Kitabı oku: «Le due tigri», sayfa 6
Capitolo X. UNA BATTAGLIA TERRIBILE
Al grido della Tigre della Malesia, i marinai che stavano già per dar fondo alle ancore e calare le vele, avevano interrotte bruscamente le manovre ed erano balzati verso il loro comandante, mandando un solo urlo.
– Alle armi!…
Le terribili tigri di Mompracem, quei formidabili scorridori dei mari della Malesia che un giorno avevano fatto tremare perfino il leopardo inglese, e che avevano distrutta la potenza di James Brooke, il famoso rajah di Sarawak, si risvegliavano.
La sete di sangue e di stragi, da alcuni mesi assopita, li riprendeva tutta d’un colpo.
In meno che non si dica, quei cinquanta uomini si trovarono ai loro posti di combattimento, pronti per l’abbordaggio.
Gli artiglieri dietro le grosse spingarde: gli altri dietro le murate e sul cassero con la carabina in mano, il kriss fra i denti ed i terribili parangs dalla lama larga terminante a doccia a portata di mano.
Tremal-Naik e Yanez avevano raggiunto precipitosamente la Tigre della Malesia, che dalla murata poppiera spiava le mosse delle due grab.
– Si preparano ad assalirci? – chiese il bengalese.
– Ed a prenderci fra due fuochi, – rispose Sandokan.
– I bricconi!… Approfittano del luogo deserto per piombarci addosso. Diamond-Harbour è già lontano e sul fiume non ci sono piú navi. Si vede che hanno fretta di sopprimerci.
– Lasciamoli venire, – disse Yanez, colla sua solita flemma. – Hanno equipaggi numerosi, ma gli indiani non valgono le tigri di Mompracem.
Non te ne offendere, Tremal-Naik.
– Conosco il valore dei miei compatriotti, – rispose il bengalese. – Non può competere con quello dei malesi.
– Sandokan, che cosa aspettiamo?
– Che le grab aprano per le prime il fuoco, – rispose la Tigre della Malesia. – Se fossimo in mare, attaccherei senz’altro, ma qui nel fiume, su acque inglesi non oso. Potremmo avere piú tardi dei fastidi da parte delle autorità e venire trattati come pirati.
– I Thugs approfitteranno per prendere posizione.
– La Marianna manovra meglio d’una baleniera e al momento opportuno sapremo sfuggire al doppio fuoco. Lasciamole venire: noi siamo pronti a riceverle.
– E anche a calarle a picco, – aggiunse Yanez.
– Hanno dei cannoni, – disse il bengalese.
– Dei miriam che non avranno molta portata e i cui proiettili non faranno gran danno al nostro scafo, – rispose Sandokan.
– Noi conosciamo quelle artiglierie, è vero Yanez?
– Semplici ninnoli, – rispose il portoghese. – Ah! ah! Vedi una come si avanza? Mirano a prenderci in mezzo.
– Fa’ gettare un ancorotto a prora, – disse Sandokan. – Niente catena, un semplice cavo che troncheremo con un colpo solo. Cerchiamo di ingannare quei bricconi.
Le due grab avevano già imboccato il canale e si avanzavano lentamente, con parte delle vele ammainate sotto le coffe.
L’una radeva la spiaggia dell’isolotto; l’altra invece si teneva verso la terra ferma. Da quella manovra si poteva facilmente capire che miravano a prendere fra due fuochi il praho, il quale si teneva in quel momento in mezzo al canale.
Una certa agitazione regnava sulle tolde delle due navi. Si vedevano i marinai affaccendarsi a prora ed a poppa, come se stessero innalzando delle barricate per meglio ripararsi dalle scariche delle artiglierie nemiche e altri a trascinare degli oggetti che parevano pesanti, a giudicarlo dal numero degli uomini che vi erano intorno.
Sandokan, tranquillo come se la cosa non lo riguardasse, seguiva però attentamente le mosse dei due velieri, mentre Yanez ispezionava le spingarde e faceva preparare i grappini d’arrembaggio, onde tutto fosse pronto per abbordare le avversarie, nel caso ve ne fosse stato bisogno.
Le tenebre erano appena calate e la luna cominciava ad apparire sulle cime dei grandi alberi che coprivano la riva, quando le due grab, con una bordata, giunsero a trecento passi dal praho, prendendolo in mezzo.
Quasi subito dalla nave piú prossima si udí una voce a gridare, in lingua inglese:
– Arrendetevi o vi coliamo a fondo.
Sandokan aveva già in mano il porta-voce. Lo imboccò rapidamente gridando:
– Chi siete per farci una simile intimazione?
– Navi del governo del Bengala, – rispose la voce di prima.
– Allora favorite mostrarci le vostre carte, – rispose Sandokan ironicamente.
– Vi rifiutate d’obbedire?
– Almeno per ora, sí.
– Mi obbligherete a comandare il fuoco.
– Fate pure, se cosí vi piace.
Quella risposta fu seguita da urla terribili che s’alzarono sulle tolde delle due navi.
– Kalí!… Kalí!…
Sandokan aveva gettato il porta-voce per sguainare la scimitarra.
– Andiamo, tigri di Mompracem! – gridò. – Tagliate la fune e abbordiamo!
All’urlo dei Thugs, l’equipaggio della Marianna aveva risposto col suo grido di guerra, piú selvaggio e piú terribile di quello degli indiani.
Il canapo dell’ancorotto era stato tagliato d’un colpo solo ed il praho si era rimesso al vento, muovendo risolutamente contro la grab che si trovava a ridosso dell’isoletta.
Ad un tratto, un colpo di cannone rimbombò, ripercuotendosi lungamente sotto le foreste che ingombravano la spiaggia opposta.
La grab aveva aperto il fuoco col suo piccolo pezzo di prora, credendo i suoi artiglieri di sfondare facilmente i fianchi del praho, ma le piastre metalliche che ricoprivano lo scafo, erano una difesa sufficiente contro quelle piccole palle.
– A voi, tigrotti! – gridò Sandokan, che si era messo alla ribolla del timone, per guidare col proprio pugno il piccolo veliero.
Una scarica di carabine aveva tenuto dietro a quel comando. I pirati che fino allora si erano tenuti nascosti dietro le murate, erano balzati in piedi, aprendo il fuoco violentissimo sulla tolda della grab, mentre gli artiglieri facevano girare rapidamente sui perni le lunghe e grosse spingarde, per prenderla d’infilata da prora a poppa.
Il combattimento era cominciato, con grande slancio, da ambe le parti e di uomini ne erano già caduti sulla grab e sulla Marianna, molti di piú su quella però che su questa.
I pirati, gente abituata alla guerra, non sparavano che a colpo sicuro, mentre i Thugs facevano fuoco all’impazzata.
Sandokan, impassibile fra quel grandinare di palle, che percuotevano i fianchi della sua piccola, ma bensí robustissima nave, che foravano le vele e maltrattavano le manovre, incitava senza posa i suoi uomini.
– Sotto, tigri di Mompracem! Mostriamo anche a questi uomini come combattono i figli della selvaggia Malesia!
Non vi era bisogno d’incoraggiare quei temuti predatori dei mari, incanutiti fra il fumo delle artiglierie e agguerriti da cento e cento abbordaggi.
Balzavano come tigri, salendo sulle murate e inerpicandosi sulle griselle per meglio mirare i nemici, senza inquietarsi del fuoco della grab, mentre i loro artiglieri, sotto il comando di Yanez, fracassavano con tiri aggiustati l’alberatura ed il fasciame della veliera bengalese.
La lotta però si era appena impegnata, quando giunse dietro alla Marianna la seconda grab, scaricandole addosso i suoi quattro miriam.
– Orza alla banda! – aveva gridato Yanez.
Sandokan con un colpo di barra tentò di virare sul posto, mentre Tremal-Naik e Kammamuri si slanciavano a babordo con un pugno di moschettieri, per tener testa alla nuova avversaria.
La Marianna con una fulminea manovra si gettò fuor di linea, sfuggendo al fuoco incrociato delle due navi, poi messasi di traverso fece fronte alle due grab tempestandole colle carabine e colle spingarde.
La piccola nave si difendeva meravigliosamente e aveva ferro e piombo per tutte e due.
Yanez, che maneggiava una delle spingarde, con un colpo ben aggiustato, aveva già fracassato l’albero di trinchetto della prima grab, facendolo rovinare in coperta, poi aveva scagliato sugli uomini che tentavano di spingerlo in acqua e di tagliare i paterazzi e le sartie, una bordata di mitraglia che aveva causata una vera strage fra i Thugs.
Tuttavia la situazione della Marianna era tutt’altro che rosea, poiché le due navi bengalesi, quantunque fossero assai maltrattate, la stringevano da presso per abbordarla d’ambo le parti.
Forti del loro numero, i Thugs speravano di espugnarla facilmente, una volta messi i piedi sulla tolda.
Sandokan tentava, con manovre ammirabili, di sfuggire alla stretta. Disgraziatamente il canale era poco largo ed il vento troppo debole per tentare delle bordate. Tremal-Naik lo aveva raggiunto per consigliarsi sul da fare.
Il coraggioso bengalese aveva compiuto miracoli, infliggendo alla seconda grab perdite considerevoli, e non era riuscito ad arrestarne la marcia.
– Ci piombano addosso e fra poco avremo l’abbordaggio, – aveva detto a Sandokan, ricaricando la carabina.
– Saremo pronti a riceverli, – aveva risposto la Tigre della Malesia.
– Sono quattro volte piú numerosi di noi.
– Vedrai i miei uomini come si batteranno. Sambigliong! A me!
Il malese che faceva fuoco dall’alto della grisella di babordo, d’un balzo fu sul cassero.
– A te la ribolla, – gli disse Sandokan.
– Quale delle due, padrone?
– Abbordiamo noi prima di loro. Quella di babordo.
Poi si slanciò attraverso la tolda, gridando con voce tuonante:
– Pronti per l’arrembaggio! A me, tigrotti di Mompracem!
Sambigliong, che aveva sotto di sé cinque uomini per la manovra della vela poppiera fece allentare la scotta per raccogliere maggior vento, poi avventò il praho contro la grab che fronteggiava l’isolotto e che era stata la piú maltrattata, mentre Yanez dirigeva il fuoco di tutte le spingarde contro l’altra per cercar di trattenerla.
– Fuori i parabordi! – aveva gridato Sandokan. – Pronti pel lancio dei grappini.
Mentre alcuni uomini lanciavano sopra i bordi delle grosse palle di canape intrecciato per attenuare l’urto e altri raccoglievano i grappini disposti lungo le murate per gettarli fra le manovre della nave nemica, Sambigliong abbordò la grab a babordo, cacciando il bompresso fra le sartie e le griselle dell’albero maestro.
I Thugs che la montavano, sorpresi da quell’audace attacco, mentre avevano sperato di essere essi gli abbordatori, non avevano nemmeno pensato a sfuggire l’urto, manovra d’altronde non facile a eseguirsi con un solo albero e colle manovre gravemente danneggiate.
Quando tentarono di sottrarsi al contatto, era troppo tardi.
Le tigri di Mompracem, agili come scimmie, piombavano da tutte le parti, slanciandosi dalle griselle, dai paterazzi, perfino dai pennoni e balzando sul bompresso. Sandokan e Tremal-Naik, con la scimitarra nella destra e la pistola nella sinistra, si erano slanciati pei primi sulla tolda della grab, mentre Yanez scaricava bordate addosso all’altra per impedirle di accorrere in aiuto della compagna.
L’invasione dei tigrotti era stata cosí fulminea, che s’impadronirono del cassero quasi senza far uso delle armi.
I Thugs, quantunque assai piú numerosi, si erano dispersi per la tolda senza opporre resistenza, ma alle grida dei loro capi, volsero ben presto la fronte e dopo essersi radunati dietro il troncone dell’albero di trinchetto, caricarono a loro volta coi tarwar in pugno, urlando come belve feroci.
Avevano rinunciato ai loro lacci, che non potevano essere di nessuna utilità in un combattimento corpo a corpo.
L’urto fu terribile, ma i pesanti parangs delle tigri di Mompracem non tardarono ad avere il sopravvento sulle piccole e leggere scimitarre dei bengalesi.
Respinti dappertutto, stavano per gettarsi in acqua e salvarsi sull’isolotto, quando sul ponte della Marianna echeggiarono le grida di:
– Al fuoco! Al fuoco!
Sandokan, con un comando breve ed istintivo aveva arrestato lo slancio dei suoi uomini.
– Alla Marianna!
Balzò sulla murata della grab e si slanciò con un salto da tigre, sulla tolda del praho, mentre Tremal-Naik con un pugno d’uomini copriva la ritirata e respingeva vittoriosamente un contrattacco dei settari della sanguinaria dea.
Un denso fumo sfuggiva dal boccaporto maestro della Marianna, avvolgendo le vele e l’alberatura.
Qualche pezzo di miccia o qualche lembo di tela, o un pezzo di corda incendiata dai tiri delle spingarde doveva essere caduta nella stiva ed aveva dato fuoco al deposito degli attrezzi di ricambio.
Sandokan, senza preoccuparsi dei tiri incessanti della seconda grab, aveva fatto preparare la pompa, poi aveva gridato a Sambigliong che non aveva abbandonata la ribolla del timone:
– Al largo! Fila verso l’uscita del canale! Tutti a bordo.
Tremal-Naik e Kammamuri, assieme a coloro che avevano coperta la ritirata, balzavano in quel momento in coperta.
I grappini d’abbordaggio furono tagliati, le vele orientate e la Marianna si staccò dalla grab passando dinanzi la prora della seconda.
La ritirata ormai s’imponeva, non potendo le Tigri di Mompracem far piú fronte alle due navi avversarie col fuoco che avvampava a bordo e che poteva comunicarsi alle polveri della Santa Barbara.
Essendo stata la Marianna ben poco danneggiata nelle manovre dai miriam indiani pessimamente diretti da cattivissimi artiglieri, poteva allontanarsi senza temere di venire raggiunta, tanto piú che la grab abbordata, priva del suo trinchetto, non poteva quasi piú virare di bordo e mettersi in caccia.
Con un solo colpo d’occhio Sandokan si era reso conto della situazione e aveva lanciato a Sambigliong il comando:
– Su Diamond-Harbour!
Egli pensava e con ragione che là almeno avrebbe potuto avere dei soccorsi dai piloti della stazione, in caso di estremo pericolo e che i Thugs si sarebbero ben guardati dall’inseguirlo fino a quella stazione.
Il comandante della seconda grab, come se avesse indovinato il pensiero di Sandokan, aveva fatto spiegare rapidamente tutte le vele per mettersi in caccia e dargli nuovamente battaglia, prima che la Marianna potesse uscire dal canale. Doveva aver capito che la preda stava per sfuggirgli.
Il fuoco dei miriam, per un momento sospeso per non colpire l’altra nave che si trovava sulla linea di tiro, fu ben presto ripreso dai Thugs, fra clamori assordanti e colpi di carabina.
Sandokan vedendo tanta ostinazione da parte di quel nemico che aveva già quasi vinto, aveva mandato un urlo di furore.
– Ah! – gridò. – Mi dai ancora la caccia? Aspetta un momento. Tremal-Naik!
Il bengalese si affaccendava a organizzare una catena di mastelli senza troppo preoccuparsi delle palle che grandinavano sempre in coperta.
Alla chiamata della Tigre della Malesia era accorso.
– Che cosa vuoi?
– Tu e Kammamuri occupatevi dell’incendio. Conduci sul ponte Surama e la vedova che sono rinchiuse nel quadro. Ti lascio venti uomini. A me gli altri.
Poi si slanciò verso poppa dove Yanez aveva fatto portare anche le spingarde di prora per contrabbattere poderosamente i miriam bengalesi.
– Fammi largo, Yanez, – gli disse. – Smontiamo quella carcassa.
– Non sarà cosa né lunga, né difficile, – rispose il portoghese colla sua solita calma. – Ecco qui una batteria che scalderà i dorsi dei Thugs. Palle e chiodi insieme! Tatueremo i Thugs col ferro.
– A te le due spingarde di babordo; a me quelle di tribordo, – disse Sandokan. – Voialtri coprite la batteria col fuoco delle vostre carabine.
Si chinò su una delle sue due spingarde e mirò attentamente il ponte della grab, la quale continuava ad avanzarsi come se avesse intenzione di tentare l’abbordaggio della Marianna.
Due colpi rimbombarono sul cassero. Il portoghese e la Tigre della Malesia avevano fatto fuoco simultaneamente.
L’albero di trinchetto della nave indiana, colpito un po’ sotto la coffa, oscillò un momento, poi cadde con gran fracasso attraverso la murata di babordo che si frantumò sotto l’urto, ingombrando la coperta di aste e di cordami e coprendo i due pezzi del castello di prora.
– A mitraglia! – gridò Sandokan. – Spazziamo la tolda!
Due altri colpi avevano tenuto dietro ai primi. Urla terribili, urla di dolore e non piú di vittoria, si erano alzate fra i thugs.
I chiodi facevano buon effetto sui corpi degli strangolatori.
Il fuoco era stato sospeso sulla grab, ma non già a bordo della Marianna.
Sandokan e Yanez, che erano due artiglieri meravigliosi, sparavano senza tregua, ora mirando lo scafo ed ora mandando una vera tempesta di chiodi sulla tolda che infilavano da prora a poppa. Alternavano palle a mitraglia e con tale rapidità da impedire all’equipaggio avversario di liberarsi dell’albero che immobilizzava la loro nave.
Cadevano le murate, precipitavano le manovre e i madieri s’aprivano. L’albero maestro, cinque minuti dopo, schiantato quasi a livello della tolda, seguiva il trinchetto, rovinando pure a babordo e sbandando la nave in modo da esporre completamente il ponte ai tiri dei pirati.
La distruzione della grab cominciava.
Ormai non era piú che un pontone senz’alberi e senza vele, ingombro di rottami e di morti, tuttavia la Marianna non rallentava il fuoco, anzi! E le palle e gli uragani di mitraglia si succedevano, mentre le carabine dei tigrotti distruggevano l’equipaggio, che invano cercava un rifugio dietro le murate e dietro i tronconi degli alberi.
L’altra grab invano faceva sforzi prodigiosi per accorrere in aiuto della compagna. Priva del suo trinchetto, non s’avanzava che assai lentamente e le sue cannonate rimanevano senza effetto, giungendo i suoi proiettili di rado a destinazione.
– Orsú, – disse Sandokan. – Un’altra bordata, Yanez e avremo finito. Tira, ed a fior d’acqua a palla.
I quattro colpi si successero a brevissima distanza l’uno dall’altro aprendo quattro nuovi fori nella carena.
Furono i colpi di grazia.
La povera grab, che pareva si mantenesse ancora a galla per un miracolo d’equilibrio, si piegò bruscamente sul babordo, dove gli alberi pesavano e dove l’acqua del fiume già irrompeva attraverso gli squarci, poi si rovesciò colla chiglia in aria.
Degli uomini si erano slanciati in acqua e nuotavano disperatamente. Alcuni si dirigevano verso l’isolotto e altri verso la seconda grab, che pareva fosse immobilizzata su qualche bassofondo, perché non s’avanzava piú.
– Spazziamoli? – chiese Yanez.
– Lascia che vadano a farsi appiccare altrove, – rispose Sandokan. – Credo che ne abbiano abbastanza. Sambigliong, risali sempre il canale!
Poi si slanciò verso il boccaporto maestro dove parte dell’equipaggio lavorava con accanimento fra il fumo che continuava a irrompere, rovesciando mastelli d’acqua.
– E dunque? – chiese con una certa ansietà.
– Ormai non vi è piú alcun pericolo, – disse Tremal-Naik, che lo aveva scorto e che aveva udita la domanda.
– Siamo padroni dell’incendio e i nostri uomini, che sono già nella stiva, stanno sgombrando il deposito delle vele e degli attrezzi di ricambio.
– Avevo tremato per la mia Marianna.
– Dove andiamo ora?
– Riguadagneremo il fiume e scenderemo al di là dell’isolotto. È meglio non mostrarci piú a Diamond-Harbour.
– I piloti devono aver udito le cannonate.
– Se non sono sordi.
– Che suonata pei Thugs!
– Per un po’ non ci daranno piú noia.
– E l’altra grab?
– Vedo che non si muove piú. Credo che si sia arenata, e poi è cosí malconcia che non potrà piú seguirci in mare, – rispose Sandokan. – Potremo cosí sbarcare senza essere disturbati e mandare il praho a Raimatla senza avere delle spie alle spalle.
Ce la siamo cavata a buon mercato: l’affare non e’ stato troppo cattivo.
Sbarcando piú al sud, potremo raggiungere egualmente Khari?
– Sí, attraverso la jungla.
– Dieci o dodici miglia attraverso i bambú non ci fanno paura, anche se vi saranno delle tigri. Sambigliong! Risali sempre e vira di bordo all’estremità dell’isolotto. Ritorniamo nell’Hugly.
Capitolo XI. NELLE JUNGLE
La Marianna, quantunque due volte piú piccola delle grab e con un equipaggio di molto inferiore, ma assai piú agguerrito dei bengalesi, se l’era cavata veramente a buon mercato, come aveva detto la Tigre della Malesia.
Nonostante il furioso cannoneggiamento dei miriam, aveva subito dei danni facilmente riparabili, senza costringerla a recarsi in qualche cantiere di raddobbo.
Tutto si riduceva a poche corde spezzate, a pochi buchi nella velatura e a un pennone smussato.
Il blindaggio dello scafo, quantunque di poco spessore, era stato sufficiente ad arrestare le palle d’una libbra dei piccoli cannoni d’ottone e di rame.
Sette uomini però erano rimasti uccisi dal fuoco delle carabine, e altri dieci erano stati portati nell’infermeria piú o meno feriti. Perdite piccole in paragone a quelle subíte dagli equipaggi delle grab, che le spingarde, abilmente manovrate da Yanez e dai suoi uomini, avevano piú che decimato.
La vittoria d’altronde era stata completa. Una delle due navi, dopo essersi capovolta, erasi affondata: l’altra invece era stata ridotta in tale stato da non poter piú tentare l’inseguimento e per di piú si era arenata.
I crudeli settari della sanguinosa divinità non potevano certo essere soddisfatti dell’esito della loro prima battaglia data alle terribili tigri di Mompracem, che credevano di schiacciare cosí facilmente prima che uscissero dalll’Hugly.
La Marianna, guidata da Sambigliong, un timoniere che aveva ben pochi rivali, con poche bordate raggiunse l’estremità settentrionale dell’isolotto e rientrò nel fiume, nel momento in cui la seconda grab scompariva sotto le acque del canale.
L’incendio era stato ormai completamente spento da Tremal-Naik e dai suoi uomini, e piú nessun pericolo minacciava il praho, il quale poteva scendere tranquillamente il fiume senza temere di venire inseguito.
Sospettando però che i Thugs si fossero rifugiati sull’isolotto e che li aspettassero al varco per salutarli con qualche scarica di carabine, Sandokan fece spingere la Marianna verso la riva opposta.
Essendo l’Hugly in quel luogo largo oltre due chilometri, non vi era pericolo che le palle dei settari potessero giungere fino al veliero.
– Dove prenderemo terra? – chiese Yanez a Sandokan che stava osservando le rive.
– Scendiamo il fiume per qualche dozzina di miglia, – rispose la Tigre della Malesia. – Non voglio che i Thugs ci vedano a sbarcare.
– È lontano il villaggio?
– Pochi chilometri, mi ha detto Tremal-Naik. Saremo però costretti ad attraversare la jungla.
– Non sarà cosí difficile come le nostre foreste vergini del Borneo.
– Le tigri abbondano fra quei canneti giganteschi.
– Bah! Le conosciamo da lunga pezza quelle signore. E poi, non ci rechiamo forse nelle Sunderbunds a fare la loro conoscenza?
– È vero, Yanez, – rispose Sandokan, sorridendo.
– Credi tu che i Thugs avessero indovinato i nostri progetti?
– In parte, forse. Probabilmente sospettavano che noi assalissimo il loro rifugio dalla parte del Mangal.
Che tentino la rivincita?.
– È possibile, Yanez, ma giungeranno troppo tardi. Ho dato già a Sambigliong le mie istruzioni onde non si faccia sorprendere entro le Sunderbunds.
Andrà a nascondere il praho nel canale di Raimatla e smonterà l’alberatura, coprendo lo scafo con canne ed erbe, onde i Thugs non s’accorgano della presenza dei nostri uomini.
– E come ci terremo in relazione con loro? Noi possiamo aver bisogno di aiuti.
– S’incaricherà Kammamuri di venirci a trovare fra le jungle delle Sunderbunds.
– Rimarrà con Sambigliong?
– Sí, almeno fino a quando il praho avrà raggiunto Raimatla. Egli conosce quei luoghi e saprà trovare un ottimo nascondiglio per il nostro legno.
I Thugs hanno dato prova di essere molto furbi, e noi lo saremo di piú. Spero un giorno di poterli affogare tutti entro i loro sotterranei.
– Raccomanda a Sambigliong di non lasciarsi sfuggire il manti. Se quell’uomo riesce a evadere, non potremo piú sorprenderli.
– Non temere, Yanez, – disse Sandokan. – Un uomo veglierà giorno e notte dinanzi alla sua cabina.
– Prendiamo terra? – chiese in quel momento una voce dietro di loro. – Abbiamo già oltrepassata l’isola e non ci conviene allontanarci troppo dalla via che conduce a Khari. La jungla è pericolosa.
Era Tremal-Naik, il quale aveva già dato ordine a Sambigliong di dirigersi verso la riva opposta.
– Siamo pronti, – rispose Sandokan. – Fa’ preparare una scialuppa e andiamo ad accamparci a terra.
– Abbiamo un ottimo rifugio per passare la notte, – disse Tremal-Naik. – Siamo di fronte a una delle torri dei naufraghi.
Ci staremo benissimo là dentro.
– Quanti uomini condurremo con noi? – chiese Yanez.
– Basteranno i sei che sono già stati scelti, – rispose Sandokan. – Un numero maggiore potrebbe far nascere dei sospetti nei Thugs di Rajmangal!
– E Surama?
– Ci seguirà: quella fanciulla può renderci preziosi servigi.
La Marianna si era messa in panna a duecento passi dalla riva, mentre la baleniera era stata già calata in acqua.
Sandokan diede a Kammamuri e a Sambigliong le sue ultime istruzioni, raccomandando loro la massima prudenza, poi scese nella scialuppa dove già si trovavano i sei uomini scelti per accompagnarli, Surama e la vedova del thug, che contavano di lasciare nella possessione di Tremal-Naik.
In due minuti attraversarono il fiume e presero terra sul margine delle immense jungle, a pochi passi dalla torre di rifugio, che s’alzava solitaria fra le canne spinose e i folti cespugli che coprivano la riva.
Prese le carabine e alcuni viveri, rimandarono la scialuppa, dirigendosi poscia verso il rifugio la cui scala mobile era appoggiata contro la parete.
Era una torre simile a quelle che già Sandokan e Yanez avevano osservate presso l’imboccatura del fiume, costruita in legno, alta una mezza dozzina di metri, con quattro iscrizioni in lingua inglese, indiana, francese e tedesca, dipinte in nero a grosse lettere, e che avvertivano i naufraghi di non fare spreco dei viveri contenuti nel piano superiore e di attendervi il battello incaricato del rifornimento.
Sandokan appoggiò la scala alla finestra e salí pel primo, seguíto subito da Surama e dalla vedova.
Non vi era che una stanza, appena capace di contenere una dozzina di persone, con alcune amache sospese alle travate, un rozzo cassettone, contenente una certa quantità di biscotto e di carne salata ed alcuni vasi di terracotta.
Non dovevano certo farla molto grassa i naufraghi, che la mala sorte gettava su quelle rive pericolose e disabitate, tuttavia non potevano correre, almeno per un certo tempo, il pericolo di morire di fame.
Quando tutti furono entrati, Tremal-Naik fece ritirare la scala, onde le tigri, che potevano aggirarsi nei dintorni, non ne approfittassero per inerpicarsi fino al rifugio.
Le due donne e i capi presero posto nelle amache; i sei malesi si stesero a terra mettendosi a fianco le armi, quantunque nessun pericolo potesse minacciarli.
La notte passò tranquilla non essendo stata turbata che dall’urlo lamentevole di qualche sciacallo affamato.
Quando si risvegliarono, la Marianna non era piú in vista. A quell’ora doveva aver già raggiunta la foce dell’Hugly e costeggiare già le Teste di Sabbia che si protendono dinanzi ai melmosi terreni delle Sunderbunds e che servono d’argine alle grosse ondate del golfo del Bengala.
Una sola barca, munita d’una tettoia, risaliva il fiume radendo la riva, spinta da quattro remiganti semi-nudi.
Sulla jungla invece nessun essere umano appariva. Volteggiavano invece un gran numero d’uccelli acquatici, specialmente d’anitre bramine e di martini pescatori.
– Siamo in pieno deserto, – disse Sandokan che dall’alto della torre guardava ora il fiume ed ora l’immensa distesa di bambú, sui quali giganteggiava superbamente qualche raro tara e qualche colossale nim dal tronco enorme.
– E questo non è che il principio del delta del Gange, – rispose Tremal-Naik. – Piú innanzi vedrai ben altre cose e ti farai un concetto piú esatto di questo immenso pantano che si estende fra i due rami principali del sacro fiume.
– Non comprendo come i Thugs abbiano scelto un cosí brutto paese pel loro soggiorno. Qui le febbri devono regnare tutto l’anno.
– E anche il cholera, il quale fa di frequente dei grandi vuoti fra i molanghi. Ma qui si sentono piú sicuri che altrove; poiché nessuno oserebbe tentare una spedizione attraverso questi pantani che esalano miasmi mortali.
– Che a noi non fanno né freddo, né caldo, – rispose Sandokan. – Le febbri non ci fanno piú paura: ci siamo abituati.
– E con chi se la prendono i Thugs di Suyodhana, se queste terre sono quasi spopolate? Kalí non deve avere troppe vittime di olocausto.
– Qualche molango che viene sorpreso lontano dal suo villaggio, paga per gli altri. E poi se non si strangola molto nelle Sunderbunds, non credere che a Kalí manchino vittime: i Thugs hanno emissari in quasi tutte le province settentrionali dell’India. Dove vi è un pellegrinaggio, i settari della dea accorrono e un bel numero di persone non tornano piú alle loro case. A Rajmangal io ne ho conosciuto uno che operava appunto sui pellegrini che si recavano alle grandi funzioni religiose di Benares, che aveva strangolato settecento e diciannove persone e quel miserabile, allorché venne arrestato, non manifestò che un solo dispiacere: quello di non aver potuto raggiungere il migliaio()!
– Quello era una belva! – esclamò Yanez, che li aveva raggiunti.
– Le stragi che quei miserabili commettevano ancora alcuni anni or sono, non si possono immaginare.
– Vi basti sapere che alcune regioni dell’India centrale furono quasi spopolate da quei feroci assassini, – disse Tremal-Naik.
– Ma che piacere ci trovano a strozzare tante persone?
– Quale piacere! Bisogna udire un thug per farsene un’idea.
«Voi trovate un grande diletto – disse un giorno uno di quei mostri, da me interrogato – nell’assalire una belva feroce nella sua tana, nel macchinare e ottenere la morte d’una tigre o d’una pantera, senza che in tutto ciò vi siano gravi pericoli da sfidare e coraggio soverchio da spiegare. Pensa adunque quanto questa attrattiva debba aumentare allorché la lotta è impegnata coll’uomo, allorché è un essere umano che bisogna distruggere! In luogo d’una sola facoltà, il coraggio, abbisognano l’astuzia, la prudenza, la diplomazia. Operare con tutte le passioni, far vibrare anche le corde dell’amore e dell’amicizia per indurre la preda nelle reti è una cosa sublime, inebriante, un delirio.»
Ecco la risposta che ho avuto da quel miserabile che aveva già offerta alla sua divinità qualche centinaio di vittime umane… Pei Thugs l’assassinio è eretto a legge, l’uccidere per loro è una gioia suprema e un dovere; l’assistere all’agonia di un uomo da essi colpito è una felicità ineffabile.
– In conclusione l’uccidere una creatura inoffensiva è un’arte, – disse Yanez. – Credo che sia impossibile sognare una piú perfetta apologia del delitto.