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Kitabı oku: «Straordinarie avventure di Testa di Pietra», sayfa 15

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18 – Una sorpresa del lago

Oltrepassata un’ultima estensione di betulle nane, i nostri amici e le loro scorte giunsero in vista di quella parte del lago ove, a cavaliere di una rupe, sorgeva il castello di Clairmont.

Era questo una fortezza di modello francese, con un maschio, quattro torri agli angoli, delle vedette e degli sporti.

Non aveva un aspetto troppo guerresco e pareva privo di artiglierie.

La sua caratteristica principale, poi, era quella di essere costruito quasi tutto con una qualità di legname detto «legno-ferro». Soltanto in basso si vedevano costruzioni di sasso e cemento.

La rupe dove il castello sorgeva aveva i fianchi quasi a perpendicolo, ed era abbastanza elevata sul lago e rivestita di vegetazione folta e nerastra, che dava all’insieme un aspetto un po’ triste, lugubre.

Ma il castello nondimeno, con i suoi coni acuti e sormontati da banderuole svolazzanti prometteva un asilo dolce, confortevole, fors’anche gaio.

«Sulla vedetta più alta della rocca vi è qualcuno che sta spiando ansiosamente il nostro arrivo,» disse il barone francese osservando con la sguardo esperto la sua dimora.

«È vero,» rispose sussultando Sir William. «Mi sembra di riconoscere la mia diletta Mary… il cuore, del resto, me ne dà conferma.»

«Accanto a lei vi è la baronessa.»

«Esse ci attendono con ansia.»

«Lo credo.»

«Affrettiamo il passo.»

«Non temete, Sir Mac-Lellan, poco cammino ci resta da fare.»

«Sono impaziente di rivedere mia moglie, di rassicurarla, e poi di raggiungere la mia nave per rimetterla a galla.»

«Vi comprendo.»

«Siete un gentiluomo di gran cuore.»

«Eh via… Ecco, dietro quel folto di piante è la lingua di terra che unisce la rupe, la quale rappresenta il mio dominio d’avvoltoio, e la riva. Se il Champlain fosse calmo, basterebbe un segnale con questo corno da caccia per far accorrere i miei marinai con le imbarcazioni ora nascoste in una piccola cala invisibile. Si risparmierebbe metà strada. Ma il lago è ancora molto agitato e perciò bisogna rinunciarvi.»

«A proposito… e la flotta inglese che incrocia al largo?»

«Pare che abbia smesso di sprecare della polvere.»

«Dite, barone di Clairmont, non avete mai avuto fastidi dall’Inghilterra?» chiese il baronetto.

«Qualcuno… ma ho saputo sempre respingerlo.»

«È dunque veduta di buon occhio la vostra presenza in questi luoghi?»

«È tollerata, in virtù di un decreto ch’io ho saputo strappare al sovrano inglese e col quale si riconosce il mio pieno diritto di possesso al castello di Clairmont. Ahimè, nutrivo un bel sogno nella mia vita.»

«Quale?»

«Riconquistare alla Francia il Canada.»

«Ah barone!»

«Sì, amico mio; era un sogno troppo superbo e vano, e perciò ho dovuto spegnerlo in me. Ora parteggio in segreto per la causa americana.»

«Bene.»

«Qualunque inglese venisse a visitare il mio castello, non sospetterebbe mai, per quanto astuto, ciò che vi nasconde.»

«Mi ponete in curiosità, signor di Clairmont…»

«Zitto; ogni cosa a suo tempo.»

«Come vi piace.»

«Vi basti sapere, sir, che quel castello, che sembra un giocattolo, è invece una vera… macchina infernale.»

Erano giunti alla striscia di terra gettata dalla natura attraverso il lago. Vi s’inoltrarono e in breve arrivarono all’entrata della bocca di legno-ferro.

Grida di gioia accolsero il ritorno di Clairmont e di Sir William.

La baronessa e Mary si gettarono fra le braccia dei rispettivi mariti, poi diedero il benvenuto ai nuovi ospiti.

Testa di Pietra, Piccolo Flocco, Jor, i due assiani e Oxford seguirono agli appartamenti superiori i padroni di casa.

Gl’indiani e i marinai vennero invece condotti in un vasto tinello a pianterreno e messi in presenza di alcune pinte di eccellente acquavite.

Con pronta intuizione il signor di Clairmont comprese che la prima cosa gradita da farsi ai suoi ospiti era quella di porli a sedere dinanzi ad una buona tavola imbandita, e così fece.

Sebbene non lo confessassero, i nostri eroi avevano una fame da lupi, e non si fecero quindi pregare ad attaccar bravamente i prosciutti d’orso, i cosciotti di opossum, i filetti di alce, i sanguinacci, i salami e i salmoni che troneggiavano in abbondanza sulla mensa, tra ampie caraffe e vasti bicchier di sidro e di birra, alla quale soprattutto Wolf e Hulrik volgevano insistentemente gli sguardi più amorosi, quando la necessità di mangiare impediva loro di berla.

Al banchetto non fece onore l’ex segretario del marchese.

Evidentemente il poltrone, mentre i suoi compagni si battevano con gli Irochesi aveva pensato a riempire la pancia per sostenere lo spirito avvilito.

La famiglia del barone di Clairmont si componeva di sua moglie, una gentildonna nata da un nobile francese e dalla figlia di una capo algonchino, unitisi in matrimonio quando il Canada apparteneva ancora alla Francia: di due figli, il primo dei quali Enrico, giovane forte e bellissimo, come gli ospiti del castello potevano constatare da un grande ritratto ad olio che si vedeva nella sala, era allora assente, essendosi recato alla caccia di preziose pellicce, mentre il secondo, Carlo, che non doveva contare più di sedici o diciassette anni, aveva dovuto restare al castello soffocando le smanie del suo animo avventuroso; di una figlia, Diana, non ancora ventenne, leggiadra quanto mai, bionda come l’oro, dolcissima nell’aspetto e nel cuore: una creatura adorabile.

Il signor di Clairmont era assai ricco per l’eredità della consorte e per la floridezza del suo commercio di pellicce che, però, aveva subìtosubito ora un arresto a causa della guerra trasportatasi nel Canada.

Aveva molti domestici che lo adoravano insieme con tutti i membri della sua famiglia; una schiera di Algonchini fedeli a tutta prova, i quali attendevano specialmente alla caccia, alla pesca, alla navigazione del lago e alla custodia del castello; un cappellano, l’abate Rivoire, che gli indiani chiamavano il «padre dell’orazione», e che serviva da precettore ai figli del barone, uomo di buona dottrina e di ottimo cuore e in pari tempo pieno di coraggio e destro alla caccia e alla guerra, fino a voler seguire i suoi allievi o il barone stesso in rischiose imprese, come nella spedizione in soccorso di Testa di Pietra, poiché era appunto l’abate Rivoire l’incognito che accompagnava Clairmont e Mac-Lellan al campo dei Mandani.

Vi erano poi varie donne pel servizio personale delle signore, e la più degna di nota fra tutte era Lisetta, la cameriera di madamigella Diana, una fanciulla orfana, figlia di un emigrato francese, piena di vivacità nella svelta personcina, con un visetto birichino, illuminato da due occhi che lasciavano scorgere insieme la bontà e la furberia, la virtù e l’ardimento più risoluto.

Piccolo Flocco che, nella vertigine di avventure in cui erasi trovata ravvolta la sua vita, non aveva mai avuto tempo né modo di osservare troppo le donne, fu colpito dalla vista di quella fresca ed esuberante bellezza schiettamente francese e cominciò a sentire nel suo spirito un turbamento mai prima provato, uno strano palpito, una soave commozione dentro il cuore, mentre i suoi occhi, con involontaria insistenza, si fissavano in volto a Lisetta che, assieme alla sua padroncina, vigilava al buon andamento del servizio del banchetto.

Piccolo Flocco era un bel giovane, dal portamento fiero senza spavalderia, dall’aria schietta e intelligente: era, insomma, fatto a posta per piacere. Lisetta dovette notarlo e più volte, sorpresa dagli sguardi di leale ammirazione del giovane gabbiere, abbassò i suoi arrossendo, bisogna pur dirlo, non di sdegno, ma di segreto piacere.

Il resto di quella giornata e la notte successiva trascorsero senza incidenti. Sir William prima di coricarsi aveva voluto fare una visita alla sua nave incagliata e ne era ritornato pienamente rassicurato, poiché, essendo caduto quasi totalmente il vento, il lago si calmava a vista d’occhio.

«Domani non vi sarà un’onda a pagarla un milione.» disse egli rientrando nel castello, «e io potrò disincagliare la corvetta e pensare alla missione che mi è stata affidata da Washington.»

Testa di Pietra, il quale era instancabile, voleva ad ogni costo mettersi alla ricerca di Riberac prima che calasse la notte, ma tutti gli consigliarono un riposo di dodici ore almeno, poiché, dopo tutto, era di carne ed ossa, come lo erano i suoi compagni. E l’ostinato bretone cedette brontolando.

Alla mattina delle grida e delle esclamazioni energiche destarono Sir William, Testa di Pietra e i suoi compagni che, sfiniti dalle passate fatiche e dall’insonnia sofferta, dormivano come tanti babirussa.

«Per tutti i campanili della Bretagna, gl’inglesi!…» strepitò il vecchio mastro tra il dormiveglia. «Tutti sul ponte!…»

«Cosa strilli, trombone?» grugnì Piccolo Flocco che dormiva nella stessa camera, voltandosi nel letto.

«Non odi quelle voci?»

«Ebbene?… Siamo in un castello.»

«Ma qui succede qualcosa.»

«Tu sogni, vecchio mio.»

«Uhm.»

«È come ti dico.»

«Scommetto la mia pipa di famiglia contro un bicchiere di vino scorpionato, che stiamo per ricevere una visita degl’inglesi.»

«Bah, daremo loro il benvenuto, ecco tutto.»

«Amerei meglio prenderli a cannonate col mio pezzo da caccia.»

«Serviti pure, mastro sackem.»

«Mozzo del Pouliguen, metti fuori dalle coltri un orecchio e te lo farò diventar lungo come quello di un asino.»

«Cioè… come il vostro.»

E il gabbiere scoppiò a ridere, contento della battuta. Testa di Pietra fece udire un sordo brontolio.

«Brigante, tu mi manchi di rispetto perché sai che ti voglio troppo bene,» soggiunse poi. «Ma io mi vendicherò lo stesso.»

«In che modo?»

«Dicendo male dei gabbieri in genere…»

«Peuh.»

«E di quelli del Pouliguen in specie…»

«Oh, oh.»

«E di una certa cameriera che risponde al nome di…»

«Mastro!…»

«Di Lisetta… Ah, ah, ah, giovinotto, sei toccato sul vivo, ora. Va là, che ti amo troppo per farti anche il più piccolo male. Dimmi, piuttosto, dove dormono Wolf e Hulrik.»

«Qui, nella camera accanto alla nostra,» rispose Piccolo Flocco che si era alzato.

«Sento infatti che si muovono… Ehi là, chi è?»

La porta della camera si era aperta e un uomo era entrato.

«Star io, Hulrik,» rispose la voce del bravo assiano.

«Buongiorno.»

«Puonciorno… Sapere, mastro Testa di Pietra, crande nofità?»

«Forse il Champlain ha ingoiato la flotta inglese, col marchese di Halifax, Davis e i loro compagni?»

«No, no.»

«È ritornato sano e salvo Riberac?»

«Neppure.»

«È giunta una squadra di navi americane?»

«Nemmeno.»

«È arrivato un carico di salsicciotti?»

«Ahimè, no… il lago…»

«Già, il lago… è forse diventato una grossa botte di birra?»

«È… celato, tutto celato, intorno al castello»

«Sei impazzito. Hulrik.»

«Io niente pazzo, io dire ferità.»

«Ma è impossibile.»

E Testa di Pietra, sceso dal letto. si slanciò alla finestra.

Un grido di stupore gli sfuggì

Attraverso un lieve strato di nebbia. che in lontananza appariva più denso, si vedeva la superficie del Champlain immobile, attorno al castello, trasformata in una enorme lastra di ghiaccio.

«Il Lago gelato!…» esclamò il vecchio mastro della Tonante. «Ecco una cosa strabiliante. Vorrei vedere il viso del generale Burgoyne e i suoi marinai, davanti alle loro carcasse imprigionate. Ah, pel borgo di Batz. quali idee mi nascono qui, dentro la zucca… Si potrebbe… ma sicuro che si potrebbe, sicuro… Basta, ci penseremo dopo aver ritrovato vivo o morto il nostro Riberac, è vero. Piccolo Flocco?»

«Penseremo a che cosa?» domandò il giovane gabbiere.

«Eh, lo so io.»

«Se lo sai tu, non aggiunga parola.»

«Vedi, figlio mio, quel ghiaccio?»

«Cospetto, non dormo mica.»

«Orbene, quel ghiaccio… ha acceso nella mia testa un vulcano di idee meravigliose.»

«Bum!…»

«Mozzo del Poliguen, non meriti la mia confidenza.»

Testa di Pietra, che frattanto si era vestito rapidamente, uscì dalla camera e scese al pianterreno del castello, ove trovò già riuniti i suoi Mandani di scorta, ai quali erano state consegnate delle buone armi da fuoco e molte munizioni.

«Dov’è Sir William?» chiese il bretone a Jor che si trovava già là, in pieno assetto di cacciatore canadese.

«S’è recato col barone a visitare la corvetta, temendo che il congelamento le abbia cagionato nuovi danni.»

«Speriamo di no.»

«Contate di partire, mastro?»

«Al più presto: sarebbe un tradimento non tentare nulla per ritrovare vivo o morto quel povero Riberac.»

«Sono del vostro parere.»

«Per prima cosa noi ritorneremo all’accampamento mandano.»

«Già.»

«Quindi faremo una puntata sul luogo ove sorgeva il fortino distrutto dalle palle infuocate dei cannoni inglesi.»

«Sperate di trovare là le tracce di Riberac?»

«Non è improbabile, s’egli è sempre in vita ed ha potuto sottrarsi agli Irochesi.»

«Non comprendo…»

«Che cosa?»

«Ciò che dovrebbe fare al fortino devastato.»

«Dimenticate che il nostro trafficante ha nascosto là le sue ghinee, frutto di anni e anni di privazioni e di fatiche. Ora un uomo, per quanto disinteressato sia, non abbandona senza contrasto e per sempre un tesoro accumulato a prezzo di sangue.»

«Avete ragione.» Testa di Pietra accese la sua pipa, poi chiamò un algonchino e gli disse: «Sai tu dov’è incagliata la corvetta?»

«Lo so, sackem bianco.»

«Be’,«Bè, potresti guidarci?»

«Quando il sackem bianco vuole.»

«Andiamo allora. Venite con me, Jor?… Ho proprio desiderio di vedere com’è la nuova Tuonante.»

I tre uomini si misero in cammino.

Essi avevano calzato scarpe da ghiaccio, e correvano rapidamente sulla superficie solida del lago.

Giunti alla corvetta, che giaceva incastrata con la prora in un bassifondo, un po’pò inclinata sul tribordo, montarono sul ponte ove erano il barone e Sir William.

Testa di Pietra, sentendosi finalmente sotto i piedi le tavole di una vera nave da guerra, vedendosi davanti agli occhi dei cannoni e dei sabordi, trasse un gran respiro di soddisfazione.

«Si sta bene qui, pel borgo di Batz!…» esclamò battendo poderosamente i talloni liberi. «Questa corvetta non vale certo la Tuonante di gloriosa memoria, ma può sempre far onore al terribile nome che porta. È, più piccola dell’altra, ma mi sembra solida e ha cannoni in buon numero e che devono sparare a meraviglia. Ah, per mille campanili… con che gusto ora li proverei contro quei bricconi d’inglesi!»

«Non temere, mastro,» disse il baronetto Mac-Lellan, udendo le parole del fiero bretone, «credo che ne avrai presto l’occasione.»

«Uhm!»

«Ne dubiti?»

«Se non mettono le ali, ho paura che le navi inglesi, inchiodate certo come noi qui, tra i ghiacci, non ci verranno a riverire tanto presto.»

«Ma il ghiaccio può sciogliersi da un giorno all’altro.»

Il signor di Clairmont sorrise.

«Se l’inverno si mantiene così rigido come si è annunziato, il Champlain resterà in queste condizioni a lungo… forse per mesi interi.»

«Ah, diavolo.»

«Il congelamento, che già si era verificato nella parte più settentrionale del lago.lago, avanzava a grado a grado: la notte scorsa ha guadagnato tutto questo lato, domani notte si estenderà al rimanente del Champlain.»

«E voi, barone, sapevate ciò?»

«Almeno me lo aspettavo.»

«Cospetto, la situazione è inquietante… Io devo ad ogni costo far pervenire al generale Washington notizie sicure sulla sorte del Ticonderoga e della sua guarnigione, e andare incontro alla flotta americana per prenderne il comando e guidarla contro le navi di Burgoyne nel Champlain.»

«Troveremo il rimedio a tutto.»

«Ho fede in voi.»

«Intanto vedete che la corvetta non ha sofferto danni.»

«Anzi il ghiaccio, sollevandola nel suo alveo, l’ha quasi disincagliata.»

Frattanto Testa di Pietra aveva compiuto la sua visita alla nave e si stropicciava le mani con aria soddisfatta.

«Comandante,» disse a Sir William, «ho veduto anche il pilota chiuso in una cabina. Ha una faccia da traditore che strappa i ceffoni dalle mani. Fatelo impiccare addirittura.»

«Tu corri troppo, mastro.»

«Bah, come volete… Ma ho paura che egli ci sia funesto.»

«Lo farò sorvegliare.»

«E attentamente… Già, una volta ritornato dalla ricerca di Riberac vengo io qui, a installarmi a bordo, poiché io sto bene soltanto fra pezzi d’artiglieria, alberi di trinchetto e di maestra, sartie, paterazzi, odor di catrame e di polvere; e quando ci sarò io… vedremo.»

Ritornarono al castello.

Come era stato convenuto, Testa di Pietra e Jor accompagnati da sei marinai della corvetta, che aveva un equipaggio raddoppiato, e dai Mandani di scorta, tutti armati ottimamente, s’avviarono all’accampamento indiano, donde poi mossero verso l’interno del territorio per cercare le tracce del trafficante scomparso.

19 – Una visita importuna

Tre giorni passarono senza che al castello di Clairmont giungessero notizie di Testa di Pietra e dei suoi compagni.

Parimenti, nulla si sapeva più degl’inglesi e dei loro alleati indiani, e continuavano a mancare sempre notizie sicure intorno alle guarnigioni dei forti che i repubblicani occupavano nel Canada, e specialmente di quella della fortezza Ticonderoga.

Al quarto giorno della sua permanenza al castello, Sir William Mac-Lellan, continuando il lago ad essere gelato, risolse di tentare di raggiungere Ticonderoga a piedi, costeggiando il Champlain.

Già erano stati fatti gli ultimi preparativi per il viaggio e il baronetto stava per abbracciare la sua Mary tutta piangente e i suoi ospiti amabili, quando si vide avanzare verso il castello una truppa di pellerossa, condotte da un uomo che pareva europeo. Scorgendo quella gente, il barone di Clairmont, gettò un’esclamazione di gioia gridando:

«È Enrico… mio figlio maggiore che alfine ritorna! Vi confesso, ora che lo posso, ch’io nutrivo serie inquietudini per il prolungarsi della sua assenza, e che spesso il mio sorriso rassicurante celava le lacrime e le ansie crudeli del mio cuore di padre. Da un buon mese Enrico era partito verso il nord, con una tribù di Algonchini a noi fedeli, per la caccia delle pellicce. Attendetelo, Sir William, non è improbabile ch’egli possa darvi preziose informazioni.»

«Lo voglia il cielo.»

Giunta la truppa dei cacciatori al castello, col carico delle prede fatte, il maggiore Clairmont volò a buttarsi fra le braccia dei suoi cari, indi s’inchinò dinanzi a Mary Mac-Lellan e a suo marito, mentre suo padre lo informava della qualità degli ospiti e della causa per la quale erano in casa sua.

Quando seppe la missione che Sir William doveva compiere, Enrico di Clairrnont corrugò la fronte e scosse gravemente il capo.

«Temo, sir, che la vostra impresa sia divenuta in gran parte inutile,» disse quindi. «In ogni modo potete differire il vostro viaggio, poiché io sono in grado di fornirvi notizie ineccepibili intorno a quanto v’interessa… notizie, ahimè, che certamente vi addoloreranno.»

«Signore, voi mi atterrite con le vostre parole.»

«Purtroppo la realtà dei fatti è più grave di esse.»

«Ma, che è accaduto, dunque?»

«Mi stupisce che la verità, dopo tanto tempo, non sia potuta giungere fino a voi… Ah, quel Burgoyne, è ben scaltro e fortunato, se è riuscito ad ottenere tale risultato dalla sua tattica rigorosa nel tagliar tutte le vie agl’informatori.»

«Spiegatevi, per carità, io sono sui carboni ardenti.»

«Siete mai stato a Ticonderoga, sir?»

«Mai.»

«Però sapete che questa fortezza si trova…»

«In cima ad una rupe elevata, cinta da tre parti dalle acque, delle quali è difficilissimo approfittare per uno sbarco, a causa della rocce scoscese e dirupate, mentre il quarto lato è difeso naturalmente da un profondo pantano.»

«È verissimo.»

«La rupe si trova sulla sponda occidentale del canale attraverso cui le acque del Champlain entrano nel lago Giorgio. Sulla riva opposta sorge un monte fortificato…»

«Il monte Indipendenza.»

«Appunto, il quale comunica con Ticonderoga per mezzo di un ponte. Tremila uomini al comando dei generali Saint-Clair e Arnold dovrebbero tenere questi luoghi; altri tremila, con il generale Schyler, dovrebbero essere alloggiati presso il forte Edoardo.»

«Tutto ciò è perfettamente esatto.»

«Ma io ignoro…»

«Quanto è avvenuto da un po’pò di tempo, è vero? Ve lo dirò io in poche parole. Appena entrato nel Canada, il generale Burgoyne comprese la necessità di concentrare i suoi sforzi contro Ticonderoga, ch’era il principale baluardo dal quale gli americani potevano tenerlo in iscacco continuo. Però, insofferente degl’indugi di un assedio regolare, il comandante inglese, visto che i repubblicani non avevano occupato per inavvertenza o per mancanza di uomini Sugar’s-hill, un monte che domina con la sua vetta Ticonderoga, ordinò ai suoi soldati di piantar lassù una batteria per fulminare la fortezza americana dall’alto in basso. Gl’inglesi, a prezzo di enormi fatiche, riuscirono a scalare il monte, a spianare la cima e a piazzarvi sei grossi cannoni, con i quali si diedero a fulminare Ticonderoga. Oh, oh, sir, che avete?… Voi siete veramente pallidissimo.»

«Ah, mio Dio, quale sciagura…» esclamò il baronetto Mac-Lellan percotendosi con il palmo della mano la fronte. «Una delle lettere che Testa di Pietra doveva consegnare ai comandanti di Ticonderoga, quella di Washington, conteneva appunto l’ordine perentorio di occupare Sugar’s-hill prima che gl’inglesi pensassero a farlo. Burgoyne ci ha prevenuti, per somma sciagura, e adesso comprendo come tutto sia perduto.»

«Ahimè, è così. Saint-Clair, veduta disperata la difesa, imbarcò i bagagli e le munizioni, deciso a fuggire durante una notte scura. Disgraziatamente l’incendio di una casa provocato per imprudenza illuminò a un tratto le tenebre e mostrò a Burgoyne il nemico in fuga dalla fortezza. Con pronta celerità si diede a inseguirlo. Le navi inglesi raggiunsero ben presto i battelli americani sovraccarichi e li catturarono o li distrussero, l’avanguardia di Burgoyne prese contatto con la retroguardia americana e la ruppe sanguinosamente decimandola e disperdendola. Parte dei reggimenti repubblicani posti a terra poterono rifugiarsi nel forte Anna: Saint-Clair col resto dei suoi riparò nel forte Edoardo, ove si trovava Schyler. Per buona sorte i vincitori furono arrestati nel loro cammino dalle difficoltà delle strade che i fuggiaschi avevano rotte dietro i loro passi, e anche oggi la natura del paese selvaggio, con le sue lande, i suoi boschi, le sue paludi e i suoi burroni rallentano l’avanzarsi degl’inglesi con le loro salmerie indispensabili. Però essi hanno dalla loro parte i canadesi realisti e molte tribù indiane, e ciò rende Burgoyne padrone del paese fino al punto d’impedire che un solo informatore possa giungere al dittatore Washington. Scopo del generale inglese, nell’agire così, è di attirare nel Canada piccoli rinforzi americani e distruggerli quindi con facilità.»

«È dunque necessario far pervenire al più presto a Washington notizie precise sulla situazione, per quanto disperata essa sia.»

«Vi approvo.»

«Degli avvenimenti che mi avete narrato siete ben certo?»

«Nel modo più assoluto. Ho visto con i miei occhi dei fuggiaschi di Ticonderoga e ne ho soccorsi alcuni, che poi ripararono nel forte Anna.»

Sir William si mise a meditare per brevi istanti. Poi risollevò la testa con atto risoluto.

«Andrò io stesso,» affermò.

«Per via di terra?» disse il barone di Clairmont.

«Per forza, giacché quella del lago e dei fiumi è impraticabile.»

«Ma voi, sir, non conoscete il territorio che dovete attraversare, e dopo poche miglia sarete smarrito in qualche foresta.»

«Diavolo… è vero. Bisognerà dunque trovare una guida.»

«Non sarà facile.»

Il primogenito dei Clairmont intervenne.

«Vi faccio una proposta sir, che spero accetterete, e alla quale mio padre certamente non metterà ostacoli.»

«Cioè?…»

«Di andare io stesso ad informare Washington, munito di una vostra lettera, sir.»

«Voi farete ciò?»

«Senza dubbio, e con la certezza di giungere a destinazione sano e salvo. Ho un’incontestabile pratica dei luoghi che si devono percorrere e conosco tutte le malizie indiane e le astuzie francesi per sfuggire a qualunque vigilanza inglese.»

«Vivaddio, voi siete un bravo giovane, e io parlerò con entusiasmo di voi al direttore americano.»

«Non precipitate troppo, amico mio,» osservò il signor di Clairmont gravemente. «Approvo il disegno di mio figlio Enrico, perché voglio contribuire anch’io alla libertà di questo generoso popolo che con tanta abnegazione combatte i suoi oppressori. Ma non mi nascondo i pericoli che mio figlio sta per affrontare, e le probabilità d’insuccesso che può avere. Egli vada, e sia fortunato: voi dategli una semplice lettera di presentazione, perché trovi fede nel generale Washington; io, per viatico, gli do la mia paterna benedizione.»

E il barone di Clairmont pose la destra sul capo scoperto di Enrico e lo baciò in fronte.

In quel momento, William trasalì, e d’un balzo si slanciò alla porta della stanza dove essi si trovavano. Aprì con violenza e guardò fuori.

Scorse un uomo che con il naso ai vetri di una finestra pareva esclusivamente occupato ad osservare la distesa del lago ghiacciato, oltre la rupe.

«Che fate così, Oxford?»

Il segretario del marchese di Halifax, poiché era proprio lui, si scosse e si inchinò con prontezza.

«Sir William… ai vostri ordini,» disse in tono umile.

«Voi ascoltate i nostri discorsi.»

«Sir, io non merito l’ingiuria di un simile sospetto.»

«Vorrei ben persuadermene.»

«So che voi, sir, non credete alla mia fedele devozione ai miei nuovi amici… me ne sono già accorto.»

«È che il mio signor fratello, marchese di Halifax. sa scegliere con troppa abilità i suoi complici…»

«Ma con altrettanta stoltezza poi egli li abbandona nei momenti più critici, e allora, da amici devoti, gli si mutano in fieri nemici.»

L’accento di Oxford era sincero e fermo.

Il baronetto Mac-Lellan dovette accorgersene e allora si pentì un po’pò di essersi lasciato trasportare dalle sue pessimistiche prevenzioni.

«Voi mi avete chiesto or ora. Sir William, che cosa facevo? Ebbene, osservavo quella macchia laggiù, sulla superficie del Champlam, che si muove ingrossando, la qual cosa significa ch’essa si avanza versa il castello.»

«Una macchia nera?…»

«Sì, sir.»

«Vediamo.»

Il baronetto s’avvicinò a sua volta alla finestra e guardò.

«Oh, oh,» esclamò poi, «quella è una comitiva di persone… Chi possono essere?… Forse Testa di Pietra che ritorna?… Ma no… i miei occhi, troppo avvezzi a vedere lontano sul mare, non s’ingannano certo. Si tratta di europei, cacciatori probabilmente, o forse anche… Ah, cospetto… bisogna avvertire il barone.»

Il capitano della Tuonante rientrò in fretta nella stanza ove aveva lasciato i due Clairmont.

Rimasto solo, Oxford fece un gesto d’ira e di minaccia e borbottò alcune parole che nessuno udì, ma che certo dovevano contenere un grave significato.

Poco dopo un servo algonchino venne a chiedere del barone.

«Che c’è?» chiese questi, appena l’indiano gli fu dinanzi.

«Uomini bianchi che marciano verso il castello.»

«Ah, quanti?»

«Una ventina.»

«Naufraghi o cacciatori?»

«Sembrano ufficiali e soldati inglesi.»

«Corna di Satana!…»

A questa imprecazione, la quale era l’unica che il barone si permettesse nei momenti di maggior malcontento, l’algonchino s’inchinò e si avviò per uscire.

«Fermati!…» gli gridò il padrone. «Dove corri?»

«A far prendere a fucilate gl’inglesi.»

«Sei pazzo?»

«No, ma io so che mio buon padrone dice <Corna di Satana!> quando si deve dare battaglia ad un nemico importuno, quindi…»

«Quindi tu, mio bravo algonchino, non farai nulla di tutto questo, ma andrai a sentire quel che vogliono gli sconosciuti, se si presentano al castello, e verrai ad informarmi. Siamo intesi?»

Il pellerossa s’inchinò profondamente ed uscì.

«Ebbene?» chiesero ad un tempo Enrico e Sir William al barone di Clairmont.

«Sono inglesi,» questi rispose. «Sapremo fra poco che cosa vogliono.»

«Uhm!»

«Non è certo in quel numero che penseranno ad impadronirsi del mio castello…»

Il corsaro si era fatto visibilmente inquieto. Passeggiava in fretta per la camera, avvinghiandosi le dita delle mani dietro la schiena e borbottando spesso dei numerosi:

«Per San Patrick!»

Un altro intervallo di tempo trascorse.

Ad un tratto l’algonchino di prima ricomparve, reggendo un vassoio sul quale spiccava un pezzo di carta rettangolare.

«Che c’è, dunque?» chiese il barone.

«Hugh!…» rispose l’indiano inchinandosi e offrendo la guantiera.

«Una carta da visita: vediamo.»

Il signor di Clairmont prese il biglietto e vi gettò lo sguardo.

Una vivace esclamazione di sorpresa gli sfuggì tosto. Poi guardò fisso Mac-Lellan che si era fermato ad attendere.

«Sir William…» disse.

«Signor barone?…»

«Gl’inglesi, ufficiali e soldati, chiedono ospitalità qui.»

«Ah.»

«Non è questo però che mi stupisce.»

«Che cosa, allora…»

«Una strana coincidenza, forse fatale…»

«Non vi comprendo, signor barone…»

«Sapete chi è il capo di quegli uomini?»

«In verità, non vedo come lo potrei conoscere…»

«A voi, leggete.»

E il barone porse la carta da visita al corsaro della Tuonante.

Questi lesse e fece udire una specie di ruggito soffocato.

Lo scritto diceva:

Il marchese d’Halifax chiede al proprietario di questo castello, in nome di Sua Maestà il Re d’Inghilterra sovrano e padrone di questo territorio, ospitalità per sé e per gli uomini, ufficiali e.soldatie soldati dell’esercito inglese, che lo accompagnano.

«Mio fratello… il mio peggior nemico qui, sotto lo stesso tetto che ospita me e la mia Mary!…» disse Mac-Lellan tutto sconvolto. «Ma è dunque il destino che lo vuole?…»

«Forse,» rispose come un’eco il barone, al quale Sir William aveva narrato le ragioni dell’odio esistente fra lui e il marchese di Halifax.

«Che pensate di fare?» chiese il corsaro, dopo aver superata la sua emozione e ripresa la sua calma.

«Ricevere quei signori.»

«È giusto; voi non potreste respingerli senza compiere un atto di aperta ostilità contro l’Inghilterra… un atto che in questo momento sarebbe, oltre che dannoso, inutile.»

«Ho piacere che mi approviate.»

«Ma noi?… Pensate a quanto accadrà, appena il marchese si sarà accorto della mia presenza, qui, insieme con Mary Wentwort, ora mia moglie, e da lui amata un tempo e, forse amata ancora. Egli conosce tutti… Piccolo Flocco, i due assiani, e poi… Oxford, il suo segretario, di cui io non oso ancora fidarmi…»

«È vero, è vero…»

«Urge un pronto rimedio.»

«Sì.»

«Abbandoneremo il castello in segreto e ci rifugeremo sulla corvetta.»

«Dove non tarderete ad essere scoperti… Occorre qualche altro stratagemma… Aspettate; ho trovato. Avete fiducia in me?»

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
320 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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