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Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 10

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«E dove volete passare la notte, messere il Principe? Che San Gennaro vi aiuti, sentite che grandine è questa? Venite, venite.»

Manfredi senza aggiungere parola gli tenne dietro: allorchè fu per passare la porta della casa prese pel braccio Corrado Capece per evitare di cadere.

«Principe, male v’incolse?»

«Nulla, Corrado, ho posto il piede in fallo.» E si avanzò.

Riccardo frugando così al buio rinvenne alcuni fasci di legna, li dispose sul focolare, trasse dalle tasche il focile, e suscitò un bel fuoco.

«Questa è fiamma veramente reale,» disse sorridendo Manfredi.

«Oh! ne abbiamo fatti di belli di questi fuochi, messere il Principe… quelli sì che erano tempi!… figuratevi, l’ultima volta ch’ebbi l’onore di servire la Maestà dello Imperatore vostro padre, lo vidi in questa medesima stanza… mi sembra proprio di averlo innanzi gli occhi… lì a canto a voi…»

«E’ parvi da durare questo tempo?» interruppe Manfredi.

«Messer sì,» rispondeva Riccardo. «Sicchè, com’io vi diceva, stava in questa stanza, e vi potrebbe essere anche adesso… e perchè no? Egli morì giovane, mi ricordo, giungeva appena a cinquantasei anni… e vivo io grazie al cielo, che ne ho sessanta, e sono un vassallo, poteva bene viver egli che ne aveva cinquantasei, ed era il più potente signore di tutta Cristianità; ma la fama mormorò allora che fosse avvelenato… Oh! quando poi c’entra il veleno, si muore anche dell’età del Re Corrado…»

«Santa Vergine! questo è un fulmine,» disse Manfredi segnandosi.

«Messer sì…» soggiunse Riccardo. «Raccontano molti, e l’ho inteso sovente dalla propria bocca di mio padre, buona memoria, che rammentando i morti dopo la mezza notte sogliono talvolta apparire… ma io non ho paura… io… E perchè dovrei averne?… per quanto mi venne dato, l’ho servito fedelmente sempre, in vita o in morte. Quantunque comprendessi benissimo, che la preghiera di un pover’uomo come sono io possa poco o nulla giovare alla grande anima di uno Imperatore, pure per quello che può valere le ho detto, e le dico la mia orazioncella. Insemina, se ora comparisse in mezzo di noi, io non avrei paura… no, non avrei paura…» e tutto timoroso si guardava d’intorno. «E voi, messere il Principe?»

Manfredi non potendo più sopportare quelle parole. si fece alla porta, guardò il cielo, poi chiamò i compagni e disse: «Mi pare che si metta al buono.»

«Certamente si mette al buono;» rispose Riccardo «tra mezz’ora non cade più pioggia… ma vedete come è mutato il vento!… come tirano di lungo que’ nuvoloni neri neri! – La tempesta va verso Napoli… Pazienza! là si trovano tanti buoni Santi, che ne avranno cura; ma qui non c’è prete che valga a esorcizzarla. Guardate in là, messere il Principe, come fa chiaro. Oh! ne abbiamo avute ben altre di queste nottate con l’augusta Serenità di vostro…»

«E sarebbe bene, Riccardo, che voi andaste con un po’ di strame, se ne trovate, altrimenti col mio mantello, ad asciugare i cavalli.»

«Parvi, messere il Principe? il vostro mantello del più bel verde cambraio, che io abbia visto al mondo! il mio fa più al caso di quelle povere bestie… eh! hanno fatto un bel fare… e poi il mio mantello è più asciutto del vostro, farò con questo.» E così dicendo Riccardo andò per quello che gli aveva comandato il suo signore.

Manfredi facendosi presso ai Capece, che se ne stavano ristretti intorno al fuoco: «Prodi cavalieri, e dilettissimi amici miei,» disse loro «io vengo a togliervi fino il piccolo conforto di asciugarvi le vesti: vedete che si guadagna a seguitare la fortuna del profugo! Tra poco torneremo a cavallo.»

«Principe, noi ci professiamo pronti a lasciare la vita per voi… le spose e i figli abbiamo di già lasciati.»

«Io per me spero che il Cielo mi sarà secondo, se non altro, per potere ristorare dei sofferti danni voi, generosi e fedeli amici miei.»

«Servire un cavaliere cortese come voi siete è di per sè solo una grande ricompensa. I nostri nomi, Principe, passeranno ormai nella memoria dei posteri uniti con indissolubile alleanza; saranno le vostre azioni le lodi nostre, e le nostre opere le vostre lodi: una gloria perenne ricadrà su noi tutti, nè i Trovatori canteranno di Manfredi senza che il nome dei Capece si trovi in qualche stanza della loro ballata.»

Manfredi gli abbracciò, e continuò seco loro a conversare, finchè udirono venire Riccardo che cantava:

«In sella, in sella, cavalieri armati,

Che l’araldo dell’arme ha dato il segno;

Stanno le vostre dame agli steccati,

Un scudo d’oro di vittoria è il pegno.»

Allora si levarono tutti: il cielo appariva in parte sereno; salirono i destrieri, e si riposero in via.

Sorgeva un bel giorno: gran parte dei Saracini stava raccolta sopra le mura di Lucera a cantare il Salè della Nuba matutina, allorquando videro di lontano venire per la pianura quattro cavalieri armati di tutte arme. Giunti che furono a tiro di balestra, tre si rimasero, ed uno si avanzò a testa scoperta in segno di sicurezza, alzando la mano senza guanto per denotare la pace.

«Pel capo di mio padre, parmi Manfredi!» gridò un Saracino.

«È la morte che ti percuota!» rispose un altro. «Chi sa in qual parte si trova adesso il nostro dolce signore!»

«Possano dirmi sette volte cane, e maladetta la mia generazione, se quegli non è il figlio di Federigo!» rispose un terzo.

«Perchè hai bevuto il sangue della vite, Hussein? Non lo aveva detto il Profeta, che il vino ammala il cuore, e ci fa simili allo stolto?»

«Baba Musah, perchè mi dici ebbro? E perchè accusi dei danni della tua vecchiezza il compagno che vede meglio di te? Questo t’insegna la sapienza degli anni? Guarda bene: non distingui l’aquila d’argento sul cimiero appeso all’arcione?»

«Arsullah! Sì certo, è un’aquila quella… Arsullah! È Manfredi davvero.»

«Manfredi, Manfredi,» suonarono a un tratto le mura: «Manfredi, Manfredi,» risposero i Saracini rimasti nei quartieri, e prendevano l’arme, e accorrevano, «Ecco il diletto signore, ecco il nostro Principe, che viene a soddisfare i nostri desiderii, e a riposarsi su la nostra lealtà: ch’egli entri, ch’egli entri prima che il Governatore se ne accorga.» gridavano tutti.

Manfredi era giunto sotto le mura: un Saracino gli accennò un canale pel quale scolava un rigagnolo dalla città; il Principe si getta da cavallo, e si appresta a cacciarsi giù pel condotto: – nol soffrono gli spettatori, si fanno alle porte, le scuotono, le percuotono; – gli arpioni agli urti continuati lasciano la presa, e le imposte traendosi dietro una spaventosa rovina cadono a terra. Marchisio, che già armato muoveva per contrastare Manfredi, vedendolo avanzarsi tutto minaccioso, mutato consiglio, gli s’inginocchia, e gli fa omaggio come a suo signore sovrano.

L’acquisto di Lucera mutò i destini di Manfredi; vi trovava infiniti tesori, i quali, diffusi con accortezza, gli produssero in breve un forte partito, perocchè in ogni tempo il danaro sia stato la prima provvisione per la guerra, e in ogni tempo si trovassero uomini i quali posero l’anima allo incanto pel maggiore e migliore offerente. Ora il Pontefice spediva a tutta fretta un esercito sotto i comandi del Cardinale di Santo Eustachio per opprimere Manfredi sul principio di quelle grandezze; gli teneva dietro Bertoldo. Manfredi si mostrava apparecchiato a combatterli. Il Marchese di Hochenberg, seguendo sempre quella sua doppia e finta natura, mandò un messo fidato a tenere segrete pratiche d’accordo col Principe di Taranto. Rispose questi che volentieri lo raccoglierebbe nella sua alleanza; averlo sempre tenuto per caro fratello, ed amico; conoscere egli di troppo la prepotenza dei casi per volere far carico a Bertoldo della sua passata condotta. Il Marchese non andò più oltre, e stimò avere con molta accortezza provveduto alle cose sue, perchè, se vinceva Manfredi, ei gli era amico segreto: se Innocenzio, ei gli era amico manifesto. Intanto supponendo il nemico fidente di quelle dimostrazioni, mandò molte colonne del suo esercito sotto il comando del suo fratello Oddo a prendere posizione sul contado di Lucera; il nemico però stava all’erta, e avuta notizia del fatto si pone arditamente in campagna, rompe Oddo, e lo incalza fino a Canosa; poi lasciatolo così malconcio in parte che non più possa riunirsi al grosso dell’armata, si fa contro Bertoldo, il quale, dopo due ore di ostinato combattimento costretto a cedere, fugge più che di passo verso Napoli col Cardinale Legato.

Questo Capitolo ormai troppo voluminoso ci costringe a tralasciare il racconto di una serie di piccole perfidie, e di piccoli fatti d’arme, quasi tutti tra loro somiglievoli, pei quali Manfredi, sotto il Pontificato di Alessandro IV, vinti gli esterni e gl’interni nemici, riconquistò tutto il Regno di Napoli. Più grave caso, e degno di memoria è quello pel quale Manfredi di Vicario giunse a farsi nominare Sovrano del Regno di Napoli; e qui lasciato Niccolò Iamsilla scrittore ghibellino, mi fa mestieri appigliarmi a Giovanni Villani di fazione guelfa. Narra dunque costui, «che Manfredi, vedendosi in istato ed in gloria, si pensò essere Re di Sicilia e di Puglia; e perchè ciò gli venisse fatto, si recò ad amici con doni e promesse i maggiori Baroni del Regno; e sapendo come del Re Corrado suo fratello era rimasto un figliuolo chiamato Corradino, il quale per diritta ragione doveva essere erede del Reame di Sicilia e di Puglia, pensò una frodolenta malizia per esser Re. Adunati tutti i Baroni, propose loro cosa si dovesse fare della signoria, perocchè egli avesse novelle come il suo nipote Corradino fosse gravemente ammalato, e da non potere mai reggere il peso di un Regno. I Baroni consigliarono che mandasse suoi ambasciatori in Lamagna per sapere dello stato di Corradino; e se fosse morto, od infermo, fino d’allora protestavano volere Manfredi per Re loro. A ciò si accordò Manfredi come colui che aveva tutto fintamente ordinato, e mandò ambasciatori a Corradino e alla madre con ricchi presenti e grandi profferte; i quali giunti che furono in Isvevia trovarono che la madre del garzone, Elisabetta di Baviera, come donna di gran cuore ed avveduta, gli facea buona guardia, tenendolo confuso con diversi fanciulli di sua età vestiti tutti ad un modo; e detti ambasciatori domandando di Corradino, Elisabetta, temendo di Manfredi, mostrò loro in iscambio un altro di detti fanciulli dicendo: questi è desso. Gli Ambasciatori gli fecero grande riverenza, e presentandogli doni, tra i quali confetti avvelenati, il garzone ne prese, e incontanente morì; onde credendo aver morto Corradino si partirono subito di Lamagna, e giunti a Vinegia fecero fare alla loro galera vele di panno nero, e tutti gli arredi neri, ed eglino medesimi si vestirono a bruno; ed arrivati in Puglia, come gli aveva ammaestrati Manfredi, fecero sembiante di gran dolore, e riferirono la morte di Corradino. Manfredi finse gran pianto, e a grido dei suoi amici, e di tutto il popolo, fu eletto Re di Sicilia, e a Monreale si fece coronare, gli anni di Cristo 1238.» Elisabetta di queste cose informata, mandò ambasciatori a Manfredi per fargli sapere che Corradino viveva, e che il suo retaggio era stato usurpato: rispondeva questi dicendo: «dal trono non potersi scendere se non che morti: stesse sicura, ch’ei lo conserverebbe per Corradino, ed anzi gli mandasse il fanciullo, ch’ei lo avrebbe nelle paterne virtù ammaestrato.»

Gl’istrumenti eletti dal Cielo per operare la rovina di Manfredi furono Urbano IV, nativo di Troyes, Patriarca di Gerusalemme, successo nel Pontificato ad Alessandro, e Clemente IV Cardinale di Narbona eletto Papa nel mese di febbraio 1261. Il primo di questi Pontefici avendo mandato in Francia Maestro Aliberto suo Notaro per offerire la corona a San Luigi, n’ebbe in risposta che alla conclusione del trattato si opponeva la investitura per lo addietro fatta a Edmondo d’Inghilterra; ond’egli spedì a Londra Bartolommeo Pignattelli Arcivescovo di Cosenza per farla renunziare ad Enrico III. Il Re, impegnato in guerra pericolosa contro i suoi Baroni, lusingato dall’Arcivescovo con la speranza di soccorsi, che non ebbe mai, cesse alla sua volontà. Allora il Pignattelli tornò in Francia, e col beneplacito di San Luigi propose la investitura del Regno di Napoli a Carlo di Angiò, meno la Terra di Lavoro, le Isole adiacenti, e la vallata di Gaudo, che la Santa Sede voleva ritenersi. Carlo rifiutando la proposta dichiara che non sarebbe per accettare giammai il Regno così smozzicato: darebbe alla Chiesa, come aveano fatto i Normanni, la città e il contado di Benevento, non meno che ottomila once d’oro per anno. Clemente IV assunto nuovamente alla Cattedra di San Pietro, mostrandosi dapprima esitante, piega alle pretensioni di Carlo, e rimanda in Francia l’Arcivescovo di Cosenza con lettere pontificali a Simone Cardinale di Santa Cecilia perchè congiuntamente sollecitino la esecuzione della impresa, e confortino San Luigi a sovvenirla co’ suoi sussidii. I fatti che avvennero dopo appartengono all’epoca che deve percorrere quest’opera.

CAPITOLO NONO. IL PRIGIONIERO

Oh! perchè almeno

Lungi da lui non muoio! Orrendo, è vero

Gli giungeria l’annunzio; ma varcata

L’ora solenne del dolor saria;

E adesso innanzi ella ci sta: bisogna

Gustarla a sorsi, e insieme.

Conte Di Carmagnola.

Erano giunti a piè della scala. Il corridore appariva in parte illuminato da luce lontana. Si appressavano: giunsero ad un vestibolo separato dalla prigione con ispessi cancelli. L’anima e gli occhi di Rogiero percorsero in un baleno la scena che si offeriva. Vide un uomo quasi sepolto in una sedia: le sue membra non erano del tutto manifeste, imperciocchè fosse vôlto altrove il raggio della lampada; pure sembrava pallido e vecchio; i capelli aveva tutti bianchi, teneva gli occhi chiusi, pareva volesse assuefarli a morire. – Lì davanti stava un tavolino; sovr’esso una tazza e un Crocifisso. A canto della sedia per terra giaceva una lunga bacchetta tutta intaccata, e le tacche, benchè la più parte regolari, ad ora ad ora più profonde. Cotesta fu opera di dolore. – Allorchè quell›infelice chiusero là dentro, lo prese vaghezza di annoverare i giorni della sua prigionia, onde conoscere la durata di un tempo destinato a soffrire, e deliziarsi nella speranza che questo tempo andava a decrescere: forse ancora fidente di giorni felici, stimò doverne ricavare argomento di gioia, qualora le future condizioni potesse paragonare con le presenti. Adesso cotesta opera giaceva in terra negletta. – La speranza, che siede ultima al capezzale del moribondo, e si mostra ai suoi occhi, quando anche velati dalla nebbia della morte non giungono più a discernere le care sembianze dei parenti e degli amici… la stessa speranza aveva abbandonato quel cuore. Quando gli anni accumulandosegli sopra la testa mutarono in bianchi i suoi biondi capelli, non più l›anima e le carni gli tremarono al suono che faceva la porta volgendosi sopra i cardini, nè ad ogni tocco sul serrame che la sbarrava stimò giunta la mano pietosa che doveva ricondurlo a godere della faccia del cielo. – Disperato gittò via cotesto istrumento, che insegnandogli a distinguere lo affanno glielo rendeva più insopportabile e più lungo; – amò considerarlo come una gran giornata di travaglio, di cui la notte doveva trovare nella morte. – E di vero la luce non iscompartiva i suoi giorni. Dal punto in ch›ei fu posto in carcere non aveva più veduto l›aspetto dell›orizzonte, nè pure dalle inferriate; – e poichè il suo giorno era tenebra, doveva immaginarsi la sua morte nel nulla. – Divenuto affatto insensibile, stette come cosa inanimata ad aspettare il momento dall›ordine delle cose destinato alla sua estinzione. Almeno gli fosse rimasto il coraggio di porre fine a tanto compassionevole esistenza! Questo pensiero, che vuole per la sua esecuzione tutte le potenze dell›anima, gli sorse in mente, allorchè avvilito dalla sventura ricercò invano nelle passioni dei tempi trascorsi un avanzo, che valesse a restituire le membra agli elementi, variando forma alla sua materia. Non sospiro, non voce lamentosa gli usciva dai labbri… quello che dal profondo dell›amarezza, o dal furore dell›ira potea dirsi, aveva detto miliardi di volte; – gli rimaneva il silenzio, ed egli era muto come un sepolcro. Gli anni lo avevano affatto cancellato dalla rimembranza degli uomini. – Per lui niun gemito, nessuna parola di amore; e se talora il nome si affacciava al pensiero dell›antico servitore, che seduto a canto al fuoco narrava le glorie della casa di Svevia ai valletti e all›altra gente della famiglia, si guardava bene di chiamarlo sul labbro, perchè ricordava un colpevole di tal delitto, che atterrisce lo stesso Lucifero; o se pure ve lo chiamava, lo profferiva in basso sussurro… alla sfuggita… come quello di un dannato. Per lui vivo non si aveva nè pure quello scarso affetto che si conserva pei morti.

Distese a gran fatica la destra; – ella tremava paralitica: già era presso a sovrapporla al tavolino, quando tornò a penzolargli: – soprastava alquanto tempo… poi la rimuoveva… brancolando strinse il Crocifisso, e se lo recò alla bocca in atto di bere; non sentendo il refrigerio dell›umore, aperse spaventato gli occhi, e vista la immagine del Redentore la rimise con impazienza su la tavola mormorando tra i denti: «O Cristo, io ardo di sete!» Ghermiva la tazza, e bevendo bramoso lasciava gocciare giù pel mento e pel petto l›acqua, nè se ne mostrava infastidito: – estinta la sete, dette un gemito, e ricadde immobile nel primiero torpore. – Di uomo ormai non gli rimaneva che la parte schifosa dei bisogni!

Vide Rogiero questo spettacolo di avvilimento e di miseria, e soprappose mano a mano su gli occhi, stimando insufficiente a sfuggirlo la sola pelle destinata a velarli. – Si appoggiò ad una colonna; e quando volle ordinare che schiudessero il cancello, la sua bocca non potè esprimere nessuna parola: l›atto della mano gli valse per dimostrare la sua volontà.

Si schiudeva il cancello. – Il vecchio sentì percuotersi le ginocchia, stese la mano per conoscere che fosse; le sue dita s›incontrarono in una lunga capellatura. «Parmi la testa di un uomo,» disse, e tornò nella consueta sua inerzia… Ma la sua mano non cadde a penzolare di nuovo, e la sentì costretta a rimanersi in un luogo, scaldare, – bagnare: – fossero lagrime? Porse l›orecchio, e parvegli sentire cosa che da anni e anni non aveva udito più mai, – il singulto del pianto.

La fiamma dello spirito era spenta, pure egli non era divenuto affatto ghiacciato; un leggerissimo colore di rosa pallida gli ricorse su per le guance, e le pupille apparvero per un momento meno appannate di prima.

«Sono lagrime queste?» diceva affannoso. «Io ho consumato da gran tempo le mie. Le ho sparse d›ira, di amore, di tenerezza, di rabbia. – Ora se il Cielo mi ridonasse le lagrime, vorrei spargerle sempre di pietà, perchè il pianto più accetto al Confortatore degli sventurati è quello della pietà, e soave…» «Non ritirate la mano dal mio capo… non vogliate lasciarmi sul cammino della vita senza la vostra benedizione!» soffocato dai singulti diceva Rogiero.

Enrico non rispose nulla. Rogiero alzò il volto, e lo vide immobile, come se non avesse inteso le sue parole; gli scosse leggermente la mano, e replicò: «Benedizione! benedizione!»

«Benedizione! benedizione!» rispose Enrico come se fosse stato l›eco; e dopo: «questa è una parola di amore. Gli uomini lassù» ed alzava la mano «l›adoperano piangendo. Il passato trascorre senza séguito per la mia memoria; un alternare di caligine e di luce mi occupa l›intelletto… ma parmi… e certo anch›io fui benedetto tra gli uomini. – Io non posso ricordarmelo adesso… ma fu uno sfinimento d›immensa passione… Ah! benedisse mio padre questa testa, che aveva macchinato il disegno di levargli la vita!» E qui si dava dei pugni nella fronte, e pregava, e bestemmiava tutto doloroso.

Lo rattenne Rogiero, e gli ripeteva all›orecchio: «E questa benedizione parla per voi; sta il suo perdono al cospetto di Dio, ed ogni peccato vi è stato rimesso.»

«Valcherio! Valcherio! è una spada questa che mi cacciate tra mano? – Forse con la spada alla mano il figlio deve incontrare il seno del suo genitore? – Si addicono coleste parole ad un arcidiacono di Santa Madre Chiesa? Sono parole del demonio… via… via, in nome di Dio, non tentarmi. – Il Papa? Sei un mentitore; il Padre dei Fedeli non può volere il parricidio. – Oh! come splende bella quella corona reale… come superba… L›ami? – Se l›amo! – Ebbene, ella si conserva per te in Monza dai tuoi leali Milanesi… ma bada, fra te e quella corona si trammette una vita… si spenga. – Misericordia… misericordia, io sono contrito qui nel profondo… Che giova? un pensiero cancellerà una colpa? Ma e il suo perdono? – Che giova? L›opera del malvagio può esser mai tolta dalla generosità di un buono? Ma io ho sofferto tanto! Quanto è che soffro?» Qui si frugava d›intorno, e non potendo trovare quello che cercava, soggiunse: «Il tempo ha consumato l›arnese che mi serviva a distinguerlo, ed io vivo ancora! Pure ho detto di perdonare tutto a tutti, anche a Manfredi…»

«Manfredi!…»

«Chi ha nominato Manfredi? Tacete il suo nome per pietà… piuttosto ponetemi alla tortura… abbruciatemi gli occhi… ma non chiamate Manfredi… egli è un nome che stette lungamente nel mio cuore unito con desiderii di sangue: – ora il giorno della vendetta passò, perciò sopraggiunse quello della morte. – Chi lo avrebbe detto? Il suo sorriso era il sorriso della innocenza, la gioia pura gli scintillava dagli occhi… le parole soavi… Lo dicevano tutti il più gentile damigello d›Italia: egli sospiro delle vergini, egli invidia di Trovatori e cavalieri, la gemma più bella del diadema di Federigo. – Il suo volto pareva di angiolo; il suo cuore… Ah! il suo cuore non ha paragone… il vincolo di cotesta anima a quel corpo fu colpa od errore. – Sete feroce di dominio! Manfredi, hai cinto il serto bramato? Senti, via, come pesa sopra la testa, allorchè invece di gioielli ha la maladizione di un›anima disperata, e la condanna della giustizia di Dio…»

«Oh! padre mio…» interruppe Rogiero.

«E› fu un tempo,» continuò il carcerato ponendosi la destra sul petto «fu un tempo, che a questa voce sentiva uno sgomento indefinito qui dentro, che avrei anteposto a tutte le gioie della terra. Ora non sento più nulla, nulla… – sono morto, – non ho passione, tranne per l›acqua, che spenge la sete che mi consuma la gola.»

E qui brancolava in traccia della tazza. – Rogiero balzò in piedi, la prese, gliela accostò alle labbra, e sollevatogli il capo l›aiutava a bere. Il vecchio non ripugnante, nè consenziente, seguitava l›impulso; ma quando, aperti gli sguardi, potè fissare Rogiero, gittò un debole strido, fece atto di allontanarlo da sè, e tra stupito e maravigliato esclamò: «Manfredi!»

Questa esclamazione non fu di tanto bassamente pronunziata, che non percotesse gli orecchi di coloro che erano rimasti ai cancelli: uno tra essi contorse la persona, come a cosa molesta, e mandò un cupo sospiro.

Il vecchio riprendeva a stento: «Ma lo vedi, Manfredi, dove mi ha condotto cotesta tua ambizione?… vedi lo abbisso della miseria in cui può cadere un›anima immortale; e se hai viscere di pietà, gemi… Ah! tu non puoi essere Manfredi… no… egli era di questa tua età quando cessai di vederlo. Gli anni e l›angoscia hanno prostrato il mio corpo più di quello che si doveva, ma anche i soli anni non iscorrono invano su la creatura destinata a morire. Sei forse suo figlio? Che vuoi? In te non è delitto, per te non ho mai nudrito odio, ma non posso nudrire amore; levati, e confortati: è molto tempo che ho perdonato a tuo padre, e nell›ora stessa del mio furore io non ho maledetto giammai i figli e i nipoti di coloro che mi hanno angustiato. Levati… e digli, che sia felice, e tu pure lo sii… Se la voce dell›uomo che parla dai confini della vita può ottenere grazia al vostro cospetto, – in mercede dei tanti mali patiti vi prego ad adempire questa mia volontà… seppellite le mie ossa accanto a quelle di Federigo… del padre mio… senza ornamento, se vi piace, senza corona, quantunque concederla ad un cadavere non possa tornarvi in danno… mi basta di dormirgli al fianco.»

«Ascoltatemi per amore di Cristo! queste lagrime che vi bagnano la mano sono del vostro figlio Rogiero.»

La mente di Enrico, come se avesse fatto uno sforzo a favellare da senno, ricadde sul vaneggiare, ed immaginando di tenere discorso con la sua sposa figlia di Leopoldo Arciduca di Austria detto il Glorioso, riprendeva così: «Agnesa, che ha che piange il figliuolo nostro? Consolalo, ch’egli forma la delizia della mia vita… è tanto bello quel suo riso! Com’hai tu cuore di farlo piangere? Consolalo, Agnesa, consolalo. Di qual piacere godrà Federigo, quando gli porrai su le braccia questo caro pargoletto!… E perchè non ne godrà egli? non è suo nepote? – Di chi è quel sepolcro di porfido? Veggo l’arme di Svevia… fatti in là, che Dio ti aiuti, tu mi pari la luce… Federigo I… gloria all’anima sua, gloria a colui, che morì combattendo in Terra Santa… No… no… è Federigo II… egli moriva dunque, nè al capezzale del letto si ricordò di me! Non ho più padre, e il figlio? Agnesa… dove sei ita? Agnesa… il figlio…?»

«Egli muore di affanno ai vostri piedi!»

«Egli? – Chi?…»

«Il vostro figlio.»

Enrico prese con ambedue le mani il volto di Rogiero, e lo guardò fisso fisso, e lungo tempo, poi disse:

«Certo, quel tuo parmi sembiante di un nepote di Federigo: ma se veramente tu sei il figliuol mio, a che venisti sì tardi? – Ti ho chiamato anni e anni, come in un deserto di tempo. – Io non posso lasciarti tranne un retaggio di sventura. – Ogni affetto di padre è morto nel mio cuore… il nome stesso suona per me una rimembranza di cosa lontana, obbliata, come la faccia del compagno della miseria nel giorno dell’orgoglio. Se venisti a vedere quanto sia schifoso il fine di una creatura avvilita, allontanati, te lo comando. – Se ti condusse la pietà, adoprati di uccidermi… non tremare… di uccidermi: abbi misericordia di me… Io soffro patimenti atroci in questa ora, nella quale erro sospeso tra la morte e la vita… patimenti, pei quali diventa un parricidio il rifiuto di troncare i giorni di un padre. Tu poi assicurati, nè temere che Dio ti chieda ragione della mia anima. – La prima preghiera che farò innanzi al suo trono sarà per te, che mi liberasti da tanto dolore, e gli dirò che non ti punisca, perchè fu l’amore che ti condusse la mano; che perdoni com’io ho perdonato: che se poi la Sapienza divina vuole le sue giustizie, non sopra di te si aggravi, ma sopra colui che costrinse un figlio a dare la più alta prova di affetto al suo genitore – trucidandolo.»

E abbandonato il capo sopra la spalla manca di Rogiero, singhiozzava senza pianto. Rogiero pietosamente esclamava: «Oh! questa sì ch’è ineffabile angoscia!»

«Ma se veramente sei carne della carne mia,» riprese il travagliato Enrico con impeto «se quello di cui le infantili carezze calmavano le tempeste del mio spirito feroce, salvati… i tuoi nemici sono numerosi e potenti. Non sai che ogni loro gioia sta nella tua morte, ogni loro paura nella tua vita? – Sálvati… chè essi t’inseguono con la foga dei segugi sopra la pesta del cervo.

– Ahimè! Io credeva non avere altri affanni a durare; ma essi si prolungano interminabili quanto l’eternità: non darmi amplesso, nè bacio; – il tempo che consumeresti potrebbe riuscirti esiziale; – più di questi mi giungerà caro il sapere che tu sei salvo. Là in Palestina pel sepolcro del Redentore potrai morire della morte dei valorosi. Prendi… questa reliquia; essa valga a rammentarmi qualche volta nelle tue orazioni; prega per l’uomo che soffrì tutte le amarezze che si possono sopportare in questa terra, prega per un padre colpevole e sventurato, ma allontanati, per l›amore che hai per la vita, allontanati. – Chi sa che la tua venuta qui dentro non sia tradimento? Chi sa che non vogliano farci morire insieme? Hai tu inteso muovere i ferri del cancello? È finita… è finita… hanno chiusa la porta, e per sempre… oh! gli scellerati, gl›iniqui!…»

Sorgeva in piedi; la forza che doveva mantenergli anche per qualche ora la vita parve riunirsi per consumarsi in un punto: le sue guancie si fecero vermiglie di rossore febbrile, afferrò il braccio di Rogiero, e lo spinse violentemente verso la porta; – mosse spedito il primo passo, – mutò il secondo,… al terzo Rogiero sentì abbandonarsi: il misero Enrico stramazzò bocconi sul pavimento. Il giovane si affrettava a soccorrerlo; dai cancelli le tre persone misteriose accorsero al medesimo ufficio; – lo sollevarono: – aveva la bocca e le mascelle rigate di sangue, il naso pesto, – la fronte livida, – gli occhi fuori dell›orbita; – gli posero la mano su i polsi… Lo sforzo della immaginazione in quelle membra prossime al disfacimento, e la percossa, lo avevano tolto dal numero dei viventi.

Immenso furore occupò l›anima di Rogiero: si dette per la stanza a ricercare chiamando pietosamente suo padre, e lui scongiurava a rispondergli, e a non abbandonarlo sì tosto tra le mani dei suoi nemici. Sovente prorompeva in terribili minaccie, e l›atto del corpo si univa così violento a quell›impeto, che i circostanti a mala pena lo ritenessero; – gli strascinava qua e là duramente percuotendoli tra loro. Ora la esasperazione di Rogiero giunge al sommo; lo invade irresistibile il desiderio di morte; tenta spacciarsi da coloro che lo tengono, correre contro la parete, e darvi dentro col capo: il disegno non gli viene fatto che a metà, giunge al muro, ma non può uscire dalle mani dei circostanti che fanno ogni sforzo per allontanarnelo; – l›urto della testa, benchè non sia tanto da levargli la vita, vale però a farlo cadere privo di sentimento nelle braccia di chi lo sorreggeva dintorno.

Il tempo che Rogiero doveva vegliare a guardia dei giardini del Re Manfredi era trascorso. Il maestro degli scudieri seguitato da quattro di questi s›incamminava alla gran porta del giardino per rilevare Rogiero dalla guardia, e sostituirgliene un altro: – non lo vedevano:– lo chiamavano: – nessuno rispondeva. Avesse disertato il suo Re? «Impossibile, impossibile!» disse il maestro degli scudieri, ed in questa inciampava nell›alabarda, che Rogiero in partendo aveva gittato a terra.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
740 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
Metin
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