Kitabı oku: «Le stragi delle Filipine», sayfa 18
– Vivaddio!… – esclamò lo spagnuolo, che pareva profondamente commosso. – Se io in questo istante fossi il comandante supremo delle forza spagnuole, vi direi: simili uomini non si possono uccidere: siete libero, signore. Non lo sono e, pur col cuore rattristato, farò il mio dovere di soldato. Signor Ruiz, fra cinque minuti la fanciulla sarà libera, ma voi sarete mio prigioniero.
– Fatelo, – disse freddamente il meticcio.
– A chi dovrò affidare quella giovane?…
– Ad un insorto che l’attende fuori del vostro campo.
– Gliela consegnerò io in persona. Attendetemi fuori dalla tenda.
Il colonnello cinse la sciabola, poi uscí e scomparve fra le tende del campo. Romero si era arrestato fuori dalla tenda. Era sempre tranquillo, ma la sua fronte appariva, alla luce sanguigna dei fuochi, umida, come se un freddo sudore la imperlasse.
Trascorsero alcuni minuti, poi vide passare, fra i fuochi dell’accampamento, due cavalieri i quali s’arrestarono alcuni istanti a cento passi dalla tenda, dinanzi ad un grande fuoco come se avessero voluto farsi ben vedere.
Romero provò una scossa al cuore. In quei due cavalieri aveva distinto il colonnello e Than-Kiú, la quale si era avviluppata nel suo mantello di seta bianca.
– Hang-Tu, – mormorò con voce cupa, – Il tuo fratello d’armi ha pagato il suo debito, ma perderà la vita e la donna che ha tanto amato.
Seguí cogli sguardi i due cavalieri che si dirigevano verso gli avamposti, poi chiuse gli occhi come se volesse sfuggire ad un’orribile visione.
Quando li riaprí, il colonnello spagnuolo stava dinanzi a lui.
– La fanciulla è partita, – gli disse, con voce triste.
– Grazie, colonnello, – rispose Romero, con un sospiro. – Ora potete farmi fucilare.
– Io no, don Ruiz. A questo penseranno le autorità militari della capitale.
– Sia, – mormorò Romero. – Morrò sul suolo della Perla di Manilla.
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Capitolo XXX. VIVA LA LIBERTA’!
Venti ore dopo gli avvenimenti narrati, verso le sei pomeridiane, quando la brezza della sera cominciava a far uscire la popolazione dalle case di Manilla, un uomo indossante il costume tagalo, col capo riparato da uno di quegli ampi cappelli di paglia di riso in forma di fungo usati dai chinesi e che gli nascondeva buona parte del viso, si arrestava dinanzi al vecchio palazzo del maggiore d’Alcazar.
Dopo d’aver guardato attentamente le persiane verdi calate dinanzi alle finestre e d’aver sbirciate le due vie che sbucavano ai lati del piccolo piazzale, come se avesse temuto d’esser visto, salí i tre gradini ed entrò risolutamente nel palazzo.
Un domestico tagalo, che sonnecchiava su di una panca di marmo, udendo i passi di quell’uomo, s’alzò stirandosi le braccia e gli chiese fra uno sbadiglio e l’altro che cercava.
– Teresita d’Alcazar, – rispose lo sconosciuto.
– La mia padrona.
– Sí.
– Avete qualche lettera per lei?…
– No, ma devo parlarle di cose molto gravi.
– Da parte di chi?…
– Ciò non ti deve interessare, – disse seccamente quell’uomo, facendo un gesto d’impazienza.
– Non sapendo chi voi siate né chi vi manda, rifiuterà di ricevervi, – disse il domestico.
– Forse hai ragione. Le dirai questo nome: Hang-Tu.
Il tagalo, curioso come tutti quelli della sua razza avrebbe voluto sapere di piú, ma uno sguardo minaccioso del chinese lo costrinse ad andarsene.
Pochi istanti dopo scendeva a precipizio le scale, dicendo:
– La mia padrona vi attende.
– Ti seguo, – rispose il chinese. – Lo sapevo che non mi avrebbe fatto aspettare.
Salí un maestoso scalone di marmo e fu introdotto in un salotto elegantemente ammobiliato e profumato da grandi mazzi di gelsomini e di rose, sorretti da vasi del Giappone e della China di dimensioni gigantesche.
Fra la penombra prodotta dalle persiane e dalle fitte tende che pendevano dinanzi alla finestra, gli occhi di Hang-Tu distinsero subito Teresita, la quale si teneva ritta in mezzo al salotto, vestita di un semplice accappatoio bianco, che le faceva spiccare doppiamente la bruna carnagione e le lunghe trecce della capigliatura corvina.
Vedendolo entrare, la giovanetta, che doveva essere già in preda ad una viva agitazione, gli era mossa rapidamente incontro, dicendogli con voce rotta:
– Voi… qui! Gran Dio!… Cosa è avvenuto… di lui?… Parlate… parlate… vi prego, Hang-Tu…
Il chinese era rimasto muto, ma i suoi occhi, ripieni di tristezza ed i suoi lineamenti alterati, parlavan per lui.
Teresita, vedendolo in quello stato, aveva mandato un grido.
– Voi venite a recarmi una terribile notizia, è vero?… – esclamò la giovanetta, con disperazione. – Io tremo… me lo hanno forse ucciso?…
Uno scroscio di pianto le aveva soffocato la voce. Hang-Tu aveva fatto un passo innanzi come per sorreggerla, ma la giovane spagnuola si era raddrizzata, dicendo:
– Parlate!… Voglio saper tutto!…
– Non è morto, – rispose Hang-Tu, con voce sorda, – ma domani forse non sarà piú vivo.
– Che cosa volete dire, gran Dio?…
– Che il vostro Romero si trova nelle mani dei vostri compatriotti e che se voi non lo salvate, domani all’alba verrà fucilato assieme ai capi dell’insurrezione presi a Noveleta, a Cavite ed a Rosario.
Teresita aveva mandato un grido straziante:
– Me lo uccidono!…
Poi si era slanciata verso la porta gridando:
– Padre mio!… devi salvarlo!…
Il maggiore d’Alcazar, che doveva trovarsi nel suo gabinetto da lavoro, udendo quel grido e quelle parole, era entrato precipitosamente nel salotto credendo forse che Teresita corresse qualche pericolo.
Vedendo Hang-Tu, si era arrestato, come fulminato.
– Mi conoscete, maggiore d’Alcazar? – chiese Hang, facendosi innanzi.
– Voi… – balbettò lo spagnuolo impallidendo.
– Padre mio!… – gridò Teresita, gettandosi fra di loro: – Me lo uccidono!…
– Ma chi?… – chiese il maggiore.
– Romero!…
– E chi lo ucciderà!…
– I vostri soldati, – disse Hang-Tu.
– I miei…
– Soldati, vi ho detto. Romero Ruiz, quello che vi ha strappato alla morte, quello che ama vostra figlia, si trova qui, nelle carceri di Manilla. In mano dei vostri compatriotti.
– Lui!… – esclamò il maggiore, con doloroso stupore. – Ma chi lo ha fatto prigioniero?…
Invece di rispondere, Hang-Tu gli si era avvicinato colle braccia strettamente incrociate sul petto e fissandolo con uno sguardo minaccioso, gli disse con voce amara:
– Ed ora, vediamo la vostra generosità. L’uomo che vi ha strappato alla morte si trova nelle mani dei vostri compatriotti: pagate il vostro debito, maggiore d’Alcazar.
Udendo quelle parole, una rapida commozione aveva alterato il volto dello spagnuolo.
– Romero prigioniero!… – esclamò. – Disgraziato!
– Padre mio!… – gridò Teresita, piangendo. – Tu forse puoi strapparlo alla morte.
Il maggiore d’Alcazar allontanò dolcemente la giovanetta che gli si era aggrappata al collo, poi tendendo una mano verso Hang-Tu, disse con voce solenne:
– Giuro dinanzi a Dio, che io tenterò ogni mezzo per strapparlo alla morte: sperate!…
– Grazie, – disse Hang-Tu il cui volto abbuiato si rischiarava.
– Non ringraziatemi ora, poiché tutto dipende dalle circostanze e fors’anche dal caso. Voi dovrete però raccontarmi tutto e molte altre cose che desideravo sapere da voi.
– Parlate.
Il maggiore si volse verso Teresita:
– Lasciaci soli, figlia mia, – le disse.
– Sí, ma tu lo salverai, è vero padre mio?
– Lo spero.
Poi prese Hang-Tu per una mano e lo condusse nel suo studio chiudendo la porta.
– Ditemi, – disse, facendo cenno al chinese di sedersi. – Romero Ruiz ama mia figlia o quella fanciulla che io ho veduto con lui?… Dalla vostra risposta, forse dipende la sua vita.
– Ama vostra figlia, – rispose Hang-Tu, con un profondo sospiro. – Dicendovi questo, io distruggo il piú bel sogno da me per tanto tempo accarezzato ed infrango l’anima della fanciulla che mi ha strappato dalle labbra la vostra grazia, ma Hang-Tu è leale e non sa mentire.
Poi dopo alcuni istanti di silenzio, gli narrò brevemente chi era Than-Kiú, quanto aveva amato Romero, i disagi affrontati pel valoroso capo dell’insurrezione, l’inutilità di tanti sacrifici e l’ultima pagina del terribile dramma di Malabon.
– Romero ha pagato il suo debito verso l’amico, verso il fratello d’armi e verso Than-Kiú – concluse il chinese con voce estremamente commossa. – Ora spetta a voi pagare il vostro debito verso di lui.
– Lo pagherò e piú di quanto possiate credere, – rispose il maggiore alzandosi. – L’insurrezione ormai sta per finire e Romero non è piú un nemico, ma un vinto sfortunato che tutti gli spagnuoli hanno potuto ammirare e stimare. Sarà un terribile colpo per vostra sorella, Hang-Tu, ma solo concedendo a Romero la mano di Teresita io potrò forse salvarlo poiché, con tale matrimonio, lo strapperei all’insurrezione.
– Than-Kiú si rassegnerà, – disse Hang, con fermezza. – Salvate colui che io ho amato come fosse mio fratello, piú ancora, come fosse un figlio e non vi chiedo di piú.
– Seguitemi. Assieme a me voi nulla avrete da temere. Vi si crederà un mio domestico e nessuno potrebbe sospettare in voi il capo degli uomini gialli.
Si cinse la sciabola, si mise il berretto, poi senza attraversare il salotto fece passare Hang-Tu alcune stanze sontuosamente ammobiliate e discese lo scalone.
Il tagalo che aveva introdotto il chinese, si trovava ancora seduto presso il portone.
– Va’ ad annunziare al governatore la mia visita, – gli disse d’Alcazar. – Io ti seguo.
Le tenebre erano già calate da qualche ora e la popolazione, dopo d’aver respirato un po’ di brezza notturna, cominciava a ritirarsi, sicché le vie erano diventate già quasi deserte. Il maggiore d’Alcazar condusse nondimeno Hang-Tu attraverso le vie meno frequentate, onde non potesse venire riconosciuto, e non fu se non dopo un lungo giro che giunsero dinanzi all’imponente palazzo del vice-re.
Il tagalo già mandato innanzi, li attendeva presso la sentinella.
– Siete aspettato, padrone, – disse al maggiore.
– Voi mi attenderete qui, – disse lo spagnuolo ad Hang-Tu. – Sperate.
Poi entrò rapidamente nel palazzo.
Il chinese s’era seduto, o meglio s’era lasciato cadere su di un sedile di pietra, prendendosi il capo fra le mani. Pareva che meditasse profondamente.
Trascorse un’ora, poi un’altra, ma senza che egli se ne accorgesse, né senza che facesse un gesto. Ad un tratto s’alzò di scatto sentendosi battere su una spalla.
Vedendosi dinanzi il maggiore d’Alcazar, sussultò.
– Ebbene? – gli chiese con voce quasi spenta.
– Ho ottenuto la sua grazia, – rispose lo spagnuolo.
– Ah!…
– Ma ad una condizione.
– Quale?…
– Sarà forse terribile per vostra sorella.
– Parlate.
– Romero sarà salvo, ma questa notte istessa egli partirà da Manilla sotto la mia sorveglianza, e non potrà mai piú porre piede su nessuna isola delle Filippine. A mezzanotte una cannoniera ci attenderà presso il ponte del Passig.
– Potrò io rivederlo prima che parta?… – chiese Hang-Tu con voce rotta.
– Sí e… anche Than-Kiú, se lo vorrà.
– E dove lo condurrete?…
– Lontano dalle colonie spagnuole, in una mia possessione che tengo a Tornate e che costituirà la dote di mia figlia.
– Partite con Teresita?…
– Si, Hang-Tu. Si amano… siano felici.
– Grazie per lui, – rispose il chinese.
Poi aggiunse con uno strano accento:
– Hang-Tu non vedrà tramontare il sole di domani. Qui morranno gli ultimi campioni della libertà!…
Quindi s’allontanò a passi rapidi, per sottrarsi a maggiori spiegazioni.
Camminava come un pazzo, senza sapere dove andasse, in preda ad un dolore che doveva diventare piú acuto, di momento in momento.
Attraversò senza quasi accorgersene il ponte del Passig, scese lungo la riva di Binondo, s’inoltrò nelle strette viuzze del sobborgo del Tondo, poi rifece la via percorsa, arrestandosi dinanzi ad una elegante casetta di puro stile chinese. Aveva veduto una grande ombra salire il fiume ed arrestarsi dinanzi all’ultima arcate del ponte.
Aprí una porta, salí una gradinata ed entrò in una stanzetta illuminata da una lanterna di talco, che spandeva sotto di sé una pallida luce.
Una donna, una giovanetta, stava seduta presso un tavolo di lacca, col viso nascosto fra le mani. Hang-Tu le si avvicinò, le gettò sulle spalle un mantello di seta azzurra a fiorami giallo dorati che stava su di una sedia, poi, prendendola per una mano, le disse con dolcezza:
– Vieni, sorella. Egli è salvo, ma tu l’hai perduto per sempre! La donna bianca ha infranto la mia e la tua vita.
– Ti seguo fratello, – disse il povero Fiore delle Perle, con rassegnazione.
Abbandonarono la casa e si diressero verso il ponte del Passig, dove si vedevano scintillare, fra le tenebre, i fanali di posizione di una cannoniera.
Quando giunsero presso la riva, videro un gruppo formato da tre persone che pareva li attendesse. Erano il maggiore d’Alcazar, Romero e Teresita, la quale aveva il viso mezzo nascosto da una mantiglia di seta bianca.
Romero, staccatosi dal gruppo, si era precipitato verso Hang. I due valorosi si abbracciarono, rimanendo cosí stretti per parecchi istanti. Pareva che la commozione impedisse loro di articolare una sola parola.
Teresita intanto si era avvicinata a Than-Kiú la quale si era arrestata, come se le forze fossero per mancarle. Anche la Perla di Manilla pareva estremamente commossa.
– Grazie fanciulla, – le disse, stringendosela al seno. – La Perla di Manilla non scorderà mai il Fiore delle Perle e spera di rivederla un giorno felice.
Than-Kiú aveva risposto con un sordo singhiozzo.
La cannoniera aveva lanciato allora il fischio della partenza ed i marinai erano scesi sulla gettata, per essere pronti a levare il pontile.
– Addio, fratello, – disse Romero, baciando Hang-Tu. – Io ti aspetto a Tornate presto. Ormai la libertà delle isole da noi tanto vagheggiata è finita e forse per sempre.
– Forse, fratello, – rispose Hang-Tu. – Va’ e sii felice.
– E… Than-Kiú?…
– È rassegnata. Cosí voleva il destino.
Romero si era staccato dal chinese e si era avvicinato alla fanciulla.
– Perdonami, Than-Kiú, – le disse, – se io ho distrutto il piú bel sogno della tua giovinezza.
– Nulla ho da perdonarti, mio signore, – rispose il Fiore delle Perle, con un filo di voce.
Poi prendendolo vivamente per una mano e indicandogli la volta stellare, disse:
– Guarda, mio signore: la mia stella tramonta in mare e quella della donna bianca brilla sopra il tuo capo e piú fulgida che mai e noi… crediamo agli astri. Va’, mio signore e sii felice…
La voce le si era spenta in un singhiozzo. Il maggiore d’Alcazar e Hang-Tu troncarono quella scena dolorosa, traendo Romero sul ponte della cannoniera, dove già si trovava Teresita.
– Addio, – gli disse un’ultima volta il chinese. – Non scordarti del tuo fratello d’armi che ti ha immensamente amato.
Spinse a bordo il pontile e balzò sulla calata, dove si arrestò colle braccia incrociate e gli occhi fissi su Romero, mentre ai suoi piedi Than-Kiú singhiozzava, col viso nascosto fra le mani.
La cannoniera aveva virato di bordo e scendeva rapidamente il fiume, portando lontano quella coppia felice.
Hang-Tu, sempre immobile, guardava la nera massa che spariva nelle tenebre. Quando i fanali scomparvero dietro la lanterna chinò il capo sul petto e si sedette accanto a Than-Kiú mormorando:
– Io ti ho amato tanto, Romero, ma tu non hai amato mia sorella.
Fu l’unico rimprovero sfuggito dalle labbra di quell’uomo dall’animo cosí grande e generoso.
Poi si rinchiuse in un cupo silenzio né piú parlò, ma quando i primi bagliori dell’alba si alzarono in cielo, il viso di Hang-Tu apparve bagnato, come se il fiero uomo avesse lungamente pianto.
Una scarica che echeggiò dalla parte di Binondo lo strappò da quella immobilità, che durava da parecchie ore.
S’alzò con uno scatto selvaggio e cogli occhi in fiamme.
– Than-Kiú, – disse, alzando sua sorella. – Vuoi vivere o morire?
– La vita del Fiore delle Perle è spezzata per sempre, – disse la povera giovane.
– Vieni, adunque!… – Là si fucilano i capi dell’insurrezione ed il sangue dei martiri non va perduto!…
Prese Than-Kiú per una mano e si diresse rapidamente, sulla piazza del sobborgo, già ingombra d’una fitta massa di popolo e di soldati.
Le esecuzioni dei capi insorti caduti prigionieri a Cavite, a Noveleta, a Bynacayan ed a Rosario, erano cominciate.
Hang-Tu afferrò fra le robuste braccia la sorella, s’aprí impetuosamente il passo fra la folla stupita e si slanciò in mezzo al quadrato formato dai soldati, tuonando:
– Io sono Hang-Tu, il capo degli uomini gialli e delle società segrete! Fuoco sul mio petto! Viva la libertà!
In quell’istante un drappello di soldati, vedendo che l’ufficiale che lo comandava, abbassava la sciabola, fece fuoco contro sei capi insorti che il consiglio di guerra aveva condannati alla fucilazione.
Hang-Tu, colpito dalla scarica, era caduto fulminato sui cadaveri dei compagni, seco trascinando, nella caduta, la sorella.
Ma Than-Kiú non era stata colpita mortalmente. La bella testolina del Fiore delle Perle, il cui volto si era fatto livido, s’alzò fra i cadaveri e le sue labbra si schiusero mormorando:
– Romero!…
Poi cadde svenuta sul petto sanguinante del fiero chinese.
CONCLUSIONE
La caduta quasi contemporanea di Cavite Vecchia, di Noveleta, di Malabon e di Rosario, come aveva preveduto il generale Polavieja, aveva dato un colpo mortale all’insurrezione, tale da non poter piú mai riaversi.
Dopo quelle quattro sanguinose battaglie, per gli spagnuoli non fu che una continua vittoria, seguíta da numerose sottomissioni.
Il 10 aprile anche Santa Cruz veniva presa d’assalto, mentre venivano sconfitte le bande insorte di Pamplona e nuovamente quelle di Bulacan.
Alla metà dello stesso mese, in tutte le province meridionali l’insurrezione era domata ed il vittorioso generale tornava in Spagna lasciando l’incarico al vincitore di Salitran e di S. Nicola di continuare la campagna contro le ultima bande, in attesa dell’arrivo del generale Primo Rivera.
Il 25 un tentativo d’insurrezione a Jolo, nel gruppo delle Sulú, fra i deportati, veniva prontamente soffocato colla fucilazione di tutti i capi, mentre nel maggio le truppe spagnuole, sotto la direzione di Primo Rivera e del generale Sucre espugnavano, con venti compagnie, Niaio difeso strenuamente dal capo Aguinaldo, poi Halang, Amadeo e Quintena, facendo prigioniero il capo degli insorti Andrea Bonifacio e finalmente Marangondon.
Nel mese di giugno il generale Jaramillo espugnava Talisay, mentre altre colonne spagnuole facevano prigionieri tremila insorti che avevano abbandonata poco prima la città. Verso la metà del mese venivano iniziate le operazioni militari nel centro di Luzon sconfiggendo le ultime bande insorte. Nel luglio l’insurrezione si poteva ormai considerare completamente vinta, dopo nove mesi di sanguinosi combattimenti e dopo la sottomissione della famiglia di Aguinaldo e di cinquemilasettecento insorti.
FINE