Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 14
CAPITOLO DECIMOSECONDO. MESSINELLA
Egli ha pallido il volto, e gli occhi fieri;
E in tutti gli atti, e movimenti suoi,
Del terribil vieppiù che dell’umano.
Marianna, tragedia antica.
Venite, ed ammiriamo le glorie della creazione su le ultime sponde dell’oceano. Ecco, egli riposa della quiete del lione; nessun vento osa turbare la sua azzurra superficie, nessuna onda gemere tra gli scogli: – sembra uno specchio, nel quale il firmamento goda riflettere i suoi tesori. L’occhio dell’uomo si sprofonda lontano lontano in cerca di un confine che la debolezza della sua conformazione ha impresso nella sua vista, ma che l’oceano non ha conosciuto giammai: – lo sguardo si perde sopra la moltitudine delle acque, e finalmente è costretto di abbassarsi alla terra, mentre lo spirito freme alla idea che la creta non sia capace di sostenere la contemplazione degli elementi; – siccome appunto l’anima temeraria che ardisce di volere penetrare dentro la nuvola che circonda il soglio dell’Onnipotente, dopo un lungo travagliarsi di abisso in abisso nel mondo intellettuale, sviene soverchiata dalla grandezza della immagine, logora dalla meditazione, vinta dalla certezza che l’Eterno non può esser compreso dalla forma destinata a morire. Questo è il riposo dell’oceano: e pure il pianeta della vita e della luce pare che gli si accosti tremando, come il supplichevole al trono del Signore, – le più volte pallido e senza raggio: ed egli lo assorbe nello sterminato suo seno, non altramente che la terra riceve la creatura divenuta cadavere.
Ma quando il cumulo delle acque, furiando imperversato, quasi che fosse ansioso di ricuperare l’antico dominio (però che la terra emerse dal profondo del mare al comando di Dio), si precipita a flagellare i confini del mondo, dove trova l’insuperabile argine, e il solo degno di sommettere la sua spaventosa potenza, – la parola del Creatore, che lo respinge indietro: ma quando rotolandosi per l’ampiezza del suo spazio travolge il naviglio che incontra nel corso fatale, onde il nocchiero disperato di ogni umano soccorso guarda il cielo, ed il cielo gli si mostra minaccioso, – questi non ha più scampo, il flutto che vede agglomerarsi da lungi deve eseguire la sentenza di morte che la natura ha pronunziato contro di lui; allora tra i pensieri della vita futura s’insinua tristamente la rimembranza della sua famigliuola che gli strazia le viscere: – e i figli? – e la moglie? – dorme ella? – su lo stridore dei venti, tra il muggito del mare parle sentire il suo nome sospirato nel delirio di una orribile agonia, balza atterrita, corre al lido, e non iscorge che flutti sommossi e cielo ottenebrato: – che Dio faccia pace all’anima del naufrago; ma doveva sfidare il terribile elemento col peso dei figliuoli sul cuore? – Quando tutto è sconvolto, quando tutto è paura, e terrore, – felice quel sicuro che gode spaziare su l’ultimo lido della terra, e sorridere di quel sorriso col quale si accolgono i più cari amici, all’onda che dopo avere sommerso mille navigli viene a spezzarsi tra le scogliere della spiaggia! – Felice chi nel fragore del tuono, e nell’urlo salvatico dei mostri marini può sentire una dolce armonia, una voce di amore, simile a quella che acquietò i dolori della sua fanciullezza! – Ma più avventuroso colui, che nell’ora della procella commise il suo corpo ai flutti agitati! Lo pregavano gli spettatori, pei Santi e per la Vergine, a non osarlo; ma egli, sprezzando i consigli della paura, si compiacque vedersi sospeso su gli abissi, la descrizione dei quali fa abbrividire migliaia di gente: certo egli sembrava un atomo vagante per la luce; conobbe il pericolo d’essere ad ogni momento disfatto, mirò la faccia della morte, nè impallidì; e in ricompensa fu la sua anima purificata di ben molte passioni del fango, di ben molte umane imbecillità; apprese – potere dirsi felice colui che non teme la estinzione della vita; – e re del dolore, scoperse cose, che nè egli sa dire, nè altri potrebbe comprendere, ma di cui la rimembranza gli rimase nella mente come pegno di futura grandezza: – ora quell›ardito sollevato su la sommità d›una ondata si scorgeva più alto della terra, scoprendo il lido lontano, e i compagni; ora, precipitato giù nel profondo, ammirava le acque soverchianti circondarlo a modo di muraglia, e le cime loro ripiegarsi spumanti, sibilando come serpenti sul capo di una furia; – ma egli pure vinse, e quando gli fu a grado tornò salvo alla riva. – A questo solo sia concesso narrare dell›oceano; stenda la sua mano sul mare come su l›altare del Signore, e dica: io sono degno di te. – Venite, e adoriamo le glorie della creazione sopra le sponde dell’oceano.
Io ti amo di quell’affetto col quale i miei fratelli di stoltezza vagheggiano il sembiante della femmina; io godo al suono dei tuoi flutti, al tuo riposo, e alla tua tempesta: libero fino dal principio della creazione, nessun potente ti ha potuto dare legge, nessuno ambizioso nè per lusinga nè per forza sottometterti; – la vicenda degli anni e delle stagioni è nulla per te: quel barbaro sovrano che volle importi catene, sta monumento di scherno nella storia; – le catene sono fatte per gli uomini.
Tu immenso, tu forte, perchè il caos era acqua, ed acqua ritornerà. In quel punto la luce riverrà a spegnersi nella sua antica dimora; – il fuoco tuo nemico sarà superato, e la vittoria annunziata al mondo con la sua rovina: non più stelle, nè luna, nè cielo, nè terra; – esulterai nel trionfo della distruzione, nella solitudine della tua immensità: però, mentre dura in me spirito di vita, mi dilungo su l’estreme tue sponde, e adoro le glorie della creazione nella potenza dell’oceano. —
Coll’affanno del cuore, che agogna una corona, Carlo da tre giorni percorre l’oceano. Spesso sedendo a mensa, o giocando a scacchi, quando meno se l’aspettano i compagni si alza da tavola, ascende sopra la coperta; aguzza gli occhi da settentrione, ed esclama con voce tra spaventata e gioiosa: «È Italia quella?»
«No, Monsignore; ell’è una nuvola,» qualcheduno gli risponde; e Carlo torna a desiderare, e cupo nel sembiante incamminasi là d’onde si era partito.
Oggimai un uomo, per quanto in fondo della ignoranza, agevolmente comprende – il ladro o non avere sentimento veruno, quando si appresta a fare suo pro della roba altrui, o, se pur l’ha, essere in tutto simile a quello del conquistatore. Vero è bene, che questo s’ingegna di ornare il suo fatto co’ luminosi fantasmi della gloria; ma il belletto trovato dagli accorti per magnificare il delitto del forte, che hanno punito nel debole, – il nome diverso, chiamando nei molti gesto, impresa, conquista, quello che nei pochi hanno appellato furto, non acquieta la coscienza, e ciò che togli altrui, sia poco, sia molto, sia con migliaia di armati, o con una sola mano, o vuolsi reputare male per tutti, o per veruno. La pena si assomiglia a una insegna, che tanto più si dipinge di rosso quanto meno lo albergo è agiato, e il vino buono: la si ritenga risolutamente marca che da secoli e secoli inganna, e continuerà ad ingannare la gente; per la quale si toglie per buona una merce, che non è tale. Considera il mondo, e troverai l’origine delle pene nella prepotenza più tosto che nella ragione. Ho scritto questi pensieri non già perchè Carlo avesse il più leggiero rimorso a cagione del gran furto che stava per commettere, ma perchè qui mi si sono affacciati alla mente. Quello che adesso agitava l’anima del Conte era la idea del molto pericolo, unito ad un senso magnanimo, che lo rendeva cupido d’imprese pericolose. Sì fatto miscuglio di vecchie abitudini e di nuove sensazioni non può agevolmente descriversi: egli non era un desiderio di fuga, e pure un principio di paura, che gli abbrividiva le carni; non un desiderio di precipitare la contesa, e nondimeno Carlo, ogniqualvolta sentiva dirsi come fosse una nuvola l’oggetto che supponeva Italia, sospirava d’affanno: – era la trepida esitanza di un’anima grande tra il tempo del disegno, e quello della esecuzione; – esitanza, che nè io, nè i miei lettori, abbiamo provato giammai, imperciocchè le anime nostre vennero al mondo piegate in sessantaquattresimo.
Carlo agitavasi inquieto, nè i Baroni che aveva prescelto a compagni valevano molto ad acquietarlo. Essi avevano combattuto al suo fianco in Palestina ed in Provenza; andavano famosi per mille prove, ma rigidi come il ferro che li vestiva; – faccie ignote al sorriso, nessun’altra cosa fuorchè la spada e la mazza di arme conoscevano, e nella spada consisteva a quei tempi la educazione del nobile: forse avrebbero potuto narrare le imprese trascorse, e col racconto dei superati pericoli inanimirsi a ben sostenere il sovrastante; ma quando l’anima anela su l’elsa della spada, di rado si trova chi narri, e più di rado chi ascolti storie del vecchio tempo. I nostri Baroni al più leggiero scompiglio balzavano coll’arme alla mano, stimando essere assaliti; nè per quanto si fossero trovati delusi rimettevano in nulla del loro sospetto.
Il Maestro della nave, Provenzale dal viso rubicondo e dai capelli ricciuti, era un piacevolone, finissimo intendente del vino, gran partigiano di quello di Sciampagna; del rimanente istruito a cantare sul liuto otto o dieci canzoni da taverna, e pratico di quanti giuramenti correvano in quei tempi per le bocche dei Fedeli: ma poichè laddove compariva quel viso severo di Carlo la gaia canzone cadeva in isvenimento, e la bestemmia peggio che mai, essendo il Conte religioso, o simulando esserlo, tutta la scienza del Maestro si riduceva a niente, ed egli stava colà come uomo morto: rimanevagli il favellare sul vino, ma come avere il coraggio di tenerne discorso con un Principe che beveva acqua? Il Maestro era affatto disperato.
Così un profondo silenzio, solo interrotto dal rumore dei remi, o del vento fremente per entro le vele, regnava su la galera. Il quarto giorno di navigazione su l’ora di nona Carlo sentendosi trasportato con molto maggiore velocità che nei tre precedenti, se ne andò a passeggiare su la coperta. Non vi trovava persona, meno il timoniere, che colla mano al timone e gli occhi intenti alla bussola (invenzione che i Francesi contendono al nostro Gioia amalfitano, poco tempo innanzi quell’epoca adoperata nei viaggi di mare), pareva non badargli poco nè punto. Carlo con le braccia sotto le ascelle si mise a percorrere da poppa a prua; nè, per quanto i suoi passi fossero fragorosi, che per antica usanza soleva sempre portare l’arme, nè per fermarsi all’improvviso dinanzi al timoniere, nè per battere con impazienza del piede sopra lo intavolato, pervenne mai a fargli alzare la testa. Questa osservazione, più e più volte ripetuta, lo rendeva curioso di sapere chi fosse: tornato indietro, s’incontra nel Maestro che canterellando sotto voce si dirigeva appunto alla volta del timoniere: onde subitamente chiamò: «Vassallo!» e proseguiva il cammino.
Il Maestro, cavato il berretto, curvata la persona in atto ossequioso, gli tenne dietro alla distanza di due o tre passi, dicendo: «Monsignore.»
Carlo non rispondeva: giunto alla estremità della galera, toltasi la destra di sotto l’ascella, apri l’indice e il pollice, e v’inchinò il mento, distratto da nuovo pensiero. Il Maestro si fermò col corpo curvo, il berretto in mano, senza battere palpebra; pareva percosso da quella tal malattia che i medici chiamavano Catalessi, l’effetto della quale consiste nel far restare l’ammalato nella posizione in che fu sorpreso.
«Vassallo!»
«Monsignore.»
«Sapresti tu darmi contezza chi sia il timoniere?»
«Dirò, Monsignore,» rispose il Maestro, e il cuore gli si allargava, chè adesso poteva dar la via alle parole da tanto tempo trattenute e con tanto fastidio; «allorquando corse grido per Provenza che voi eravate determinato alla impresa di Napoli; e furono incominciati gli apparecchi, una sera, il 15 ottobre, se mi rammento, tornandomene a casa, prendendo su per la piazza di Santa Genevieva, m’imbattei in Messere Guasparrino, gran mercante di panni franceschi, intrinsecissimo mio, e di più compare, avendogli tenuto al sacro fonte un suo figliuoletto che adesso potrà avere da circa due anni; e se a voi accadesse di vederlo, Monsignore, sono certo che lo terreste pel più bel garzone del mondo…»
«Dunque?» interruppe Carlo.
«Dunque, come io vi diceva, Monsignore, Guasparrino tornava da Pisa per certe sue bisogne, e vedutomi da lontano mi corse a braccia aperte incontro, gridando: Oh! oh! compare. – Oh! Guasparrino, siete voi? risposi io. – Ed egli: Come state? – Ed io: Grazie a Messere Domine Dio, non mai bene quanto ora; e voi? – Ed egli Eh! così… ma gli anni cominciano a diventar troppi, bel compare mio. – Ed io: Che andate voi pensando agli anni? la morte ci ha da cogliere vivi, compare. – Ed egli: Io vo’ intanto, che abbiate la cortesia di venire meco fino a casa, dove saggerete un cotal vino di Toscana che un mio amico mercante di Pisa mi ha ultimamente donato, affermando con giuramento che era vecchio di cento anni. – Cento anni! Domine, aiutalo! – Vo’ dunque, bel compare, che veniate a farne la prova. – Vengo di certo io: – e andammo. Quivi si trovò in capo di scala dama Ginevra, che ci accolse con una leggiadria da fare onore a qualunque grande imperatrice o Regina; e noi ricambiati in fretta con essa lei alcuni saluti, ci ponemmo a tavola per fare il saggio del vino. E vi so dire, Monsignore, ch’egli era del buono, ma del buono da vero: io non saprei assicurarvi se avesse per l’appuntino cento anni, chè la fede di battesimo non gli vidi io, ma ottimo era certo; quasi cominciai a credere dentro me, la causa della Sciampagna perduta: ma la Sciampagna si manterrà pur sempre Sciampagna!
Quand pétille,
Quand bouillonne....»
«Dunque?» guardandolo ferocemente gridò Carlo.
«Dunque… come io diceva… questo è quanto, signor mio,» rispose smarrito il Maestro, quasi che avesse perduto il cammino; «Monsignor sì… mi ricordo che andò proprio in questo modo… se mi pare un minuto!… Vedete… cominciammo a venire in disputa sul vino, e Guasparrino, che n’è troppo bene provveduto, ne fece portare di molte sorte, e tutte preziose, e cominciammo a fare brindisi: Evviva San Dionigi! dissi io, e bevvi Bordò. – Evviva Mongioia! rispose Guasparrino, e bevve Borgogna: – e poi, viva Santa Genevieva! e l’Orifiamma! e Luigi il Santo! e voi, Monsignore! e per voi tornammo alla solita disputa, ch’ei voleva ch’io portassi la salute col vino toscano dei cento anni, ed io colla Sciampagna: alla fine ci accordammo che ognuno bevesse qual più gli piaceva; e così fu fatto. Allora come portava il discorso, Guasparrino mi domandò: È egli ben vero, bel compare, che tra poco il nostro Signore stia per andare al conquisto di Napoli? – Sì bene. – E voi, mio bel compare, condurrete la vostra galera alla impresa? – Sì bene, perchè qual sente amore il Provenzale? Buona spada, buon vino, e bella dama. Se muoio, fatemi dire una messa, Guasparrino, qui presso al monastero dei Cordiglieri; se vivo, berremo al ritorno del vino di Sicilia. – Compare, risposemi allora Guasparrino, ponete mente al mio discorso: voi sapete ch’io sono troppo ricco mercante, e cogli anni giunto a tale età, che si ama, più tosto che ragunare nuovi danari a pericolo della vita, godersi tranquillamente i già radunati; però fino da qualche anno aveva pensiero di smettere negozio e ritirare il capitale, se non che mi ha sempre trattenuto il mandare sciopera pel mondo tanta gente che mangia il mio pane, non meno che alcune faccende che aveva a Pisa e a Firenze; ora poi queste faccende sono sbrigate, e mi rimane solo da accomodare la gente; noi potremmo, compare, farci scambievolmente piacere. – Parlate, Guasparrino. – Io ho una bella galera nuova e sparvierata, e questa intendo donarvi, con che promettiate mantenere la ciurma che mi piacerà porvi sopra, a quei patti che fino a questo momento ho mantenuto io. – Gran mercè, Guasparrino; chè la mia, quantunque ritinta di nuovo, credo sia sorella della barca su la quale il Patriarca Noè caricò le bestie, – perchè allora non erano tante in questo mondo. – Ora bene; e intendo inoltre di farvi un bel dono, pel quale potrete andare francamente dinanzi Monsignor Carlo nostro padrone, e dirgli: io ho il migliore Maestro pilota, che possa condurvi a salvamento fino ad Ostia. – Oh! questo è troppo grande favore, mio gentil Guasparrino; voi mi fate, non dico quanto un amico possa fare ad amico, ma più che padre possa fare al suo figlio. E qui mi alzai per abbracciarlo; ma inciampai nella tavola, e caddi, e la tavola sopra: Guasparrino ridendo a gola spiegata, per modo che aveva gli occhi lagrimosi, e gli si potevano contare quanti denti aveva in bocca, si lasciò cadere riverso su la sedia, levando le gambe, ed egli e la sedia tutto un rifascio per terra; pure, come a Messer Dio piacque, ebbe salva la memoria, chè altramente il riso convertivasi in pianto: accorse la moglie e la fantesca col lume; ci raccolsero e ci menarono a letto, perchè in quella notte io dormii in casa di Guasparrino, Monsignor mio.»
Ben pel Maestro, che Carlo fin dal principio del suo discorso osservando un punto oscuro sull’estremo orizzonte, e riputandolo Italia, distratto da nuovo pensiero non gli porse più orecchio, che altramente gli avrebbe dato tal ricordo da non dimenticarlo più mai nei suoi giorni. Ora, ritornato alla prima inchiesta, ripeteva per la terza volta: «Dunque?»
«Dunque, come io diceva, Monsignore Conte, alla mattina Guasparrino entrato nella mia camera mi prese per un piede, e mi tirò tanto, ch’io mi svegliai. Oh! siete voi? – Sono, bel compare; alzatevi, ch’è l’alba dei tafani. – Oh! che ora fa egli? risposi sbadigliando, e stirandomi le braccia. – È passata terza di un buon pezzo. – Allora mi alzai, salutai la dama, e quando fui per uscire, Guasparrino mi si fece all’orecchio dicendo: Dimani coll’aiuto di Dio vi manderò quel tale uomo a casa. – Che uomo a casa? – Quello della galera. – Ma che avete le traveggole stamane, compar mio? – Come! non vi rammentate della galera che voglio donarvi, e della promessa… – Ah! certamente sì; pensava che fosse stato un sogno: dunque dimani lo aspetto a casa. Ma ditemi, compar mio, saprestemi voi dire che uomo egli sia?»
«Ed egli?» seguitò Carlo.
«Ed egli mi rispose che non lo sapeva, e che…» Carlo a quel discorso si stimò burlato, e stretta la destra minacciò di percuotere sul viso il Maestro, che alzata la persona fuggì per la scala brontolando: Tête-bleu, Corbleu, ma tra i denti, perchè sapeva Luigi IX di Francia chiamato il Santo avere decretato la pena del taglio della lingua col ferro rovente per tutti quelli che profferissero queste parole.
«Oh vedete un po’ che umore arabico è quello dei signori! gli ho detto acconciamente, e con ordine, tutto ciò ch’io ne sapeva, ed in ricompensa per poco non mi ha pestato la faccia: oh, che ingegno bizzarro gli è questo Monsignor Carlo! – Alcuno mi dirà ch’egli ha dei pensieri per la testa; – ma gli ho detto io, ch’entri in questi ginepraj? ci sta egli per me? se la deve rifare con me?»
E così parlando si era accostato ad un vaso, dal quale mesciuto un bicchiere di vino, se lo bevve, chiudendo gli occhi, e a piccoli sorsi: poi, posandolo con rabbia su la tavola, si asciugò col rovescio della mano le labbra, e con un gemito proruppe: «Trangugiamo anche questa!»
Ed il Maestro, aggiunge la cronaca, pareva ombratile fuori di misura, perchè in capo al giorno aveva mestieri di trangugiarne ben molte.
Intanto Carlo, che appena levata la destra si pentì dello atto villano, si ripose a passeggiare, ingegnandosi con ogni modo a fare alzar gli occhi al timoniere; ma sempre indarno: allora prende consiglio di porglisi accanto, e dire in suono che non fosse domanda, e pure richiedesse l’altrui consentimento: «Bel tempo è questo!»
E il timoniere con gli occhi intenti alla bussola non risponde parola. Carlo d’impetuosa indole dotato, come la più parte dei Francesi appaiono, non si può più contenere, e direttamente richiede: «Che partene, timoniere, è egli questo un bel tempo?»
«È.»
«E stimi tu che sia per durare?»
«Chi manda la procella? chi il sereno? Può la creatura conoscere i segreti di lassù?» E alzò il dito.
«Lodato il nome del Signore!» risponde Carlo, facendosi il segno della croce; «ma credevamo, che senza peccato avresti potuto dirci, se il tempo sarebbe dimani buono, o cattivo.»
«Oggi è buono, però temete che dimani sia tristo. Tra la tempesta si leva la speranza del sereno, tra il sereno sorge il timore della procella. Questo vento che mena felicemente la galera a nona, può farla naufragare a sera.»
«Nol permettano i Santi del Paradiso! ma le tue parole suonano amare.»
«Devono, o possono uscirne diverse dalla bocca dell’uomo?»
«Tu sei dunque infelice?»
«E che! non lo sareste voi forse?»
«Lo speriamo. Quando il Santo Padre ci avrà posto sul capo la corona di Sicilia, e l’avrà conquistata la nostra spada, noi crediamo che saremo felici.»
«La speranza! Ella è una compagna ingannatrice, che ci spinge su pel dirupo della vita, quando il corpo si sente stanco, e i piedi sanguinano per l’aspro cammino. Voi siete nell’agonia dell’anima che anela per la cosa bramata; e questo stato ci turba tormentoso, e pure è il solo meno amaro per noi. Ma quando, pervenuto al sommo, getterete lo sguardo nel profondo senza fine, e la vertigine della fortuna farà mancarvi il piede, e vi precipiterà nello abisso, dove non troverete voce che vi consoli, non occhio che vi pianga, non eco che vi risponda, non speranza…»
«E tu hai provato questo?»
«Là,» dice il timoniere accennando la parte d’Italia «là, in quella terra giace sepolta con un cadavere ogni mia contentezza:’cominciò la mia giornata coll’alba della gioia, presiedè al suo meriggio il delitto, la rabbia ne dispera la notte.»
«Conosci tu dunque quella terra?»
«Se la conosco! vi nacqui.»
«Tu nato in Italia! E dì, ell’è poi bella codesta terra quanto si va magnificando all’intorno?»
«Più che mente insaziabile di piaceri può fingere, più che fantastico Trovatore può immaginare’: se vi crescessero gli alberi della scienza e della vita, sarebbe un errore lamentarci dell’antico esilio dal Paradiso terrestre.»
«E gli uomini?»
Le labbra del timoniere tremano volendo proferire un groppo d’idee, che impetuosamente gli sgorgano dal cervello; esse però null’altro possono favellare che interrottamente: «Feroci… feroci.»
«E tu, nato in cotesta terra, come ardisci adoperare il consiglio e la mano in suo danno? Non conosci, o disprezzi il premio di che vanno rimunerati i traditori?»
«Io traditore! Voi avete parlato una stolta parola, Conte di Angiò; ma sia: – e voi, nato in Francia, come vi maravigliate di un tradimento?»
Carlo si scuote, aggrotta le ciglia in così spaventosa maniera, che le pupille gli si nascondono intiere, e prorompe con voce commossa: «Perchè maledici la nostra patria? È forse la infamia una pianta particolare alla nostra terra, o un albero sterminato che stende i suoi rami tenebrosi sopra tutto l’universo? Sia rigido il cielo, sia temperato, azzurro come in oriente, nuvoloso quanto in settentrione, nè per clima, nè per cielo si rimarrà dal crescere; – le sue radici stanno nel cuore dei viventi. Sì, pur troppo la terra va coperta di scellerati, e di traditi; ma tu, prima di chiamarci colpevoli, dimostraci, che sei innocente: intanto sappi che noi ti teniamo traditore e ti aborriamo. Se la colpa vive nel mondo, non alligna in nostra casa, guarda, se l’osi, il fiordaliso di Francia; qualora i tuoi occhi possano sostenerne il bagliore, vedrai che non ha macchia.»
«L’avrà.»
«E allora possa essere sterminata la nostra famiglia, tolta dal numero delle cose che si rammentano. Adesso, se alcuna ingiuria molesta alla vita avessimo sofferto dalla nostra patria, anzi che cacciare il pugnale nelle sue viscere, lo cacceremmo nelle nostre. Se hai cosa che non puoi sopportare, muori; altramente, ama la vita, e sii codardo, o scellerato.»
«Conte,» riprese il timoniere; tenendo le braccia con le pugna strette, «Conte, voi parlate stolte parole. Chi siete voi che volete farvi arbitro del biasimo e della lode? Imparate, voi, cui forse destinano i cieli a governare molta gente, che per tenervi un grado seduto su le teste dei vostri fratelli, non per questo li soverchiate col sapere; che siete debole, imbecille, come essi sono, e creta, solo più presuntuoso, – imparate, dico, s’io amo la vita.» E qui furiosamente si apre la veste, e mostra a Carlo i fianchi recinti da un cilicio di ferro, che vi aveva fatto un cerchio di piaghe, dalle quali colavano alcune gocce di nero sangue, e marcioso. Carlo balza indietro atterrito, esclamando: «Cotesto è atroce supplizio!»
«Ora dunque credete ch’io tema la morte? Non vedete che ognuna di queste piaghe mi ha dato maggior dolore, di quello che abbisogni per la estinzione di un uomo? Ecco, la mia vita trapassa per sentiero di tormenti, che da me stesso mi appresto; la lascio consumare nell’angoscia; ma quando minaccia di spegnersi, mi adopro a suscitarla, perocchè ella sia deposito di vendetta e di rabbia.»
«Che cosa dunque può farti tanto crudele contro te stesso, e contro il tuo luogo natale»? Qual cosa è al mondo, che possa farti conservare la esistenza malgrado la vergogna e il dolore?»
Il timoniere non dice parola.
«Una mente infiammata» prosegue Carlo «dalla malattia, o dalla passione; una morta ragione, un’anima conturbata dal furore, possono solamente concepire codesti disegni.»
«Carlo!» con voce soffocata risponde il timoniere «come vi sentite fermo di cuore? soprapponetevi una mano, e tentate se può reggere ad un racconto.»
«Noi abbiamo veduto trucidare al nostro fianco i più leali vassalli senza piangere, come senza ridere vedemmo posare sul nostro capo la corona di Provenza.»
«Non basta.»
«Noi siamo uomini; passioni soprannaturali, cercale dai demoni, o dagli angioli: nondimeno prova.»
«Lo volete?»
«Pare che la nostra volontà non possa avere grande potere sopra i moti del tuo cervello; – noi lo desideriamo.»
«Ascoltate; e poichè il mal seme della morte e del peccato non può esser distrutto nel mondo, voi che siete nato per reggerlo, traetene argomento di migliorarlo: sono certo, che non riuscirete nel vostro assunto, ma questa è la via che il Signore ha tracciato ai Regnanti della terra. – Non lontano da Napoli verso Pozzuolo sorgevano due nobilissimi castelli, fabbricati negli antichi tempi da due Baroni langobardi, allora quando Zotone venne appellato Duca di Benevento dal glorioso Re Otari, che non conobbe altro confine al suo Regno che il mare. Correva fama che quei Baroni essendo per antica amicizia come fratelli, insofferenti di starsene da troppo gran tratto di paese separati, gli edificassero così vicini; che le prime pietre poste nei fondamenti fossero tinte del sangue di ambedue loro; e che un savio negromante vi susurrasse sopra tali scongiuri, e vi incidesse tali cateratte, per cui i signori di quei castelli sarebbero stati sempre stretti di scambievole amore fino al punto in cui uno di questi odiando il compagno per inganno, ne sarebbe stato ucciso contro volontà dell’omicida; ed allora, aggiungeva il vaticinio, i castelli sarebbero rimasti per poco tempo in piedi, essendo che lo incanto fatto col sangue cavato dalle vene in pegno di amicizia dovesse sciogliersi col sangue versato per ira. Ahi! che la profezia, in parte avverata, doveva avere in me compimento, che in me vedete lo sventurato signore di uno di quei castelli.»
«Voi Cavaliere! « interruppe Carlo, facendo mostra di ossequio maggiore, che per innanzi non aveva praticato col timoniere.
«Sono una creatura che deve morire;» rispose questi tutto cruccioso «ponete mente al racconto, nè proferite parola; egli non merita essere interrotto da così abiette osservazioni. – Sapete voi come si sente l’amicizia in Italia, ove tutte le passioni tengono del calore del sole che la riscalda? L’amore di forma femminile è nulla in paragone di lei: questo desio nato da vaghezza di piacere, e mantenuto dalla fragile beltà che gli anni guastano, o distruggono, si spegne nello stesso diletto; la ragione non presiede alla scelta, spesso anzi ne adonta, e se questo non avviene in breve ora, il tempo è infallibile; con quello strumento medesimo che incide la via della morte su la fronte della donna, consuma le catene dell’anima; lo intelletto rimane liberato dalla vergognosa servitù, – ma tardi, e il pensiero dell’uomo dall’amore trapassa alla tomba, perchè ella da lunga pezza lo chiama; e quantunque non abbia posto mente alla chiamata, la sua persona sta ricurva verso la terra per abbracciarla di eterno abbracciamento: questa è la turpe vicenda di colui che arde la sua anima in olocausto alla voluttà. L’amicizia procede diversa: si ama per questa con furore, ma non a cagione di forma leggiadra, ma senza desio di diletto; sta con tutte le buone passioni, e tutte pel suo influsso diventano migliori; la donna privata di sentimento sublime sente amore o nulla; lo affetto pe’ genitori, pe’ fratelli, per i parenti, non può paragonarsi con questo; quali la Natura o il caso gli ha dati, sono i genitori e i parenti: gli amici, quali il cuore gli ha scelti; quando i capelli diventano canuti, e tutte le cose si affacciano alla mente come immagine di rimembranze lontane, le guance, quantunque, pallide, conserveranno sempre un rossore, l’occhio una lagrima, al nome dello amico assente, o defunto: ha l’amicizia qualche cosa di sacro, quando, perdendosi nei misteri della infanzia, due enti si trovano innamorati prima che conoscano amore, prima che la volontà eserciti i suoi attributi: ma la volontà benedice quel nodo, la ragione ne sorride. Qual cosa si negherebbe allo amico? – la vita è stimata il dono più prezioso che la Divinità faccia all’uomo, e pure credesi povero sacrifizio all’amicizia: – facoltà, comodi, pace, sarebbe bassezza profferire; – l’onore non chiede, perchè si nudre di questo: l’amico ti seguirà in ogni sventura, ti sosterrà cadente, ti rileverà caduto, sarà la tua pompa nella gloria, sostegno nei disastri; piangerà al tuo pianto… ora mi trovo condannato a piangere solo!»
E qui abbassa la faccia, e per lungo tempo: – quando la rileva, comparisce suffusa di lagrime; – gli occhi infiammati, come se avessero durato un qualche grande sforzo per farle sgorgare; – e tremante prosegue: «Io l’ebbi questo amico, – io lo amava, – e lo uccisi!»