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Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 12

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«Si temono esse le vecchie amicizie?»

«Deh via! non offendete il povero, ch’egli è il protetto del Signore; lasciatemi pel mio cammino; io pregherò quanto più posso per voi… non siete un’anima cristiana? perchè volete perder la mia che vi è sorella in Cristo?»

«Nego minorem» rispose il masnadiere. «Prima di tutto, perchè il tuo argomento camminasse, si vorrebbe dimostrare che tu ne abbi una. Ma via, poniamolo come provato: o tu l’hai buona, o tu l’hai trista; se buona, che cosa ha questa vita che ti piaccia? ella è una trama di angoscie, il mondo una fossa di fiere; nè a te solo sarebbe concesso mutare la tua specie; questa è opera divina; non ti rimane che piangerla. Godi dunque di accostarti al Principio di tutte le perfezioni, godi di andare quanto più puoi veloce a godere il retaggio della gioia che il tuo Signore ti ha promesso. Se ella è trista, lo scellerato ha stretto un contratto con la innocenza; questa gli ha venduto il delitto, quello le ha promesso il prezzo della pena, ed io me ne faccio il suo esattore.»

«E chi vi ha dato questo diritto su la mia vita?»

«La forza, fratello, la forza. E pensi tu, che quando mi avranno preso, e, secondo i costumi del paese, arso, o impiccato, o sotterrato vivo a nome delle leggi, per volere di un potente Dei gratia, con una sentenza fatta per filo e per segno in nome di Dio, amen, piena di citazioni d’Irnerio, di Bulgaro, e simili baccalari, che ci avranno proprio che fare come Pilato nel Credo, avranno in sostanza migliore diritto che questo? – La forza, fratello, è la gran madre Eva di tutti i diritti.»

E qui i masnadieri, fino a quel punto intentissimi alla disputa, gridarono a gola spiegata: «Bravo il nostro dottore! egli è un valente uomo Drengotto!»

«Oh! signore mio, voi siete troppo savio maestro di argomentazioni, perchè un povero accattone possa venire in contesa con voi, io vi scongiuro per l’anima di vostro padre, s’è morto…»

«Questo è quello che non so neppure io. Pover’uomo! E mi ricordo, che mi voleva bene, ma bene assai; gli dicevano tutti che io era il ritratto vivente di madonna Ermellina, ed egli aveva coralmente amato madonna mia madre. Fecemi apprendere gramatica, ed il maestro, che ne traeva grosso salario, gli andava susurrando alle orecchie: – il bello ingegno di quel vostro garzone, messere! E’ mi pare di vederlo Giudice della ragione civile, e chi sa? anche Governatore, e, se la fortuna lo porta, forse Gran Giustiziere, o Protonotario della corona. – Il buon uomo, pieno di questi pensieri, datimi libri, danari e palafreno, con molte lagrime, e raccomandazioni di farmi valoroso in jure, mi accomodò con certo mercadante suo amico, che partiva per Bologna, e mi mandò allo studio. Di lì a due mesi, venduti libri e palafreno, mi tornai a casa in farsetto; composi una mia novella; messere la credè, e aspettava il nuovo anno per rimandarmi a Bologna. Intanto io, se non aveva imparato lo jus, aveva imparato tra gli scolari tutti i vizii, che furono, sono, e potranno essere, e più. Aveva bisogno di danari, e questi mi forniva assai sottilmente mio padre, perchè con la vecchiezza suole venire l’avarizia: mi cadde in mente di rubarglieli; osservai dove tenesse il forziere; mi accorsi che stava riposto in una cameretta in capo della scala; mi provvidi di arnesi, ed una bella notte mi apprestai all’opera; apersi agevolmente l’uscio, e la cassa; tutto era andato a dovere, e già toccava il danaro, e già lo prendeva, e… ma ciò facendo con poco senno, e manco precauzione, lasciai andarne un pugno per terra; le monete cadute mandarono un suono, che mi abbrividì di spavento: alcune di queste ruzzolando ruzzolando trovarono l’uscio aperto, e si cacciarono giù per le scale; ogni balzo che facevano su i gradini, era per me una stoccata per mezzo del cuore: rimasi un momento incerto, come colui che si sente sconfortato dalla paura e dalla vergogna, e questo momento fu che mi perdè. Mio padre, udito il romore, amando più della vita il danaro, che egli chiamava suo secondo sangue, venne a precipizio alla mia volta: quando io volli fuggire, me lo trovai innanzi al cammino, egli mi afferrò alla gola, e stringeva di buona mano. Intanto la fante strepitava: «Aiuto! misericordia! al ladro, al ladro!» Ormai parevami vedere giungere tutto il vicinato co’ lumi, sentire i loro rimproveri, quelli del padre; un peso insopportabile di avvilimento mi si aggravava sul capo; detti in questo pensiero una scossa violenta; mio padre cadde riverso, la scala gli stava alle spalle, vi precipitò, io dietro; egli percosse su la pietra, io sopra lui; mi alzai, gli passai sopra il petto, fuggii… le mani ed il viso aveva imbrattato di sangue: sicchè vedi che amore pel padre sia stato il mio! Ma io non credei che ne dovesse uscire un tanto danno; vi giuro ch’io noi credei. Voi tutti avreste fatto lo stesso, compagni, non è egli vero? ditemi, in nome di Dio, non avreste fatto lo stesso? Qual vita, o quale affetto può avere prezzo agli occhi del ladro in paragone della cosa rapita? E poi c’entrava l’onore, perchè, se mi ricordo bene, trattandosi di cosa lontana, mi pare che io fossi in cotesti tempi onorato.»

E sì parlando rise, ma di un cotale riso sfumato che gli morì a fiore di labbro: nè i compagni applaudirono, perchè tra loro convennero che il detto non era arguto; ma in sostanza, perchè fu troppo scellerato per chiunque ha viscere di umanità. Drengotto passò due o tre volte la mano su la fronte, quasi per cacciarne, quella immagine, e quindi riprese a favellare: «Or via, pellegrino. perchè sei ostinato a non volerti persuadere che la tua morte è un bene, cosa per la quale soltanto meriteresti morire, vediamo se potrò rendertene desideroso col modo con cui intendo apprestartela. Vo’ dunque che tu sappi, che, essendo io stato a studio, amo darti una morte latina. La gloriosa Serenità dell’Imperatore Federigo, che il demonio faccia pace alle sue ossa, tra gli altri suoi ritrovati inventò la pena del propagginare, da propago propaginis, che vuol dire germoglio: questa, come vedrai, è morte curiosa, perchè si fa un buco per terra profondo quanto tu sei alto, e più; poi ti ci adattiamo capovolto, poi terra sopra: che partene? non si ha da chiamare ella questa immaginazione veramente imperiale?»

«Sì, propagginiamolo, propagginiamolo!» urlarono quei feroci, e si posero tutti di concerto a cavar terra.

«Oh! Santa Vergine, assistetemi voi!» esclamò il pellegrino smarrito dalla paura.

«Vergognati, via,» gli disse Drengotto «apparecchiati a morire di buona grazia; anzi ti godi nel piacere della vendetta: tu così propagginato germoglierai; dal seme della spia deve nascere di certo il legno della forca; e tu lusinga queste ultime ore nella speranza, che un giorno o l’altro saremo frutti del tuo albero.»

«Non mi uccidete, magnifico cavaliere, non mi uccidete, pel vostro battesimo, per la benedizione di Dio e dei Santi; tenetemi per vostro fante; io so come si governa un cavallo, avrò amore ai vostri, e a voi; vi servirò fedelmente. Oh! liberatemi, signore, da questo affanno; la morte è troppo grave dolore.» E intanto piangeva e singhiozzava interrotto.

«Chi ti ha detto che sia un dolore? Tu non sei mai morto per saperlo; un’altra volta potrò crederti, ma per questa non posso darti fede.»

«Oh! sì, ch’ella è dolorosa; vedete come tremo al solo sentire nominarla? e voi pure tremereste se vi foste vicino: perchè avremmo noi questo istinto di vita, se la morte non fosse angosciosa?» E qui tornava a singhiozzare e a pregare con disperate parole.

«Deh! non piangere, fratello; tu mi muovi proprio a compassione: vedi, anche Federigo il glorioso Imperatore, ch’era molto maggiore uomo che non sei tu, è morto; anche Innocenzio, il sapiente Pontefice; ed io, io pure, nato di messer Tafo di Andreuccio, che teneva banco di cambio nella città di Napoli, e di madonna Ermellina di maestro Gentile; io pure, che ho appreso lo jus civile, e la ragione canonica, nello Studio di Bologna, bello, giovane e forte, sono destinato a morire. Nasciamo tutti con questo patto; ella è condizione sine qua non: l’eternità ci concede alcuni anni di vita: non piangere sopra la tua sventura; o piangi, e piangerò teco, su la nostra schiatta infelice. – Avete lesta la fossa?»

Il pellegrino, che dal suono pietoso col quale il masnadiere aveva proferito il precedente discorso, si era alquanto rassicurato, non è da dirsi qual rimanesse quando ne intese la chiusa; e molto meno è da dirsi, quando sentì ripetere attorno: «È lesta, è lesta!»

I masnadieri gli si fecero addosso; egli provò di schermirsi, menava calci, mordeva chiunque gli si accostava: preso, più di una volta, uscì loro di mano; i muscoli del suo volto si agitavano convulsi; urlava da spiritato, volgeva qua e là velocemente gli sguardi atterriti, faceva gli sforzi della disperazione: alfine giunsero a tenerlo, lo capivoltarono; i suoi stridi divennero, se non più forti, più feroci: lo accostarono alla fossa.

«O gran madre di Dio, aiutatemi voi!» diceva per via con ammirabile celerità. «San Germano! Santo Ermo! San Filippello d’Argiro! Angeli ed Arcangeli, abbiate pietà dell’anima mia! Santi martiri e confessori…»

«Manco male, via,» interruppe Drengotto «se non va a morte persuaso, almeno ci va pentito: sentite come canta le litanie dei Santi!»

«Ben detto! ben detto!» con un tumulto di risa esclamarono quegli empii, e già erano giunti alla fossa. il male arrivato faceva invano incredibili sforzi: ormai vi avevano introdotto il capo, ogni speranza sembrava perduta. Allo improvviso si fanno sentire tre suoni di corno; i masnadieri tutti spaventati lo lasciano cadere, e, senza punto badare a ciò che fosse per succedere di lui, tolte ognuno le sue armi, sotto gli ordini di Drengotto si dispongono in atto di ricevere qualche gran personaggio. Si volgevano tutti ora qua ora là, incerti da dove sarebbe per comparire costui; imperciocchè la selva sorgesse folta dintorno, e il ronzío delle fronde ne celasse il suono delle pedate. Di súbito vide Rogiero scaturire dalla tenebra, e svelare innanzi al chiarore tutta la maestà delle sue forme un uomo di membra gigantesche, era vestito come gli rimanenti masnadieri, se non che aveva di più il corsaletto di piastra di ferro, diligentemente forbito, il corno al fianco, e una piuma al berretto. La fiamma rifletteva sopra il suo sembiante una luce vermiglia; e quei suoi lineamenti gagliardi, il sopracciglio irsuto, l’occhio sanguigno, lo dimostravano sottoposto al dominio di feroci passioni, mentre che la testa elevata, la fronte ampia, acuta negli angoli delle tempie, il mento un po’ ritorto all’insù, le labbra strettamente compresse, lo dicevano d’irremovibile volontà, e nato a dominare. Quel suo volto, sebbene severo, non aveva nulla di spaventevole, anzi ispirava a chi lo avesse fissato un senso di fiducia, cosa che sempre si osserva nelle sembianze di quegli uomini che sono di anima e di corpo sicuri. Lo seguitavano quattro masnadieri che conducevano quantità di muli, a quel che pareva, carichi di derrate. Allorquando si furono avanzati, il condottiere guardò tutti i compagni, e con modo signorile cortesemente disse loro: «Salute.»

«Addio, condottiero!» risposero i masnadieri.

«Ecco che Dio non vuole la distruzione di cui l’offende: noi abbiamo conquistato di che provvedere assai tempo al bisogno, – al bisogno che ci mette l’arme alla mano contro i nostri fratelli.»

«Conquistato!» esclamò uno dei quattro armati che avevano seguíto il condottiero «conquistato! Potevamo in vero, e di leggieri, conquistarlo, ma voi l’avete voluto comprare in tante buone monete d’oro di Federigo II.»

«E non parti ella una conquista, Beltramo? – Con l’oro, più che col ferro, in oggi si vince il mondo, e per lungo tempo, del quale non vedo la fine, ancora si vincerà.»

«Non so che dire su questo,» rispose Beltramo «ma potevano certamente essere tutti risparmiati.»

«Gli avete spesi voi? Ve ne ho io chiesto la vostra parte? Oh! non aggraviamo di grazia la nostra mano su l’infelice, oppresso dal caso e dagli uomini: insegniamo a questi uomini, che ci hanno ributtato dal seno, che siamo migliori di loro. – Di vero io poteva levare a quei poveri vassalli le robe che portavano al mercato, e lasciare loro il danno per prezzo: ma potresti, Beltramo, cibarti di coteste vettovaglie, senza pensare al pianto che susciterebbe il duro esattore del Barone, allorchè andasse in giro a raccogliere il livello, ed essi non avessero da pagarlo per cagione nostra? No, no; il pane rubato al povero non conforta l’anima nè il corpo. E stasera, tornati tutti festosi alle loro famiglie, racconteranno: – Cinque cavalieri ci occorsero per via; noi fuggimmo, lasciando le robe per salvare la vita; essi potevano toglierle, ma ci richiamarono; e le vollero pagare con più profitto, che se fossimo andati fino al mercato. – E quando pregheranno, vado sicuro che ci rammenteranno nelle loro orazioni, e i nostri nomi saliranno al cielo con quelli dei Santi… sì con quelli dei Santi; e Dio, sentendoci esaltati nella bocca dei suoi eletti, ci guarderà nella sua misericordia, ci vedrà infelici, e forse ci torrà da questa vita, angoscia per noi, spavento per gli altri: Iddio è pietoso nelle opere sue.»

«Amen» disse sotto voce Drengotto.

«Perchè dici amen, Drengotto?» lo interrogò un masnadiero che gli stava più prossimo.

«Perchè la predica è finita: già la sua fine deve essere un cordone, o alla vita o alla gola

«Drengotto!» chiamò il condottiero.

Il chiamato uscì di fila, e presentatosi baldanzoso innanzi di lui rispose: «Adsum, messere.»

«Rendetemi conto della giornata.»

«Ella è cosa di poco momento, messere Ghino: abbiamo corso e ricorso tutto il giorno dal bosco alla riviera, ma non si presentò Saracino nè Cristiano: tornavamo dunque verso sera a mani vuote a casa, allorchè i cani fiutando e abbaiando si sono lanciati entro un macchione, e noi dietro di loro; quivi abbiamo veduto che avevano addentato una bestia di pellegrino che giace là in terra: siamo subito accorsi a liberarlo; perchè, un poco più che tardassimo, lo spartivano da buoni fratelli in uguali porzioni tra loro.»

«Ben fatto.»

«Alcuni di nostra compagnia volevano che lo lasciassimo andare; ma noi per la pienezza del potere che ci avete delegato, ci siamo opposti, ed abbiamo detto: vediamo se il buon pellegrino porta in dosso reliquie e corone; peccatori come siamo non ardiremo porre le mani sopra le sante ossa, questo va bene; ma se ha argento, oro, o pietruzze dattorno, noi le prenderemo, perchè elleno sono vanità, e noi siamo in questo censori solenni di costumi. Dopo questo ci siamo messi a frugarlo, e mirabile visu! niun Santo si annidava sopra costui, ma questa borsa piena di agostari d’oro.»

«O gloriosissimo Barone, per l’onore della vostra famiglia, per la pace dei vostri defunti, salvatemi da quel feroce, che, e nei detti e nelle opere, sembra essere il primogenito del demonio: vedete che mi ha preparato la buca per propagginarmi.» Così interruppe il pellegrino, che, ascoltato il parlare soave del condottiero, si era levato su le ginocchia, e a questo modo, strascinandosi, recato fino ai piedi di lui. I masnadieri nel vederlo comparire in quell’atto, con la paura della morte sul viso, imbrattato di fango e di polvere, proruppero in alte risa, le quali furono tosto represse dal sembiante del rigido condottiero.

«Alzati,» disse Ghino «l’uomo non dee prostrarsi che innanzi alla Divinità;» e scioltegli le mani soggiunse: «sei libero.» Poi, quasi per evitare le solite formule di ringraziamento, sempre inutili per l’uomo sapiente che conosce la gratitudine del beneficato dalla espressione del volto, si volse a Drengotto, e domandò: «È egli ben vero ciò che sento dire di voi?»

«Messer sì.»

«Perchè volevate far questo?»

«Oh! non era nulla: amavamo così avere un per esempio del come Federigo Imperatore faceva morire i nostri colleghi, quando gli capitavano tra mano.»

«Avete trasgredito una legge della nostra compagnia voi meritate una pena.»

«Chi ha fatto codeste leggi, messere?»

«La nostra libera volontà.»

«E chi ha fatto il carro lo può disfare. Tutto varia in questo mondo, riti, lingue, costumi, cielo e terra, e non dovrà mutare un codice di masnadieri, fatto dopo cena col bicchiere alla mano?»

«Chi è quegli che vuol mutarlo qui?» gridò Ghino con tale una voce che strinse i cuori dei suoi compagni, girando certi occhi all’intorno, che fecero abbassare tutti quelli nei quali s’incontrarono: «chi è che vuol mutarlo qui? La nostra piccola società procede diversa dalla grande, che comprende la vasta famiglia degli uomini: qui non sono patti ai quali non siate intervenuti, non promesse che voi non abbiate fatto, o giurato; non leggi, se non prima da voi lungamente discusse, e con pienezza di consenso votate. Voi tutti vi dipartiste dalla gran società, perchè odiaste, o sivvero offendeste, i suoi statuti; ma intervenendo in un’altra, gli statuti e le costituzioni non erano niente meno necessarii: nessuna rettitudine d’ordine senza legge, nessuna durata di scambievole fratellanza. Le leggi discusse e giurate non si vogliono toccare così di leggieri, e mai, se fosse possibile; altramente operando, daremmo trista opinione della umana sapienza, e della eterna giustizia, accennando, con tanta mutabilità di provvedimenti, che non si dà bene in questo mondo, o che è cosa disperata conseguirlo. Stiamo lontani dagli uomini con tali pensieri, e con tali atti, che un giorno, richiamati tra loro, non adontiamo di alzare la testa, e dire: – voi foste gli scellerati, quando perseguitaste la innocenza. Nessuno vive tra noi che nel secreto del suo cuore non palpiti alle care ricordanze di padre, di figlio, di parente, di amico; nessuno che non sospiri le case paterne, e i dolci castelli: forse i nostri occhi non vedranno il giorno del perdono, ma noi non cessiamo di sospirare quel giorno. Tutto è legge nel creato, ed ordine stabilito: lo stesso Onnipotente si sottopose alle leggi, senza le quali nè egli sarebbe, nè noi saremmo; la bontà, la misericordia, ed altri assai sono i suoi attributi, nè egli può allontanarsi da questo sentiero, che la sua sapienza ha stabilito percorrere fin dal principio dei secoli.»

«Non mi parlate di leggi,» urlò schernendo Drengotto «nessuno può meglio persuadervi, che non sono leggi, quanto colui che ne ha fatto lo studio. Se la nostra natura le avesse volute, ce le avrebbe date; e senza scritto tra mezzo saremmo buoni, compassionevoli, e giusti: ma noi siamo al contrario naturalmente tristi, ingiusti, e crudeli. Rugge qui dentro il nostro cuore una rabbia amorosa di noi, la quale ci grida incessantemente – Primo mihi: la gioia altrui è un attentato alla tua, perchè ti toglie porzione del retaggio al quale tu aneli: ognuno si fa centro del creato; il mondo è il suo circolo; gl’interessi di tutti i viventi formano i raggi che si devono concentrare in lui, e questo è certo: non parlo arguto io? Occorrono nelle società degli uomini persone che traggono tutto il vantaggio da tali condizioni, che o non furono mai convenute, o furono, ma con principii diversi, o pure in un momento di ebbrezza, come noi abbiamo fatto le nostre: ch’esse si studino di conservarle, sta bene; ci va del proprio vantaggio, e anche io farei lo stesso in quel caso. L’uomo, che trova alla sua azione, resa manifesta, lo intoppo di una forca, non muta sentimento, nasconde l’azione; e quindi ne nasce quella guerra perpetua di furti, d’inganni, e di frodi, che non pure non si punisce, ma si loda dicendo: – costui provvede accortamente alle cose sue. Chi più nemico alla società di un uomo che toglie moglie? e pure il matrimonio dicesi essere un principio essenziale di questa società: vedete contradizione! ogni figlio che gli nasce gli dà un motivo di guerra di più contro i suoi simili; vorrebbe ch’essi soli fossero felici; lo cerca a prezzo della felicità universale: e poichè pare che non sia stata concessa somma di bene capace a soddisfare tutti, od anche volontà da soddisfarsi, per ogni avventuroso devono vivere cento nel fondo della miseria: quegli ori, quei vasi preziosi, quei cibi apprestati per pompa, non per bisogno, su la mensa del ricco, non vi starebbero, se negli infiniti ricoveri del povero fosse pane da sfamarsi, mezzina da bere, letto da riposare. Io per me vorrei, che allorquando celebrano un matrimonio, la chiesa fosse parata a lutto, e le campane suonassero a morto, come si usa nelle pubbliche calamità: – un matrimonio nuoce agli uomini più di due delitti…»

«Distruggi dunque, scellerato, distruggi; cotesta facultà appartiene al demonio: nella sua eternità di dolore egli ama le rovine, e i mucchi di cadaveri; essi sono il suo trono, dove regna tormentando, e schernendo le anime che si sono affidate a lui; ma egli è immortale, e vive per propria entità: tu, atomo, miscuglio d’imbecillità e di creta, più fragile in mano dell’Eterno, che paglia sotto il piede dell’elefante, come giungerai a questa potenza di male? Come schiverai la guerra di tutti contro di te? Ti sarà data la caccia come alla fiera del bosco, e tu morrai coll’angoscia di essere una memoria di esecrazione e di stoltezza per quelli che verranno. Ma poniamo che tu vi giunga: che cosa avrai fatto, quando avrai distrutto? come sopporterai la tua esistenza? come l’aspide del rimorso che ti roderà le viscere? Non udrai più voce nel mondo: ma come sfuggirai quelle della tua coscienza? Sarai come l’uracano nel deserto; vivrai solo, morirai solo. – Oh stolto! tu non conosci tutte le amarezze della solitudine, e possa Dio non fartele conoscere mai!»

«E v’è un proverbio, messere, che dice: meglio soli che male accompagnati; ed i proverbii sono cose da tenersi in conto, perchè, siccome ho udito nello Studio a Bologna, significano probatum verbum, parola approvata dalla esperienza dei secoli e dal consenso degli uomini: ma, e poi, quello che avete detto riguarda il séguito; allora provvederemo ai casi nostri; intanto ci giova vivere come viviamo.»

«Ahi scellerato! E come puoi giovarti del sangue del fiacco che piange? qual diletto o quale utile puoi ritrovare a spengere barbaramente chi ti stringe le ginocchia, e implora la tua pietà? – Pensa, che un giorno dovrai a tua volta essere giudicato.»

«Che volete? ogni uomo ha le sue opinioni, ed io ho questa. E’ visse un popolo nell’antichità, come mi dicevano i miei maestri, che faceva morire per compassione i mal fatti di corpo, e si trova chi lo loda; or come, uccidendo io i male disposti di cuore, che è molto peggiore cosa, potrebbero biasimarmi? L’antichità si reputa madre solenne di utili ammaestramenti, messere.»

«E chi sei tu, che pretendi scrutinare i pensieri dell’uomo, e vuoi assumere la più portentosa qualità del Signore? Se veramente cotesti sono i tuoi sentimenti, tu meriti, piuttosto che ragioni, pugnalate. Questo ti basti, che il debole non fu mai trucidato che dal vile: la storia del lione San Marco, che pochi anni fa salvò a Fiorenza il bambino Orlanduccio, t’insegni, che il forte è magnanimo.»

«Con questo mi pare che vogliate tacciarmi di vile, e voi mi dite cosa senza significato; io vi dirò onesto, e avremo detto una menzogna od una stoltezza per uno.»

«Drengotto!»

«Eh via! gettiamo questa sopravvesta di virtù che non conviene a noi altri che facciamo mestiere di rubare le strade: non vedete che sembriamo il demonio in abito da cappuccino? guardiamoci nella nostra nudità; ella è schifosa, ma noi abbiamo cuore da sostenerla: diciamoci apertamente scellerati; che cosa giova celarlo? tanto, nessuno ci crede. Ecco qui, – sia onore, sia pena, ognuno di noi porta il segno di Caino sopra la fronte; avrete un bel tirarvi il berretto su gli occhi; il segno sfonderà il panno e si farà vedere; ovvero accadrà di voi come di quella donna, che per celarsi lo sfregio del volto si pose la gonnella in capo e mostrò nudo il di sotto. Siamo almeno sinceri, poichè col fingere non possiamo ingannarci; renunziamo all’apparenza d’una virtù, dalla quale non ricaviamo altro frutto, che lo scherno del diavolo. – L’essere così pienamente ribaldi senza legge, deve tornare più che farla da onesti con la legge: nel primo stato sei sempre sicuro, perchè ti guardi; nel secondo ti affidi, e sei ingannato: ed allora che ti rimane? il pianto! – il conforto dell’imbecille. Io scommetterei, messer Ghino, questa mia spada di Damasco, che voi, voi stesso, con tutta la vostra generosità, se il Papa o Manfredi vi promettesse un feudo a condizione di tradirci, senza un baleno di esitanza ci vendereste tutti, come manzi al beccaio, anima e corpo.»

«Drengotto!» gridò Ghino, e la sua mano ricorse al pugnale. Ma quello sciagurato, seguendo la sua trista loquacità, aggiungeva: «Ma noi vi guardiamo, perchè non abbiamo in voi migliore opinione di quella che, se voi siete savio, dovete avere di noi: per ciò ognuno faccia quello che gli aggrada; stiamo uniti finchè possiamo; quando non potremo più, o ci lasceremo, o ci distruggeremo, come meglio ci tornerà. Intanto lasciateci propagginare il nostro pellegrino. Libertà di azioni! viva la libertà!»

«Libertà di azioni!» gridarono alcuni ferocemente. E si muovevano per prendere il pellegrino; ma questi avendo veduto i masnadieri intenti nella contesa, côlto il tempo, curvato la persona, strisciato cautamente dietro di loro, se l’era data a gambe, così che adesso poteva avere fatto assai cammino. Rimasti delusi, volevano sciogliere i cani, frugare la foresta, rinvenirlo ad ogni costo, e propagginarlo. Ghino, seguitato dalla più parte dei suoi, cavò la spada, e gridò: «Io lo impedisco.»

«Lasciateci fare, o che vi uccideremo!» urlarono i compagni di Drengotto.

«Me uccidere? vili ribaldi!» girandosi attorno mirabilmente la spada esclamò Ghino «alla prova!»

«Alla prova!» e già venivano al sangue. Allora Drengotto si fece innanzi gridando:

«Pace! pace! Messeri, udite un poco me prima. Ghino, come vedete, noi abbiamo due diverse opinioni: colle parole non ci possiamo comporre; che potremmo dire e dire fino al giorno del giudizio, ognuno persisterebbe nella sua; e posto ancora che uno giungesse a svolgere l’altro, ciò andrebbe troppo per le lunghe: finiamola dunque col pugnale, ch’è più breve. Non facciamo come i potenti della terra, i quali, quando hanno alcuno affare da strigare tra loro, costringono il gregge degli uomini ad ammazzarsi allegramente a nome della gloria, senza saperne il perchè; riteniamo anzi questi, che ci sosterrebbero volenterosi, nè rendiamo vane le speranze del carnefice, che farebbe gran pianto, se si uccidessero tra loro: tra noi sorse la rissa, si finisca tra noi; affidiamoci al giudizio di Dio.»

«E Dio ti ha condannato: la mia spada non ha mai dato colpo in fallo.»

«Questo so ancora io; nè crediate, messere, ch’io voglia un duello con voi; altra forza è la vostra, altra arte nelle armi, che non è la mia: voi avete trattato fino dai primi anni spada e lancia, io codice e comenti: facciamo in modo che niuno di noi abbia vantaggio; poniamo in terra i nostri pugnali, allontaniamoci cento passi, voi da una parte, io da un’altra; dato il segno, ognuno corra a raccogliere il suo; chi prima giunge, ferisca; che parvene?»

I masnadieri si tacquero. Ghino, riposta la spada, trasse il pugnale, e mostrandolo luccicante a Drengotto, gli disse: «Lo vuoi? Pensa che ho raggiunto il capriolo al corso, e Dio mi porrà l’ale ai piedi, perchè è causa sua.»

«Tanto meglio per voi. Che volete? i nostri compagni aspettavano di vedere propagginato il pellegrino, egli fuggì per cagion vostra; una festa bisogna pur farla.»

«Sia fatta la tua volontà, e il tuo sangue ricada su la tua testa.»

Dopo questo, Ghino si raccolse un momento; poi scuotendo la fronte, gittò il pugnale con tanta forza, che più di mezzo l’internò nel terreno; quindi volte le spalle fece sembiante d’incamminarsi al suo luogo. Drengotto spiava questo momento; si avventa rattissimo, e già ficca con orribile perfidia il suo pugnale nel fianco di Ghino, allorquando una lama di spada si vede comparire di dietro ad un albero, e percuotere con tanta furia il braccio dello assassino, che la sua mano cade a terra recisa. La mano guizzò saltellando, e lasciò andare il pugnale; poi si aperse, e si richiuse celermente, come se tentasse afferrarlo di nuovo, e stette assai tempo innanzi di quietare quel moto. Il ferito gittò acutissimo strido, rimase un momento in piedi, finalmente cadde svenuto. Ghino volge la testa; conosce con un solo sguardo il caso, ed esclama: «Vive un Dio che punisce il tradimento!»

I masnadieri, maravigliati e atterriti, piegarono la faccia a terra, e dissero tra i denti quasi per forza: «Vive Dio?»

Come poi Rogiero si fosse rimasto immobile all’avventura del povero pellegrino, e di così giovevole aiuto sovvenisse il capo dei masnadieri, non riuscirà difficile a spiegarsi, qualora si voglia por mente a quello che ammaestra il buon Lavater, su gli effetti delle fisionomie. Occorrono di que’ sembianti, dice egli, che al primo aspetto diventano il piacere dei tuoi occhi, la gioia del tuo cuore, nè punto ti persuadi che da te non sieno stati più visti; anzi ti senti suscitare nell’anima un affetto confuso, che si assomiglia a qualche lontana memoria di amore, e ti diletti ingannare te stesso, e credere che sieno gli amici della tua infanzia, i quali, sebbene scomparsi da anni ed anni, ti lasciarono nondimeno un lungo desiderio di loro; quindi il moto irresistibile di congiungerti a quelli, e chiamarli a parte delle tue gioie o dei tuoi affanni, ch’è così bello sfogare nel cuore di un amico: mentre all’opposto ne occorrono tali altri il cui aspetto t’inspira un senso di allontanamento, e se i tuoi occhi s’incontrano con gli occhi loro, tu sei costretto ad abbassarli; e se la tua bocca vuole indirizzare loro un discorso, le parole non ti escono intere, ma smozzicate; a stento, per modo che è un fastidio a sentirsi; per quanto ti studii, non giungerai a vincere questo naturale sgomento; forse la tua ragione potrà persuaderti a non odiarli, – ma amore non è passione che possa comandarsi all’anima nostra. Ed oltre a questa cagione, per sè stessa potentissima e naturale, ne concorsero alcune altre, alle quali forse non pensò il medesimo Rogiero, ma che tuttavolta poterono contribuire al suo atto senza ch’ei vi ponesse mente; e sono, che il caso del pellegrino si operò a qualche distanza dal luogo ove egli stava appiattato, e i masnadieri erano tutti concordi a propagginarlo, per lo che muoversi alla sua difesa era lo stesso che non salvare lui, e perdere sè stesso: il fatto di Ghino accadeva forse due passi discosto, e la più parte dei masnadieri risoluti a proteggere il capo lo affidarono, che il colpo non pure andrebbe impunito, ma anzi lodato. Comunque ciò fosse, Rogiero considerando adesso la impossibilità di celarsi, trasse fuori dal nascondiglio, e si avanzò verso Ghino. Quel, suo comparire improvviso, la ricca armatura di che egli andava coperto, e il bel sembiante, gli davano aria di San Giorgio che ha abbattuto il dragone; e per San Giorgio, e per l’Arcangiolo Michele, lo avrebbero adorato quelle menti superstiziose dei masnadieri, se Ghino facendoglisi innanzi con lieta accoglienza, non gli avesse stretta la mano, dicendo: «Io vi devo la vita, bel Cavaliere.»

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
740 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
Metin
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