Kitabı oku: «Straordinarie avventure di Testa di Pietra», sayfa 13
15 – I tre incogniti
Il mutismo del nostro eroe, ci affrettiamo a dichiararlo, durò pochi secondi.
«Queste parole…» urlò, «questa voce… Qui, Piccolo Flocco, figlio mio, dammi un grosso pugno perché possa convincermi che non sono in preda ad un sogno!…»
«Che hai, dunque, mastro?» rispose il giovane gabbiere, mentre schiacciava un occhio ad un pellerossa troppo audace, assestandogli abilmente un colpo di calcio con la carabina in quel punto delicato della testa.
«Che ho?… Tu mi chiedi che ho?… Pel borgo di Batz, saresti divenuto sordo per il freddo?»
«Non credo, tanto più che ora mi riscaldo a spese di questi diavoli d’Irochesi.»
«Tieni ben aperti i sabordi, ragazzo.»
«Sono spalancati.»
«E odono?»
«A meraviglia… Ohé, tu, brigante da fiera… ti fa gola forse la mia capigliatura? Ecco in cambio di essa qualcosa che ti caverà per sempre la voglia di averla.»
Le parole erano rivolte a un irochese che tentava d’afferrar il gabbiere e di stordirlo con una botta piatta di tomahawh.
Ad esse tenne dietro un colpo di carabina a due mani come usavano gli antichi guerrieri con gli spadoni.
L’indiano non ebbe il tempo né il modo di ripararlo o di scansarlo e lo ricevette in pieno. S’intesero le ossa della scatola cranica spezzarsi.
Il disgraziato mandò un gemito, batté l’aria con le braccia e, facendo un mezzo giro su se stesso, piombò a terra.
Un grido di rabbia scoppiò. Piccolo Flocco aveva ucciso un sottocapo.
Dal canto loro Jor e Hulrik lavoravano a mazzate meglio che potevano, e, all’infuori di qualche scalfittura, erano sempre sani e saldi in mezzo a quell’inferno, in cui gli uomini parevano trasformati in demoni, e si rincuoravano l’un l’altro con la voce e con l’esempio.
Testa di Pietra pareva aver perduta… la prima parte del suo nome. Tirava botte spaventose a dritta e a sinistra, badando a farsi largo, e urlava:
«Per di qui, mille golette sventrate… per di qui, Piccolo Flocco, Hulrik, ed anche voi, Jor… Seguitemi, andiamogli incontro… È lui, è proprio lui!…»
Gli altri tre, occupati nella lotta feroce, non avevano ancora capito ciò che esaltava tanto il vecchio mastro, e gli obbedivano macchinalmente, quasi per istinto, standogli a fianco.
«Hai detto che è lui?» chiese tra un colpo e l’altro il gabbiere.
«Ma sì, figlio mio.»
«Wolf?… Lo so.»
«Macché Wolf… lui, non capisci?… Ho riconosciuta la sua voce.»
«Ah, ah… tu parli di Riberac che deve essere riuscito a condurci dei soccorsi, dopo essere scappato dagli Irochesi.»
«Non sarai mai altro che un mozzo del Pouliguen… Ti sembra che io, mastro Testa di Pietra, mi scombussolerei tanto, se si trattasse solo di ciò? Guarda, guarda… Ecco gl’Irochesi che cominciano a perdere la tramontana. Eh, cari miei, ora le piglierete calde calde le nostre capigliature…»
Gl’Irochesi, colti alle spalle dai misteriosi rinforzi giunti ai nostri amici, cominciavano a perdere la baldanza che dava loro la recente vittoria, a disordinarsi, a fuggire, come presi da panico, mentre i Mandani, che già si consideravano perduti, riacquistavano coraggio e ritornavano con maggior impeto e rinnovata fiducia alla battaglia.
Davis che vedeva sfuggirsi la preda creduta ormai sicuramente in suo potere, bestemmiava in orribile guisa e cercava d’indurre i suoi a massacrare i quattro uomini bianchi prima che essi avessero modo di scamparla.
Ma i Mandani, comprendendo che la salvezza era là dove si spingeva il loro sackem, gli si venivan raccogliendo attorno precipitosamente, formandogli insieme con i suoi amici una specie di guardia del corpo.
In mezzo al clamore della battaglia, Testa di Pietra tendeva sempre l’udito nella speranza che gli giungesse ancora la voce che l’aveva scosso tutto come un improvviso sparo del suo favorito pezzo da caccia, e già principiava a pensare d’essere stato il gioco di una cara illusione, quando il tumulto fu dominato da queste parole:
«Testa di Pietra, dove sei che non ti si ode?… Saresti per caso ammutolito, giacché non posso credere che un marinaio del tuo stampo sia morto qui senza rumore!…»
«Corpo di mille campanili, comandante,» urlò al colmo dell’entusiasmo il vecchio mastro. «Avete ragione… ma io tacevo per picchiar più forte, per ascoltar meglio se vi riudivo chiamarmi, perché in verità avevo paura di sognare.»
«Tu non sogni, vecchio mio.»
«Siete dunque proprio voi?»
«In persona.»
«Evviva!… Ehi là, Piccolo Flocco, hai compreso ora chi c’è?… Hai capito ora chi è quel lui che ti dicevo?»
«Aspetta, mastro, ch’io finisca di liberarmi da questo stupidone d’irochese che mi stringe troppo e… Ecco fatto, credo che sia il ventesimo da me spedito a Belzebù. Tu dicevi, mastro?»
«Che sei una bestia.»
«Può darsi; però mordo bene… domandalo agl’indiani.»
«Non posso, perché vedo che scappano.»
«Ora possiamo discorrere.»
«Non hai udito nulla?»
«I rumori della battaglia ti sembrano… nulla?»
«Ciò prova solamente che non sei sordo.»
«Ho inteso inoltre che tu parlavi con qualcuno, ma io ero così occupato a far delle salse d’Irochesi!…»
«Eppoi mi dai del trombone…»
«Infine?»
«Infine… silenzio nei ranghi e tutti sull’attenti, poiché il baronetto William Mac-Lellan, nostro comandante. è qui!…»
Albeggiava.
Sebbene il cielo fosse ancora tutto ingombro di un fitto nebbione che le raffiche, soffiando troppo basse, non riuscivano a fugare, le tenebre s’erano a poco a poco diradate, e le cose come le persone s’erano già fatte più distinguibili, anche ad una certa distanza. Dal lago arrivavano di quando in quando l’eco delle onde mugghianti o il rombo di qualche cannonata.
Ma i nostri quattro amici non si erano più preoccupati né del brigantino messo a sacco, né della flotta inglese e adesso erano intenti a quello che avveniva intorno a loro.
I Mandani avevano fatto un pronto voltafaccia, prendendo vigorosamente la riscossa, e gl’Irochesi, stretti fra due nemici, cominciavano ad essere vinti anziché vincitori.
Ad un tratto una nuova scarica di moschetteria echeggiò sul limite del campo; grida orrende di terrore, di rabbia e di morte scoppiarono, e si vide una schiera d’Irochesi, condotta dallo stesso sackem, darsi a fuga precipitosa, lasciando a terra molti morti e feriti.
Nello spazio lasciato libero s’avanzò al passo di carica una compagnia di marinai americani.
L’ufficiale che la guidava correva innanzi a tutti, stringendo in pugno la spada nuda e una pistola ancora fumante.
Era Sir William Mac-Lellan in persona.
Alla sua apparizione, più che per le parole proferite in ultimo da Testa di Pietra, Piccolo Flocco, Hulrik e Jor erano rimasti immobili, come elettrizzati, mentre il mastro si piantava là, nella più rigorosa posizione di attenti.
Un breve spazio separava i quattro amici dal comandante della Tuonante, e questi la superò in un attimo, balzando dinanzi al suo vecchio mastro e buttandogli con impeto le braccia al collo.
«Eccoti dunque ancora sano e salvo, mio fedele,» gli disse baciandolo sulle gote rugose e arse dal sole e dalla salsedine. «Ho avuto dei momenti terribili per la paura di non arrivare in tempo a salvarvi, ma il cielo mi ha aiutato. Orsù, abbracciami.»
Testa di Pietra era così commosso che non si sentì la forza di obbedire all’invito, per quanto ne avesse una voglia matta.
«Mio comandante…» balbettò.
«Ebbene?»
«Son così confuso… il rispetto… la disciplina…»
«Andiamo, quali sciocchezze mi canti? Non siamo a bordo qui.»
«È vero, ma anche a terra voi siete il nostro capitano… il nostro…»
«Zitto e obbedisci, se non vuoi che ti denunzi al tribunale di guerra e marina per disubbidienza ad un tuo diretto superiore.»
«Corpo d’un campanile… ecco ch’io piango come le comari di Batz!…» esclamò il vecchio bretone, stringendosi stavolta con una rude vigoria il baronetto fra le braccia. «Ma non temete, son lagrime di gioia.»
«Allora son di quelle che fanno bene all’anima.»
«È vero… Mi sento felice. Mio comandante, se un giorno vi occorrerà la vita di un uomo, la mia… contate su di me; io ve la darò benedicendovi.»
«Preferisco serbarla il più a lungo possibile.»
«In vostro servizio, sia pure.»
«Ed ora a voi tre,» soggiunse il baronetto, sciogliendosi dall’amplesso del mastro e tendendo la destra a Piccolo Flocco, a Hulrik e a Jor. «Una buona stretta di mano, come si meritano dei valorosi e fedeli soldati quali voi siete. Quanto a te, Hulrik, osserva che vi è qualcuno il quale reclama il diritto di abbracciarti.»
«Crazie, mio comandante,» rispose l’assiano volgendosi subito per lasciarsi afferrare da suo fratello Wolf «Io star molto contento; io essere sicuro ormai di difentare gappiere.»
Passati i primi momenti di emozione e mentre i Mandani, aiutati nel modo più efficace dai marinai americani ai quali era mescolato un manipolo di quei famosi corsari delle Bermude che i nostri lettori fedeli certo non hanno dimenticato, respingevano vigorosamente gl’Irochesi che battevan in ritirata precipitosa, Testa di Pietra. Piccolo Flocco, Jor e Hulrik s’accorsero che, insieme con l’antico capitano della Tuonante e con Wolf, si erano avvicinati tre altri personaggi che essi non conoscevano, ma che tuttavia meritavano di essere osservati con interesse.
Il più notevole fra essi era un bel pezzo d’uomo alto come un granatiere di Pomerania, sull’età di cinquant’anni, con una grand’aria di gentiluomo autentico, del tipo francese spirante lealtà, fierezza, coraggio, i tre elementi migliori per conquistar di colpo le simpatie.
Aveva il viso abbronzato e un po’ rosso pel gelo, i lineamenti molto marcati, gli occhi grigi vivacissimi, un bel sorriso gioviale e portava il pizzo e i baffi alla Richelieu.
Indossava un pastrano ricco di magnifiche pellicce, ma di taglio antico, e portava pure un cappello fuori moda.
Teneva al fianco una lunga spada che doveva essere appartenuta a qualche suo antenato cavaliere del re di Francia, e attraverso l’apertura del pastrano, sul davanti, lasciava scorgere il calcio a borchie d’oro di due grosse pistole.
Il secondo personaggio degno di osservazione era un uomo tarchiato, sui quarant’anni, dal largo faccione tutto rasato, gli occhi piccoli e brillantissimi, la bocca sempre semiaperta per un sorriso benevolo, sereno, invitante alla confidenza e alla fiducia.
Vestiva tutto di nero, sotto la pelliccia, e non portava armi.
Aveva l’aspetto di un abate, di un missionario andato a portare la religione cristiana fra i selvaggi.
La sua salute doveva essere di ferro, quella spirituale d’oro. Bastava osservarlo per convincersene.
Questi due uomini così diversi fra loro erano accompagnati da un terzo vivente che divideva con essi te sue dimostrazioni affettuose.
Questo essere vivente era un bel cane grosso forse come un piccolo torello, pieno di fuoco, fornito dalla natura di un pelo lungo, nero e lucido che lo difendeva a meraviglia dal freddo e gli dava un aspetto che doveva formar l’invidia dei suoi congeneri e l’amore delle bellezze canine! I tre incogniti fecero subito la più favorevole impressione sopra i nostri amici.
Sir William Mac-Lellan, finite le prime espansioni di cordiale cameratismo, riprese a dire, mentre i Mandani, valorosamente coadiuvati dai marinai sopraggiunti, si davano con accanimento ad inseguire gl’Irochesi che ormai battevano in ritirata più che in fretta:
«Orsù, Testa di Pietra, non ti stupisce un po’ il vedermi qui, mentre scommetto che mi supponevi ancora lontano parecchie miglia?»
«Per il borgo di Batz!…» esclamò il bretone tirando fuori di tasca la storica pipa e caricandola di tabacco, «se la vostra presenza mi stupisca… certo mi riempie di gioia, perché la desideravo ardentemente. Domandate giusto a Piccolo Flocco ciò che dicevo poco fa.»
«E che cosa dicevi?»
«Ecco qua… Corpo di mille campanili!… Se fosse qui il capitano della Tuonante, con i nostri bravi corsari, noi si farebbe un boccone solo di tutti quei furfanti d’Irochesi, e poi si manderebbe a tener compagnia ai pesci del Champlain la flotta inglese e quel maledetto d’un…»
«Continua.»
«È vostro fratello, comandante, ma non merita riguardi.»
«Volevi dire…»
«… d’un marchese d’Halifax.»
«Egli è dunque qui?»
«Siamo stati ad un pelo d’impadronirci di lui.»
«Ah!»
«Disgraziatamente quando abbordammo il suo brigantino, egli lo aveva già abbandonato per raggiungere su una scialuppa le navi del generale Burgoyne che incrociano al largo. Udite? Devono essere imbottite di polvere, per farne tanto spreco.»
Il baronetto si era fatto cupo in viso, ascoltando Testa di Pietra, e taceva.
Il vecchio bretone in poche parole lo mise al corrente degli avvenimenti e della situazione.
«Ci ritroveremo dunque di fronte!…» disse ad un tratto con accento alterato Sir William Mac-Lellan. «Ah, è ben triste la sorte che vuole mantenere un odio sì mortale fra due uomini che hanno nelle vene lo stesso sangue. E sia. Ancora una volta i nostri occhi si fisseranno scambievolmente con le fiamme del furore e della vendetta. Ancora una volta i nostri ferri cercheranno la via delle nostre carni per ferirlo a morte. Ma sarà l’ultima: uno solo dovrà uscir vivo da questa lotta selvaggia, uno solo. Chi soccomberà? Ciò è scritto lassù, nella mente di Dio. Ma se il vinto dovessi essere io… Ebbene, amici, affido a voi, che mi amate, la difesa, la salvezza della mia Mary, poiché ella tutto preferirà alla sciagura di cader fra le mani del marchese d’Halifax… ricordatelo!…»
Testa di Pietra si picchiò un tal pugno sulla fronte che le ossa risonarono.
«Voi, vinto!…» esclamò. «Voi, il comandante di quella Tuonante che ha tenuto per tanto tempo il regno sul mare delle Bermude!… Ecco una cosa impossibile… Una supposizione che ricaccerei in gola a qualunque altro osasse formularla, fosse anche più alto del campanile di Batz. Quanto alla baronessa Mac-Lellan, non ha che da fare un cenno perché ciascuno di noi si butti magari dentro una fornace accesa per farle piacere, non è vero, Piccolo Flocco?»
«E come no?» rispose il gabbiere con gioviale ardore. «Siamo francesi.»
«E per di più io sono di Batz.»
«E io del Pouliguen.»
Hulrik, Wolf e Jor tacevano, ma si leggeva nel loro viso commosso che partecipavano interamente alle idee dei due marinai.
Durante il colloquio il gentiluomo sconosciuto era sempre rimasto in silenzio ad ascoltare, mentre il suo compagno si divertiva a tirare le orecchie al cane, dimentico come gli altri della battaglia che ancora ferveva intorno a loro.
In quella tranquillità indifferente, obliosa, vi era un che di guascone, di eroico, che impressionava, dando la misura dell’animo di quegli uomini temprati a tutto. L’incognito a un tratto fece alcuni passi innanzi e con una bella voce sonora e rotonda disse:
«In verità, signori, io sono affascinato dai vostri discorsi, e mi dichiaro lieto al più alto grado di trovare, in queste terre desolate, dei compatrioti che fanno onore con i propositi e, meglio, con i fatti alla nostra cara Francia. Poiché sono francese anch’io al pari di voi, marinai, e mi sento orgoglioso di stringervi la mano e di chiamarvi amici.»
E tese infatti al destra aperta prima a Testa di Pietra, poi a Piccolo Flocco, i quali restituirono calorosamente la stretta lanciando a piena gola un grido che da un pezzo non era più echeggiato sulle rive del Champlain:
«Evviva la Francia!…»
«Signori,» riprese il gentiluomo francese, «risparmiando a Sir William Mac-Lellan la formalità di una presentazione in regola che, in questi luoghi e in tali momenti, sarebbe assurda, io vi dico chi sono, giacché ormai di voi tutti conosco almeno il nome. Voi vedete in me Goffredo Lespinois barone di Clairmont, emigrato in gioventù dalla Francia, per ragioni che forse un giorno conoscerete, ed ormai divenuto canadese. In seguito a quali avvenimenti io mi trovi qui, insieme con Sir Mac-Lellan, lo saprete quando l’opportunità di narrarvelo sarà venuta. A qualche miglio di distanza da qui, io possiedo un castello che sorge sopra una rupe circondata dall’acqua del lago e unita alla riva con una stretta lingua di terra. Io offro a voi l’ospitalità e un rifugio sicuro, come già l’ho offerto al vostro comandante e alla sua gentile signora.»
«Che!…» esclamò Testa di Pietra. «La baronessa è nel Canada, anzi in un castello del lago di Champlain, poco lontano da noi…»
«Sì, mastro mio,» rispose Sir Mac-Lellan. «Mary ha voluto seguirmi ad ogni costo, assicurandomi che aveva dei cattivi presentimenti e che una separazione l’avrebbe uccisa. Ho dovuto accontentarla e permetterle di venire a dividere con me i rischi di una guerra e i disagi di un paese desolato, in un clima spaventoso.»
«Per mille campanili!…» esclamò il bretone. «Se il marchese vostro fratello lo sapesse, non si darebbe più pace finché non avesse preso il castello, ucciso i custodi e rapita la baronessa. È necessario quindi tener segreta la faccenda.»
«Tu hai paura?» disse Sir William con una certa esitazione.
«Non per me, ma per la baronessa… Ho anch’io…»
«Niente, niente.»
«Parla.»
«Vi supplico, comandante…»
«Lo voglio.»
«Ho delle inquietudini, ecco.»
«Ah!»
«Dei presentimenti brutti. Ma, via, sembro proprio una donnicciola del borgo di Batz, e Piccolo Flocco ha ragione di burlarsi di me.»
Era ormai completamente giorno, ma il nebbione nascondeva tuttavia allo sguardo dei nostri amici la distesa del lago Champlain.
Gli Irochesi erano scomparsi tutti nell’interno del territorio e i Mandani vincitori ritornavano a gruppi recando seco armi, gingilli e capigliature tolte ai nemici vinti.
Le perdite erano state gravi da ambedue le parti; gl’Irochesi però durante la fuga erano stati addirittura decimati e ridotti a tal partito da non poter tanto presto pensare alla rivincita.
Secondo l’uso barbaro, i feriti nemici erano stati uccisi e scalpati; quelli mandani invece raccolti e curati con i mezzi empirici degli stregoni.
Sotto un cumulo di corpi umani, durante le ricerche per il campo, fu rinvenuto quello di Macchia di Sangue.
Lo si credeva cadavere, ma per contro il bravo sottocapo era soltanto ferito, sebbene gravemente, e il compagno del barone di Clairmont asserì che, data la robustezza di fibra posseduta dal guerriero indiano, egli si sarebbe ristabilito in pochi giorni.
Tutto dunque andava per il meglio, quando Testa di Pietra ebbe un grido di costernazione, mentre si frugava per tutta la persona.
«Che c’è?… Che hai?…» gli chiesero tutti con ansia.
«Corpo di una corvetta sventrata!…» urlò il bretone. «Che ho?…
Ma le due lettere del generale Washington e del baronetto… le lettere dai sigilli verdi che avevo consegnato a Piccolo Flocco, prima del mio duello con l’Orso delle Caverne, e che il gabbiere mi aveva restituito dopo la mia vittoria…»
«Ebbene?»
«Ebbene, non le trovo più, non le ho più… capite?»
16 – Verso il castello di Clairmont
Un vivo senso di costernazione si dipinse sul viso degli amici del vecchio mastro nell’udire le sue parole.
L’incidente era senza dubbio di una gravità eccezionale.
Essi erano arrivati fin là, attraverso tanti pericoli, avevano lottato contro Davis e gli Irochesi per salvare le due lettere da consegnarsi ad Arnold e a Saint-Clair, i comandanti del forte di Ticonderoga, ed ecco che ad un tratto s’accorgevano che quelle due lettere preziose, per una misteriosa fatalità, erano sparite, mentre credevano di essere ormai salvi e sicuri di portarle alla loro destinazione intatte.
Testa di Pietra non sapeva spiegarsi la loro scomparsa e appariva desolato al massimo grado. Si strappava i radi capelli, o meglio tentava di strapparseli, perché essi erano troppo ben radicati sul cranio, e se la pigliava con tutti i campanili della terra e tutti i vascelli del mare, come se fossero creature sensibili al suo cospetto.
Sir William Mac-Lellan, che si era un po’ appartato col gentiluomo francese, udì la musica del vecchio cannoniere e s’informò delle cause che la provocavano.
«Le due lettere sono scomparse!…» esclamò egli, quando seppe la faccenda, con gesto di costernazione. «Cospetto, è una vera disgrazia…»
«Ah!»
«La quale però sarebbe meno grave di quanto sembri,» continuò il baronetto, «se si potesse accertare che i due pieghi non sono caduti in mano di persone interessate a conoscerne il contenuto per servirsene contro di noi e della causa americana, ma semplicemente smarriti.»
«Credo infatti che sia così,» s’affrettò a dire Testa di Pietra, aggrappandosi a quella speranza come a una tavola di salvezza. «Nessuno me li può certo aver rubati… e io li devo aver perduti sventatamente, pari a una stupida comare di Batz innamorata…»
«Se è così,» soggiunse Sir William, «la situazione non è compromessa irreparabilmente e noi non dobbiamo disperarci.»
«Mi consolate, comandante… Vi ringrazio.»
«Infatti, io conosco a memoria il contenuto delle due lettere, di cui una è mia, del resto… e potrò sempre riferirlo a voce ai comandanti di Ticonderoga, con le disposizioni precise del generale Washington. È necessario però raggiungere al più presto possibile il forte americano.»
«Io vi indicherò la via più corta e più sicura per arrivarci,» disse Goffredo Lespinois, barone di Clairmont, il quale assisteva al colloquio. «Seguitemi al castello… Là discuteremo e provvederemo a tutto.»
«Come volete.»
Stavano per mettersi in cammino, quando Testa di Pietra fece improvvisamente udire una nuova esclamazione.
«Che altro c’è?» chiese Sir William, non nascondendo un po’ di inquietudine.
«Oxford!…» soggiunse il mastro guardandosi attorno.
«Oxford… come c’entra qui, nel Canada, questa celebre sede della scienza e dell’insegnamento dell’Inghilterra?»
«Corpo d’un campanile!…» continuò Testa di Pietra. «Che l’abbiano ucciso o che si sia dato alla fuga, il mariolo?… So bene che non aveva troppo coraggio, ma…»
«Ti spiegherai una buona volta, spero; mi dirai pure di chi vuoi parlare.»
«Per il borgo di Batz, del segretario del marchese.»
«Che!…»
«Ah, è vero, voi non sapete, mio comandante, in che modo stanno proprio le cose. Ora vi metto al corrente di tutto quanto ho dimenticato di dirvi. Prima però, lasciatemi dare alcune disposizioni ai miei compagni.»
«Fa’ pure.»
Testa di Pietra chiamò Piccolo Flocco. Jor e i due assiani e diede loro l’ordine di cercare dappertutto il pusillanime Oxford; quindi si rivolse al capitano e gli disse:
«Nella fretta d’informarvi sugli avvenimenti verificatisi durante il viaggio fin qui, avevo dimenticato di narrarvi la cattura di mister Oxford e di dirvi dei cambiamenti accaduti nel suo animo dopo ch’egli si vide abbandonato in nostro potere dal suo padrone. Ecco ora come stanno le cose.»
E il bretone riferì al baronetto quanto i lettori già sanno.
Poi riprese:
«Durante l’assalto degl’Irochesi noi abbiamo perduto di vista il segretario del marchese. Ma ciò non deve meravigliare. Egli è un poltrone che ha più paura di un coniglio. Mentre noi abbordavamo il brigantino del suo padrone, egli se ne stette nascosto nel fondo di un canotto per sfuggire alle palle e non sentirne il fischio. Certamente, se non è morto di spavento, ora si sarà rifugiato in qualche nascondiglio ad attendervi l’esito della battaglia, o avrà messo tra sé e l’accampamento la maggior distanza possibile lavorando di gambe.»
«E tu lo credi sinceramente divenuto nemico di Halifax?»
«Sicuro; un uomo che è stato sul punto di vedersi appeso ad un laccio pendente e ha sperato invano di essere soccorso dal suo padrone, non può certamente essergli più fedele.»
«Chissà?… Forse il suo primo impulso è stato tale, ma poi l’interesse può avergli suggerito di fingere con voi, per carpirvi dei segreti a vantaggio dei nostri nemici, e trarvi magari in qualche tranello.»
«Diavolo!…»
«Bisogna vigilare…»
«Io tengo sempre gli occhi bene aperti.»
«E non stimare gli altri con la misura di se stessi.»
In quel momento alcune grida e delle risate si udirono da un punto del campo.
«Eccolo!…»
«Scovato il mariolo.»
«Su, poltrone; animo, coniglio.coniglio, che ogni pericolo è scomparso.»
«Ah, ah, ah!…»
«Non afer mai feduto uomo più pauroso.»
Eran le voci di Piccolo Flocco e di Hulrik che risonavano clamorosamente.
Tutti gli sguardi si volsero allora al luogo donde esse partivano, e si videro i due fedeli compagni del mastro della Tuonante sollevare da terra un uomo, sostenerlo sotto le ascelle e spingerlo innanzi con una energica impazienza.
«Corpo della mia vecchia pipa di famiglia…» esclamò Testa di Pietra tutto rallegrato da quella vista. «È lui, Oxford in carne ed ossa… Si era nascosto per non buscarne, nemmeno per sbaglio. Sono contento di rivederlo, quel povero diavolaccio, e di non averlo giudicato male.»
«Tanto meglio,» soggiunse Sir William. «Se egli ci è devoto sarà certamente utile alla nostra causa.»
«Ne sono convinto, mio comandante.»
Il segretario del marchese e i suoi custodi arrivarono.
Oxford era pallidissimo e tremante.
Cercava di evitare gli sguardi canzonatori che si posavano su di lui e mostrava una grande confusione.
Il vecchio bretone gli mosse incontro e gli tese la grossa mano leale tonando:
«Orsù, caro segretario, voi non sarete mai un eroe, ma siete un brav’uomo, e perciò vi vedo con gioia ritornare fra noi sano e salvo. Un po’ di contegno per mille corvette, ora che siete al cospetto di Sir William Mac-Lellan!»
Oxford trasalì e sollevò gli occhi vergognosi.
S’avvide allora del baronetto che lo fissava con uno sguardo tra indagatore e sprezzante.
«Sir, perdonatemi il triste spettacolo che vi offro con la mia pusillanimità,» balbettò inchinandosi profondamente. «Non sono uomo di guerra, io, e al primo segno della battaglia mi sono nascosto sotto un mucchio di pelli d’alce o di orso e sono rimasto là, mezzo morto di paura; e chissà quando avrei trovato la forza di uscirne, se Piccolo Flocco e Hulrik non mi avessero scoperto e tratto fuori.»
«Rassicuratevi, mister Oxford,» rispose il baronetto. «In voi la paura non è una colpa, quindi non ho nulla da perdonarvi.»
A quelle parole velatamente ironiche, il segretario del marchese d’Halifax si morse un labbro, mentre un lampo che nessuno vide gli passava negli occhi velati dalle ciglia.
«Signori.» s’affrettò a soggiungere Sir William Mac-Lellan, «non perdiamo qui più oltre del tempo. Ho fretta, al pari del signor di Clairmont, di far ritorno al castello ove delle persone care stanno certamente in pena per noi. In cammino.»
Era pieno giorno, ormai, e tutti i Mandani superstiti si davano attorno a riordinare l’accampamento.
«Sapete adesso che cosa faccio?» disse Testa di Pietra.
«Udiamo.»
«Riunisco in un meeting tutti i miei sudditi.»
«Bene; e poi?»
«Poi tengo loro una specie di discorso.»
«Allo scopo…»
«D’informarli che son stanco di fare il sackem e che perciò rinuncio alla carica.»
«Sta a vedere se la tua dozzina di mogli sarà contenta,» osservò il giovane gabbiere.
«Contente o no, io ne ho fin sopra i capelli e li pianto tutti in asso, i signori pellerossa.»
«Sarebbe un errore che potremmo scontare in seguito amaramente,» disse con tono grave il canadese Jor. «I Mandani ora vi adorano, mastro Testa di Pietra, vi considerano come l’uomo, il capo, che li può salvaguardare dalle ire degl’lrochesi sconfitti. Se li abbandonate, voi e i vostri amici, in questo momento, vi si volgerebbero contro e sarebbero guai seri. Dovete pazientare e restare ancora il sackem dei Mandani.»
«Corpo di un campanile!…»
«Inoltre, questo esercito di selvaggi ci è utile alla causa americana. Lo terremo sulle rive del Champlain per opporlo agl’inglesi.»
«Dopo tutto avete ragione. Mi sacrificherò a restare.»
«Almeno finché sia in grado di succedere a voi Macchia di Sangue.»
«Sta bene.»
«E poi non dimentichiamo che c’è Riberac da salvare.»
«È vero.»
«Se pur ne avremo il tempo.»
Furono spiegate le cose a Sir William e al signor di Clairmont. Entrambi diedero ragione a Jor e allora venne deciso che Testa di Pietra con una scorta di guerrieri indiani, avrebbe accompagnato i suoi amici fino al castello per presentare i suoi omaggi a madama Mac-Lellan, e rifornirsi d’armi e di munizioni che il signor di Clairmont teneva nascoste in sotterranei segreti.
Quindi, insieme con Jor e un drappello di marinai, avrebbe raggiunto la sua tribù per mettersi alla ricerca di Riberac, mentre Piccolo Flocco e i due assiani restavano con Sir William, il quale doveva far ogni sforzo per raggiungere il forte di Ticonderoga, essendo andate perdute le lettere, e dovendo perciò riferire a viva voce il loro contenuto ai due comandanti americani.
Ciò stabilito, Testa di Pietra prese una ventina di guerrieri Mandani scelti fra i più aitanti nella persona e i più saldi di cuore e si mise in cammino alla volta del castello di Clairmont.
Strada facendo, Sir William Mac-Lellan spiegò le cause della sua improvvisa comparsa sulle rive del Champlain, cause che noi riferiremo anche perché serviranno a delineare la situazione delle ostilità fra i due stati belligeranti.
«Amici miei,» prese dunque a dire l’animoso baronetto, «data la vostra lunga assenza dal teatro principale della guerra, certo voi ignorate molti degli avvenimenti che si sono succeduti in questi ultimi tempi. Io vi metterò in breve al corrente di essi. Voi sapete che l’esercito capitanato dal generale Washington è composto di truppe regolari assoldate, le quali costituiscono il cosiddetto <esercito continentale>, e di milizie volontarie levate dai vari stati. Le prime, ahimè non superano i millecinquecento uomini; le seconde più numerose e molto abili nell’inseguire e molestare il nemico, non sanno resistere ad una battaglia in aperta campagna. Per maggior sventura, fin dai primi di quest’anno le malattie hanno recato spesso più danno a tali truppe che non le spade e i fucili inglesi; e Washington, mentre stava a Morristown, ha dovuto far innestare il vaiolo a tutti i suoi soldati, tenendo segreta l’operazione, onde gl’inglesi non traessero profitto dallo stato d’indebolimento del nostro esercito per assalirlo e distruggerlo. A primavera avanzata, Washington si recò a Middlebrook per vigilare di là le mosse di Howe. Il generale inglese, per trarlo da quella posizione, finse di ritirarsi all’Isola degli Stati e vi avviò infatti le salmerie e l’artiglieria. Washington si lasciò cogliere al laccio e si mosse da Middlebrook per danneggiare la retroguardia nemica. Allora Howe richiamò le truppe tragittate, divise le sue forze in due schiere, una sotto di sé, l’altra agli ordini di Cornwallis e assalì gli americani da due parti, per sterminarli. Vi sarebbe forse riuscito, se un battaglione della nostra fanteria non avesse incontrato Comwallis, il quale aveva incaricato di prendere Washington alle spalle, e non si fosse impegnato risolutamente in una fiera lotta. Al fragore del combattimento il dittatore americano comprese l’inganno in cui era caduto, e s’affrettò abilmente a retrocedere e a rioccupare Middlebrook. Howe non si scoraggiò per questo. Fece allestire una flotta, v’imbarcò le truppe e fece vela da Sandyhook. Dove andava? Mistero. Washington dubitava, spiando. Appena venne a sapere che la flotta si era mostrata dinanzi alla Baia del Delaware, sospettò che la mèta della spedizione inglese fosse Filadelfia e subito volò in soccorso di questa città. Ma Howe senza dubbio non ignorava che il Delaware era impraticabile per le palafitte e i carcami di navi affondate che la ostruivano; quindi si diresse alla Baia di Chesapeak, sbarcando il suo esercito al Cavo dell’Elk. Ora i due eserciti americani erano di fronte, a una distanza di sole sette miglia, separati dal fiume Brandywine.