, s’avanzava rapidamente attraverso le vie della città diventate quasi deserte.
In tutte le abitazioni però ardevano dei lumi. I disgraziati abitanti nascondevano precipitosamente le loro ricchezze, per sottrarle all’imminente saccheggio e si barricavano per opporre la piú lunga resistenza.
Di quando in quando dei drappelli di combattenti passavano a gran corsa per le vie, trascinando qualche pezzo di cannone o qualche falconetto che andavano a piazzare sui punti piú deboli e piú esposti.
Ed i cannoni tuonavano sempre cupamente nella tenebrosa pianura che si estendeva dinanzi alla città, annunciando una strage orrenda e la distruzione dell’effimero impero dei Mongoli.
Erano quasi le quattro del mattino, quando Sirdar si arrestò dinanzi ad una elegante palazzina, col tetto acuminato come quello dei bengalow, a due piani, dall’architettura indo-musulmana.
Tutte le finestre erano oscure, eccettuata una sola.
– È là che dorme Suyodhana, – disse, rivolgendosi verso Sandokan. – Ed è pur là che si trova la piccina.
– Come potremo entrarvi senza che se ne accorga? Credi che sia sveglio?
– Ho veduto un’ombra a delinearsi dietro i vetri e suppongo che sia lui, – rispose il bramino. – La veranda è sostenuta da pali e non ci sarà difficile scalarla, quantunque io possegga, come vi ho detto, la chiave.
– Preferisco la scalata, – rispose Sandokan.
Fece cenno a Yanez ed a Tremal-Naik d’accostarsi, quindi disse:
– Qualunque cosa accada, voi rimarrete semplici spettatori. O la Tigre dell’India ucciderà la Tigre della Malesia o questa quella. Non temete: non sarò io che cadrò nella lotta.
In alto, Sirdar!
– Guardati, Sandokan, – disse Tremal-Naik. – So quanto è terribile quell’uomo. Lascia affrontarlo a me quantunque sappia che tu sei cento volte piú valoroso e piú destro di me.
– Tu hai una figlia, io non ho nessuno, – rispose Sandokan, – e dietro di me vi è Yanez. Egli mi vendicherà.
Sirdar s’era già aggrappato ad una delle colonne di ferro che sostenevano la verandah e saliva silenziosamente, inoltrandosi sotto le stuoie di coccottiero che coprivano la balaustrata.
Sandokan ed i suoi due compagni lo imitarono, e mezzo minuto dopo i quattro audaci si trovavano riuniti.
Stavano per entrare in una delle stanze, quando Tremal-Naik urlò contro un vaso, rovesciandolo.
– Maledizione! – mormorò il bengalese.
Un’ombra era improvvisamente comparsa dietro i vetri. Si fermò un momento, guardando sulla terrazza, poi aprí la porta.
Quasi subito un uomo gli piombò addosso, afferrandolo strettamente pei polsi e facendogli cadere, con una stretta terribile, la pistola che impugnava. Era Sandokan che assaliva la Tigre dell’India.
Con una spinta irresistibile, cacciò Suyodhana entro la stanza che era illuminata da una lampada, dicendogli freddamente:
– Se mandi un grido, sei morto!
Il capo dei Thugs era rimasto cosí sorpreso da quell’improvviso attacco, che non aveva nemmeno pensato ad opporre resistenza.
Quando però vide comparire dietro a Sandokan, Tremal-Naik, e poi Sirdar, un urlo di furore gli sfuggí dalle labbra.
– Il padre della piccola «Vergine della pagoda»! – esclamò, digrignando i denti. – Che cosa vuoi tu?… Come ti trovi qui?
– Vengo a riprendermi mia figlia, miserabile! – urlò Tremal-Naik. – Dov’è?
Il terribile capo degli strangolatori era rimasto silenzioso.
Colle braccia strette sul petto, lo sguardo cupo, i lineamenti sconvolti, guardava i suoi nemici, fissando soprattutto Sirdar.
Era un avversario degno della Tigre della Malesia: alto, tutto muscoli e nervi, con larghe spalle, il volto fiero, reso maggiormente duro da una lunga barba già brizzolata, gli occhi nerissimi che parevano iniettati di sangue.
Stette alcuni secondi immobile, dardeggiando sui suoi avversari uno sguardo feroce, poi disse con voce dura:
– Siete voi, è vero, coloro che mi hanno dichiarata la guerra?
– Sí, siamo noi che abbiamo anche distrutti ed inondati i sotterranei di Rajmangal ed i loro abitanti, – rispose Sandokan.
– Che cosa vuoi tu e chi sei? – chiese Suyodhana.
– Un uomo che porta un nome che un giorno ha fatto tremare tutti i popoli delle isole della Malesia e che è venuto qui appositamente per distruggere la tua setta infame.
– E tu credi?…
– Che avrò la tua pelle e anche la bambina che hai rapita a Tremal-Naik.
– Ti reputi ben forte: è vero che siete in quattro.
– La Tigre della Malesia affronterà sola la Tigre dell’India, – disse Sandokan.
Un sorriso d’incredulità sfiorò le labbra di Suyodhana.
– Quando ti avrò ucciso, gli altri mi assaliranno, – rispose Suyodhana. – Il «padre delle sacre acque del Gange» saprà difendere contro voi anche colei che ormai incarna sulla terra la possente Kalí.
– Miserabile! – urlò Tremal-Naik, facendo atto di gettarsi su di lui.
Sandokan con gesto imperioso lo trattenne.
Il capo degli strangolatori, rapido come un fulmine, approfittò di quel momento in cui Sandokan si era voltato per raccogliere la pistola che giaceva ancora a terra.
Senza pronunciare una parola la puntò verso la Tigre della Malesia e gliela scaricò addosso a tre passi di distanza, ma fu forse appunto quel breve tratto che gli fece mancare l’avversario e anche la troppa precipitazione.
– Ah! Traditore! – gridò il pirata, gettando la carabina e sguainando il lungo pugnale che portava alla cintola. – Potrei assassinarti: preferisco combatterti.
Suyodhana con un balzo da tigre si era gettato dinanzi alla porta che metteva in una stanza nella quale forse si trovava coricata la piccola Darma, gridando:
– Bisognerà passare sul mio corpo!
Anche nella sua destra scintillava una specie di tarwar dalla lama leggermente ricurva e lunga quasi quanto quella di Sandokan.
– Che nessuno interrompa la lotta delle due tigri, – disse il pirata. – A noi due, Suyodhana.
– Prima te e poi Sirdar, – rispose il capo dei Thugs con voce cupa. – Il traditore non sfuggirà alla punizione che l’attende.
Si erano messi entrambi in guardia, raccolti su se stessi come due tigri pronte a scattare, col braccio sinistro ripiegato dinanzi al petto in modo da coprire il cuore ed il pugnale all’altezza del viso.
L’uno doveva valere l’altro, perché entrambi, quantunque non piú giovani, possedevano ancora un’agilità straordinaria ed una forza poco comune.
Un profondo silenzio regnò per alcuni secondi nella stanza.
Yanez, appoggiato ad un enorme vaso di porcellana, fumava flemmaticamente l’eterna sigaretta senza dimostrare la menoma apprensione; Sirdar, rannicchiato in un angolo, stringeva fra le mani un tarwar, pronto a prendere parte alla lotta; Tremal-Naik, visibilmente commosso, tormentava il grilletto della sua carabina risoluto a non lasciarsi sfuggire il thug, quantunque avesse promesso a Sandokan di non intervenire.
I due avversari si guardarono per qualche po’, provocandosi cogli sguardi, poi la Tigre della Malesia vedendo che l’avversario non accennava ad assalire, si slanciò tentando di colpirlo alla gola.
Suyodhana con un salto si sottrasse al contatto, parò il colpo colla punta del pugnale, poi abbassatosi si fece sotto a Sandokan cercando di squarciargli il ventre.
Nel fare però quell’atto scivolò sul pavimento lucidissimo, cadendo su un ginocchio. Prima che avesse potuto rialzarsi e rimettersi in guardia, il pugnale della Tigre della Malesia gli entrava nel petto fino alla guardia, spaccandogli il cuore.
Il thug rimase un momento col corpo ancora diritto, gettando sul suo avversario un ultimo sguardo d’odio, poi s’accasciò, mentre un getto di sangue gli usciva dalle labbra.
La Tigre dell’India era morta! Tremal-Naik e Yanez, vedendola cadere, si erano slanciati nella stanza vicina dove in un ricco lettino, incrostato di madreperla, dormiva fra coperte e lenzuola di seta una bambina dai capelli biondi.
Tremal-Naik con un rapido gesto l’aveva sollevata, stringendola freneticamente fra le braccia.
– Darma! Bambina mia!
– Babbo! – aveva risposto la piccina, fissando sul bengalese i suoi occhioni azzurri.
Nel medesimo istante un rombo formidabile scosse la casa fino alle fondamenta, seguito da un clamore immenso e da un furioso tuonare d’artiglierie e di carabine.
– Gli inglesi! – s’udí a gridare Sandokan, che si era precipitato verso la veranda. – Sono saltati gli ultimi bastioni!
Sí, erano gl’inglesi che, tramutati in ladri ed assassini, avevano fatta irruzione nella città saccheggiando e massacrando la popolazione che fuggiva e che davano un ben triste saggio della civiltà europea.
Fino dal giorno prima avevano prese tutte le misure per un assalto generale, occupando la linea di difesa della trincea d’acqua, la trincea del bastione dei Mori e la porta di Cascemir ed ai primi albori si erano rovesciati sulla città dopo un terribile combattimento sostenuto dinanzi la porta di Cabul, dove gl’insorti spiegarono un coraggio straordinario, uccidendo agl’invasori cinquecento uomini, otto ufficiali e ferendo il generale Nicholson.
Urla spaventevoli s’alzavano da tutte le vie, accompagnate da scariche tremende. Si combatteva disperatamente dappertutto mentre le donne e parte degli abitanti fuggivano in massa verso il ponte di barche per sottrarsi alla strage.
– Fuggiamo anche noi, – disse Sandokan, che vedeva avanzarsi al galoppo alcuni squadroni di cavalleria che sciabolavano senza misericordia i fuggiaschi, uomini, donne e fanciulli travolgendoli sotto le zampe dei cavalli. Se ci sorprendono qui potrebbero passarci a fil di spada, quantunque possediamo la lettera del governatore ed il salva-condotto. Cerchiamo, se è possibile, di riguadagnare il nostro bengalow.
Avvolgi Darma in una coperta, Tremal-Naik, e sgombriamo senza perdere tempo.
Presero le carabine e scesero le scale a precipizio. Dietro la palazzina s’apriva un vasto cortile che confinava con dei giardini.
– Varchiamo la cinta e rifugiamoci fra le piante, – disse Sandokan. – Lasciamo passare la cavalleria.
Stavano per scalarla, quando la porta del cortile fu abbattuta e una frotta di fuggiaschi, per la maggior parte donne e fanciulli, vi si precipitò dentro mandando urla disperate.
– Troppo tardi! – esclamò Sandokan, afferrando la carabina. – Eccoci in un bell’impiccio!
Sette od otto cavalieri, che avevano le sciabole insanguinate fino all’elsa, avevano fatta pure irruzione, urlando ferocemente:
– Ammazza! ammazza!
Sandokan con un salto si era gettato dinanzi ai fuggiaschi che si erano rifugiati, piangendo e gridando, in un angolo ed aveva puntata risolutamente la carabina verso i soldati, che si preparavano a massacrare quegli infelici.
– Fermi, bricconi! – tuonò. – Voi disonorate l’armata inglese! Fermi o vi fuciliamo come cani idrofobi!
Tremal-Naik, affidata la piccola Darma a Sirdar, e Yanez si erano collocati ai suoi fianchi, coi fucili imbracciati.
– Spazzare via quei miserabili! – gridò il sergente che comandava il drappello.
– Bada! – disse Sandokan. – Noi abbiamo un salva-condotto del governatore del Bengala e se non obbedisci ci difenderemo.
– Giú a sciabolate! – comandò invece il sergente.
Già i suoi uomini stavano per lanciare i cavalli, quando un ufficiale seguito da una dozzina di cavalieri, fra i quali se ne vedevano alcuni di colore, entrò nel cortile gridando:
– Fermi tutti!
Era il luogotenente de Lussac che giungeva coi malesi lasciati al bengalow.
Balzò a terra stringendo la mano a Sandokan ed ai suoi amici, poi volgendosi verso il sergente che lo guardava confuso, gli disse: