Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 15
La faccia gli ricade sul petto, il suo respiro diventa affannoso.
«Io l’ho trafitto, e pure mio padre mi avea comandato di amarlo: – io l’ho trafitto, e pure il grido del mio cuore, più forte di quello di mio padre, mi costringeva ad amarlo! I nostri genitori quando nascemmo c’imposero i loro nomi medesimi, perchè la morte dubitasse di avere dominio sopra l’amicizia delle nostre famiglie; amavano che i secoli maravigliati riputassero i Folcando e i Gostanzo eterni tra i mortali per volere di Dio, onde stessero esempio perenne di questo nobile affetto. Bevemmo nella medesima tazza, riposammo nel medesimo letto, furono i nostri studii, e i nostri sollazzi comuni, e crescemmo stupore degli uomini, e benedetti dal Signore. Quando i nostri padri morirono, le ultime loro parole furono preghiere e consigli, per conservare lo scambievole affetto, ed aggiungevano essere questa la porzione più preziosa del retaggio che ci lasciavano. I nostri campi non ebbero confine, i nostri armenti confusi; volentieri ci saremmo ridotti ad abitare un solo castello, ma per rispetto alle memorie paterne non volevamo fare l’altro deserto: convenimmo dimorare alternamente ora l’uno ora l’altro, e così facemmo. Scorsero anni felici, di cui la rimembranza nell’angoscia presente è tormento più feroce di quello che la vendetta possa desiderare al nemico. Allo improvviso Berardo diventa pensoso, spesso si smarrisce per la foresta, tardi ritorna al castello, nè per quanto siasi affaticato, può gustare cibo, o bevanda. – Tu soffri, amico mio, un giorno gli dissi, – ed egli mi rispose: Io amo; – gli domandava: Qual donna? – Era una santissima fanciulla, figlia di povero Cavaliere, che abitava forse due miglia distante dai nostri castelli. I cuori dei giovani s’erano accesi di scambievole amore, desideravano dirselo, più desideravano renderlo sacro con la religione, ma non osavano, – tanto erano verginali quelle due anime innocenti! Io fui quegli che tentai la fanciulla; io, che la chiesi al padre; io, che apparecchiai la festa, e sollecitai il rito; nè per nulla ne divenni geloso, che ben conosceva lo affetto di moglie essere diverso da quello di amico, e il cuore di Berardo restarmi pur sempre intero. Vi narrerò la gioia dei vassalli, il tripudio degli sposi, l’allegrezza dei parenti, il fragore dei conviti? Io lascio queste cose come non importanti al mio assunto; lascio ancora i bei giorni che tennero dietro a cotesto caso, e narro quelli d’ira e di sangue. – La bella sposa ebbe vaghezza di accompagnarci alla caccia, noi la menammo; e desiderosi di preda tanto ci avvolgemmo per la selva, che ormai diventava impossibile di poter giungere avanti vespro al castello. Uscimmo dalla foresta, e c’incamminammo verso una casa, che compariva da lontano in mezzo della pianura. – Arrivammo. – Un Cavaliere in modo cortese c’invita a entrare; io lo guardo in faccia, e sento turbarmi da non mai più sentito sgomento. che poi a prova ho conosciuto essere un miscuglio d’odio, di disprezzo e di fastidio: volgo il cavallo per fuggire colui che aveva suscitato nella mia anima la sensazione del rettile velenoso; mi rattiene Berardo, e mi forza a seguirlo: entro in quella casa tremando, presago di qualche gran danno; il Cavaliere mi sorride; quel sorriso mi strazia le viscere; abbasso lo sguardo per non vederlo; non parlo, ricuso il cibo, fingo súbito male, e affretto la partenza; per via di tratto in tratto giro la testa sospettoso, come se alcuno m’inseguisse, e prorompo in voci di minaccia: Berardo e Messinella stimano ch’io abbia perduto il senno. Passano alcuni giorni nei quali non vedendo, nè rammentando il fatale Cavaliere, la calma torna a serenarmi lo spirito. Certa sera, mentre cavalcava a diporto, sento sollevarmisi in mente irresistibile desiderio di tornare al castello; sprono a precipizio il destriero, arrivo, e vedo un cavallo legato nella corte; ascendo le scale, – un Cavaliere favellava domesticamente con Messinella, la teneva stretta per mano; ella era pallida, e sembrava spaventata di trovarsi sola con quell’uomo; al rumore dei miei passi costui si volge, – troni del cielo! io vedo l’ospite spaventoso. Egli si leva subitamente, mi viene incontro, mi saluta e mi porge la mano; – la mia non si mosse, pareami averla incatenata sul fianco; le parole che favellai furono poche, ed amare: accortosi ch’egli era il mal gradito là dentro, tolse licenza, e se ne andò. Rimanemmo io e Messinella, con gli occhi bassi, senza osare profferire accento intorno al Cavaliere; pareva che colui avesse sopra la persona una malia che ci affascinasse, o la naturale proprietà di quei serpenti che ne fanno col fiato loro cadere privi di sentimento. Venne Berardo al castello, fu apprestata la cena, ma l’allegrezza per quella sera non istette alla mensa con noi. Da quel punto comincia la orribile istoria. Berardo diventa tacito, e sospettoso; non che cercare il mio aspetto, lo fugge; gli occhi di Messinella appaiono spesso infiammati; e sebbene ogniqualvolta appena mi vede da lontano mi corra incontro sorridendo per abbracciarmi, – ben sono medesime le labbra che sorridono, ma non è più quello il sorriso di prima; ben sono medesime le braccia che mi cingono il collo, ma ora leggermente, e súbito cadono come se avessero troppo osato. Nè il Cavaliere tralasciava di visitarci; anzi in proporzione che vedeva germogliare i semi di discordia, veniva a godere dell’opera sua. Un senso segreto mi avvisava della sua venuta, però che io mi ritirava immobile in un canto della sala, soprapponendo le mani sul pomo della spada, e finchè egli vi dimorava, i miei sguardi stavano fissi su la sua faccia, ed egli ostentava di non badarci: spesso io gli faceva un leggiero oltraggio onde egli dicessemi villania, e così avere cagione di dargli d’un pugnale nel petto; ma egli, anzi che chiamarsene offeso, trovava per me scuse, che non avrei voluto, nè potuto proporre. In questo modo procedevamo tutti in silenzio, – silenzio di rancore e di minaccia, simile a quello che suole andare, innanzi agli sconvolgimenti della creazione. – Sorge, il giorno che non dovea essere rischiarato dalla luce, non annoverato tra quelli dell’anno: la Natura, quasi consapevole del misfatto che doveva commettersi, ne fece il principio spaventoso; una nebbia grigia ingombrava tutto l’orizzonte, il sole vi si avvolgeva dentro come un fuggiasco, guardando trucemente la terra: allorchè fui per uscire, la tempesta infuriando mi costrinse a restare; – ell’era pena per me trovarmi nel castello di Berardo, – ma non poteva dimorarne lontano; – superava ogni tormento quello di non vederlo. A sera il cielo in parte si rischiarò; montai a cavallo, corsi al castello di Berardo; entro, domando di lui, – mi rispondono che fin dalla mattina, a malgrado della pioggia, si era allontanato, nè ancora lo avevano visto di ritorno al castello: vado oltre, mi occorre Messinella con un sorriso, che parve fiore sul volto di un morto; ci abbracciamo e ci poniamo a sedere; – io stava di faccia a lei. Dopo lunga ora, – Messinella, le dico, voi non siete contenta. – Ella mi risponde con un pianto dirotto; poi si guarda all’intorno, e mi dice: – Bel fratello, – così da gran tempo soleva chiamarmi, – questo non è luogo acconcio, venite: – e qui si leva in piede, mi prende per mano, e mi conduce nella selva vicina. Giunti in luogo appartato, io non osava interrogarla; la povera donna alzò gli occhi al cielo, e mi disse in lamentevole accento: Orribile segreto mi posa sul cuore, o fratello, segreto che minaccia la mia vita, e che adesso voglio deporre nel vostro seno, come il mio testamento: – Berardo ha cessato di amarmi! – E me pure, o Messinella, gridai, ha cessato di amare il vostro consorte: e sì, che se parte del mio corpo lo avesse offeso. l’abbrucierei subitamente, perchè non guastasse il cuore ch’io devo conservare per lui. – Ed ecco, rispose Messinella aprendo le braccia, Iddio vede la mia innocenza, egli sa s’io sono rea pure di un pensiero; – dopo lui Berardo è il mio amore: quantunque io non gli abbia aperta l’anima mia, ella n’è così innamorata, che non può sopportarne il disprezzo; quando Berardo si trova presente, io nascondo la mia afflizione, ma allorchè non mi vede, piango, e piango… oh! mio bel fratello, voi non potreste pensare quante lagrime abbiano versato gli occhi della povera Messinella: non anderà molto, che voi entrando nella corte di questo castello mi troverete stesa sul letto di morte, esposta alla compassione od alla curiosità dei vassalli; in quel punto, fratello, voi prenderete per mano Berardo, lo condurrete dove giacerò cadavere, e gli direte: – ella è morta di amore per te… oh! s’egli verserà una lagrima, se manderà un sospiro, io fino d’ora gli perdono ogni mia afflizione: promettetemi, fratello, che lo farete, giuratemelo, non vogliate negare questo conforto alla povera addolorata! – Dopo queste parole, la interruppe un singhiozzo convulso, e declinò la faccia sopra il mio seno; io era commosso profondamente: – No, bella infelice, esclamai, a te non istà morire; il rettile ha tentato di contaminare il bel giglio, ma io lo calpesterò nella via; il serpente si è avventato al destriero perchè si perda cavaliere e cavallo, ma rimarrà infranto nella impresa di perfidia. – E così favellando le presi con ambe le mani la testa, e la baciai in fronte. – Allo improvviso ascolto uno strido acutissimo, uno stormire per le frasche della selva, ed uno allontanarsi precipitoso; balzo stupefatto, corro là d’onde m’era sembrato che si fosse partito il grido; – nessuna traccia d’uomo mi si presenta alla vista. Torno a Messinella, che appoggiato il suo nel mio braccio, mi accenna di riprendere la via del castello; ella era trista, abbattuta, appena mutava di passi. Io pensava tra me di recarmi nei giorno appresso di buon mattino da Berardo, e chiedergli ragione della condotta strana contro il suo amico, e la sua consorte. Intanto giungiamo al castello; l’accompagno nella sala, e prendo commiato. – Addio, mi disse l’infelice, rammentatevi di Messinella. – Io m’incammino col cuore chiuso; giunto alla porta, mi richiama un’altra volta – poi un’altra; – sventurata! pareva che una voce segreta l’avvertisse, che non doveva vedermi più mai. Io parto: – abbandonate le redini sul collo del destriere, con le mani incrociate sul petto, percorro la via che mena al mio castello. Ad un tratto una voce per le tenebre dietro mi chiama: – Gorello! Gorello! – Mi soffermo: la voce pareami straniera, nondimeno rispondo: – Chi è, e che vuole colui che per la notte ha pronunziato il mio nome? – Gorello! ripete un cavaliere, e nel punto stesso mi si pone al fianco. Al chiarore incerto delle stelle lo riconosco; aveva scoperta la testa, i capelli scomposti, la voce alterata. – Berardo! siete voi? che tutti i Santi vi aiutino. – Sono, ma i Santi mi hanno abbandonato! – Non gli risposi, perchè ormai aveva stabilito di tenergli nel giorno appresso il discorso intorno ai Suoi nuovi costumi alla presenza di Messinella. Così taciturni camminiamo fin dove la via egualmente distante dai nostri castelli si piega in angolo: quivi stava piantata una Croce, che i nostri vassalli chiamavano la Croce nera. – Scendete, mi grida Berardo, e al punto medesimo smonta da cavallo. – Io che pongo ogni mio contento in piacergli, balzo a terra; ed ei mi comanda di sguainare la spada. – V’è forse persona che c’insidii la vita? – Togliete la spada, lo saprete dopo, – mi dice. – La traggo tosto dal fodero, e mi pongo in atto di ferire. – Difenditi! – grida Berardo, e mi si getta addosso a corpo perduto. Atterrito dalla improvvisa ventura, non manco a me’ stesso, e paro i colpi: in mezzo al fragore dei ferri che si cozzavano orribilmente tra loro, si udiva la mia voce gridante: – Che è questo, Berardo? Deh! mio dolce amico, mio diletto fratello, abbassate la spada, ascoltatemi per l’amore di Dio, in nome dei nostri morti genitori! – Non rammentarli, mi risponde terribilmente Berardo, tu ne sei diventato indegno dal momento che ti facesti traditore. – Traditore io! Berardo, sospendete un solo istante… uditemi… voi volete la vostra morte. – Mi oltraggi tuttora, mormorò tra i denti Berardo, ti prevali della tua destrezza per aggiungere al danno lo insulto! – E raddoppiava i colpi: essi cadevano così spessi, ch’io non potei attendere ad altro che a difendermi. In quel buio, appena scorgendo Berardo, aveva procurato di non smarrire la punta della sua spada, sviarne le percosse fino a stancarlo, che veramente io aveva molto maggiore lena di lui: allo improvviso la perdo; ringraziando Dio di questo caso, m’incammino brancolando dove stavano i cavalli, preferendo la taccia di vile al cordoglio di trafiggere l’amico: col braccio teso sporgo la spada, – s’incontra in un corpo che cede, e stramazza: – s’inalza un sospiro; – Berardo giaceva immerso nel proprio sangue. Getto la spada, e urlando mi curvo a terra: – Hai vinto, mi dice Berardo; a me non è concesso punirti, ma mi avanza anche qualche ora di vita. Si appoggia al mio braccio, si rileva in piedi, e con la fascia che gli reggeva la spada si benda la ferita; – ella non era mortale; io avrei forse potuto salvarlo, ma rimasi stupido senza potere proferire parola, o stendere passo. Berardo, impedito alla meglio che il sangue sgorgasse, perviene a montare a cavallo, e fugge dal mio cospetto; nè io mi muovo. Ornai si udivano appena le lontane pedate del fuggente destriero, quando mi riscuoto, e senz’altro pensare salto sul mio, e gli conficco gli sproni nei fianchi; egli era bene veloce sopra quanti cavalli portassero cavaliere in quel tempo, ma Berardo di troppo mi precedeva: io lo chiamo, ma egli non ode, o non cura rispondermi; mille volte a rischio di andare col mio cavallo sossopra, corro furiosamente, già gli son presso, lo arrivo, – ei passa il ponte: ripungo duramente con ambedue gli sproni il destriero, tutto trafelante e affannoso; sono giunto sotto il castello, – Berardo è già trascorso, il ponte rialzato. Ora con voce di pianto io chiamava a nome tutti i vassalli perchè calassero il ponte, – non rispondevano; – adoperai le promesse, le minacce, gli scongiuri pe’ Santi, pe’ loro morti, pe’ loro vivi, per quelli che dovevano nascere, – non rispondevano; – scesi, e mi detti ad aggirarmi intorno il castello, corsi, ricorsi, – il muro era alto, il fosso profondo; – rifinito dalla stanchezza e dal cordoglio, cado svenuto per terra: quanto io stessi privo di sensi, non so; questo solo conosco, che sarebbe pure stata grande pietà non farmi ritornare in me stesso! Avanti che lo sguardo fosse tornato allo usato ufficio, un gran splendore mi percosse la facoltà visiva, – un ronzio confuso d’urli, di pianto, di femminili querele, e di latrati, mi rintrona gli orecchi: – apro gli occhi… o Cristo! il castello di Berardo va in fiamme. Senza che l’anima fosse consapevole dei miei moti, io mi trovo in mezzo al fosso menando mani e piedi per giungere all’altra riva: – la prendo, tento un luogo per arrampicarmi; – mi aggrappo, – sono giunto a mezzo del muro, – non trovo più oltre dove mettere il piede, – rovino, lasciando su i sassi la pelle delle mani e del viso. – Chi potrà dire quante volte mi arrampicassi, quante cadessi; chi le mie percosse e le mie ferite; chi il supplizio dell’anima mia? Orribilmente ansante, tutto sanguinoso, afferro alla fine un merlo: – quale io mi fossi all’aspetto non dirò: basti solo, che nessuno mi riconobbe, e credendomi il demonio suscitatore di cotesto incendio, fuggivano urlando disperatamente misericordia! Eccomi sul limitare del palazzo: egli era tutto una vampa; a quando a quando, mentre il vento soffiava, se ne vedeva parte tuttora in piede: un trave infuocato rovinando, per poco stette che non mi schiacciasse sul limitare; – corro oltre, – le scale vacillano sotto i miei passi, – le pietre scoppiando mi percuotono il corpo con ischegge roventi, in così dura maniera che un balestriere non avrebbe potuto maggiore: traverso una sala, vado al corridore che conduceva alle stanze di Messinella: – appena mi vi affaccio, sprofonda; – ritorno su i miei passi, prendo per altre camere che con diverso cammino menano alla stanza desiderata, spingo l’usciale… Orribile misfatto! Messinella supina, con le trecce sparse, le braccia aperte, giace sul pavimento trafitta di cento colpi; – le sue ferite sono più atroci di quelle con le quali l’odio si compiace lacerare corpo nemico; elle erano studiate con salvatica ferocia: aveva gli occhi divelti e rovesciati giù penzoloni per le guance, la faccia tagliata in minutissime righe, la gola aperta… – Deh! non rammentiamo più oscene ferite, di cui la rimembranza è un fremito di disperazione. Ora mi sorprende la solita immobilità, rimango lì senza piangere, senza parlare, come impietrito: – scrolla la stanza, si aprono le pareti, e mostrano per le fessure lo inferno: – lo istinto della vita mi spinge fuori; – sprofonda con ispaventoso fracasso, e io scorgo tra i vortici delle fiamme e del fumo sparirmi il cadavere di Messinella. Un urlo di fiera adesso si fa sentire in un corridore a sinistra; corro a quella volta; – cieco della mente e del corpo, percuotendo in tutti i muri, col seno aperto per molte piaghe, gestendo con le mani, come il naufrago che cerca la riva, errava Berardo. – Che hai tu fatto? gli grido. Ei non mi ascolta, e corre, come il destino lo porta, dove il terreno rovinato gli appresta morte sicura. – L›afferro, – egli urla, più che dolore fisico può fare urlare umana creatura; incredibili sono i suoi sforzi per isvincolarsi dalle mie braccia: forse sarebbe giunto a sfuggirmi, se non fosse stato quasi vuoto di sangue. Me lo carico sopra le spalle, e mi pongo a cercare una uscita; – da tutte le parti fuoco: e bene sia, – arderemo insieme, e troveranno le mie ossa abbracciate alle sue: egli ha misfatto, ma, innocente o scellerato, io l›amo quanto l›anima mia. Fermo in questo pensiero, mi ritraggo un poco indietro, quindi mi do a correre a capo basso, e m›immergo nelle fiamme: elleno mi avviluppano intero; io le vedo scorrere ora sotto i miei piedi come onde trasportate dalla bufera, ora avvolgersi in colonne spirali, e circondarmi di certissima morte; – fuoco divampavano le vesti, fuoco i capelli; la carne incotta, gli occhi per tanta luce divenuti ciechi. Il dolore accelera il passo, il termine della fiamma è vicino; – un urlo acutissimo si spande allo intorno, ma io non vedo nè odo più nulla, perchè stramazzo come morto per terra. Allorchè mi rinvenni, vidi un Frate Benedettino, antico famigliare di casa, seduto accanto al mio letto; il quale prima che io parlassi mi fece cenno di tacere, ma io non potei trattenermi da sospirare: – Berardo? – Vive, rispose il Frate, ma voi tacete in nome di Dio. – Non posso; Padre, io sento che più poche ore di vita mi rimangono; volete ascoltare la mia confessione? – E il Padre benedicendomi soggiungeva: – Dite. A mano a mano ch›io progrediva nell›accusare le mie colpe, m›interrompeva con esclamazione di maraviglia, della quale non dava ragione, siccome timoroso di manifestare un segreto che doveva tenere celato. Finita la confessione, tra atterrito e commosso mi domandò: – E non avete da accusarvi di nessuna altra cosa? ricercate bene la vostra memoria, se per avventura alcun fallo aveste dimenticato. – Ho detto tutto, e tutta verità, che non ho mai mentito in faccia degli uomini, pensate se oserei adesso in faccia a Dio. – Dunque, esclamò il Padre giungendo le mani, dunque sono stati traditi! – Allora lo pregai, se potessi vedere il mio amico innanzi di morire; ed egli mi confortò a starmi tranquillo; – lo avrei veduto prima che fosse sera. Vennero all›ora stabilita quattro vassalli, e preso ognuno di essi un lembo del lenzuolo, mi trasportarono soavemente nella stanza di Berardo; – c›incontrammo con un grido: fui adagiato su di un letto; e ciò fatto il buon Padre ordinò che ognuno si ritraesse. Io non ardiva favellare, Berardo forse lo sdegnava, il Frate cominciò: – Figliuoli, voi, come sentite, siete presso a passare; vi giova quindi partirvi da questo mondo amici come vi siete vissuti; perdonatevi scambievolmente, e come vuole la legge di Cristo, perdonate, al peccatore che ha desiderato la vostra morte, pregate Dio che voglia toccargli il cuore, onde la sua anima sia salva; – voi siete stati traditi. – Frate, parlò con voce fioca Berardo, quando anche fosse falso quello che mi disse Drogone, non ho io visto costui con la scellerata Messinella tradirmi nella foresta? – Che hai tu visto, sciagurato, risposi, che mille volte con tuo piacere non abbia fatto alla tua propria presenza? Ora mi si svela un orribile mistero. Come non ti sei accorto che lo sleale Cavaliere amava la povera Messinella, ed ella, ed io, mortalmente l›odiavamo? Tu cadesti nelle insidie del demonio, egli ha perduto noi tutti: oh! io ti compiango, Berardo, io ti compiango! il bacio che detti sopra la fronte di Messinella fu puro come quello che si offre su le reliquie dei Santi. – No, tu mi hai tradito, e quando tu non mi avessi, dimmi per pietà, che mi hai tradito! – Bruci l›anima mia per tutta l›eternità nei tormenti, come io non dirò mai di avere fatto o pensato cosa che fosse contraria all›onore del mio amico Berardo. Questa è la fede che dopo tanti anni di amore avevi riposta nel tuo Gorello? – Pensi che le tue rampogne possano aggiungere un grano alla immensità dell›affanno che sente lo uccisore d›una moglie, il distruttore del castello paterno? Ma tu non giureresti che sei innocente! – No? Padre, avreste voi nessuna cosa di Santo su la persona? – Tengo un frammento del legno della Santa Croce che un pellegrino di Gerusalemme con fraterna carità mi ha donato; rispose il Frate, e aprendosi la veste trasse fuori la reliquia e me la porse: io la recai devotamente alla bocca, e pieno di quel coraggio che dona la buona coscienza, con voce sonora esclamai: – Per quel Dio, che abbandonando il suo trono di gloria volle sostenere gli oltraggi degli uomini per salvarli dalla morte eterna, pel sacratissimo sangue che versò su questo tronco benedetto, per la salvazione dell›anima mia, per quella dei miei defunti, per la fede di Cavaliere che ho giurato innanzi al mio Re quando cinsi la spada, io Gorello Gostanzo solennemente protesto e sacramento alla faccia di Dio e degli uomini, che nè in detto, nè in fatto, nè in pensiero, ho mai tentato di guastare l›onore del mio amico Berardo Falcando, e che di ogni imputazione ed accusa sono pienamente innocente. – Niun gemito, niuna parola— per parte di Berardo.– Padre Ugo gli si accosta, curva la testa, sovrappone la sua alla faccia di lui; dipoi tornando alla mia volta chiama i vassalli, ed ordina loro che mi riportino alla mia stanza. Io prego il Frate a non permettere che di là mi rimuovano; non concedendolo egli, grido che non mi terrebbero senza la forza: il buon Padre invano si affatica a persuadermi, che più sempre mi ostino nel mio proponimento: allora i vassalli si apprestano a farmi violenza, tento resistere ma le mie forze erano spente. Sono trasportato: la rabbia della impotenza, e il timore pur troppo giusto che Berardo fosse morto, irritarono talmente le mie afflizioni che caddi in deliquio. Poichè mi riebbi, vidi al mio capezzale Fra Ugo, che subito prese a confortarmi con soavi detti, e bellissimi esempii tolti con molta dottrina dagli Evangeli, ma che non fruttavano nulla con me, ormai disposto di morire. Scongiurai il Frate in nome di San Benedetto a dirmi se Berardo viveva; ed egli, male potendo resistere allo scongiuro, mi raccontava, come la piena del rimorso, più che le sue ferite, avesse ucciso Berardo: allora tentai sfasciare le mie, nè potendo, sorsi dal letto furente, per cercare la morte, o dando del capo nella parete, o precipitandomi dalle finestre; fui rattenuto, e d›ora in avanti diligentemente guardato: disposi lasciarmi morire di fame, nè per quanto s›ingegnassero, potevano mai riuscire a farmi trangugiare cibo, o bevanda: – era in me sorta una smania rabbiosa di morte. Ad un tratto mi si presentò il Maggiordomo del mio castello, sgomento come persona travagliata da irreparabile sciagura: – Monsignore, Monsignore, fiero caso accadde nel vostro castello! – voi non avete più castello: vennero stamane cento uomini d›arme, che si sono fatti calare il ponte a nome del Re, ne hanno cacciato la vostra famiglia, e ne hanno preso possesso. – Gran Dio! qual mai misfatto ho commesso perchè tanto duramente debba essere perseguitato! – Oh! Monsignore, a capo dei cavalieri vidi tale uomo, che per quanto si nascondesse il viso giunsi a riconoscere. – Chi? dillo! – Quel Cavaliere che vi faceva l›amico, che veniva a prendervi sovente per andare insieme alla foresta, – quell›alto, bruno, che abita il palazzo della pianura. – Drogone? – Monsignor sì, Drogone. – Non dissi parola: ma da quel punto feci un orribile giuramento, che in rammentarlo mi si arricciano i capelli, nè mi sta ferma fibra del corpo: promisi l›anima al Demonio, rinunziai al battesimo ed agli altri sacramenti, se, innanzi di morire mi avesse fatto vedere il cuore del traditore. Diventai più di qualunque codardo avaro della mia vita, e ben mi fu d›uopo confortarmi, che due giorni appresso il fidato Maggiordomo venne a dirmi, aver saputo da persona del castello, come mandavano gente per arrestarmi; come di omicidio proditorio mi avesse accusato Drogone alla Corte di Giustizia, come molti miei proprii vassalli avessero attestato contro di me, e giurato, che nella notte dell›incendio io gridava ad alta voce essere stato l›uccisore di Berardo; aggiungeva che furono spedite le citazioni, ma non consegnate, perchè mi condannassero in contumacia; di tutto questo doversi incolpare Drogone, che, per essere creatura del Conte della Cerra Gran Camarlingo del Regno, poteva agevolmente tutte queste cose conseguire. Mi riparai nella capanna di una guardia dei miei boschi, dove la pietà di alcuni vassalli amorosamente mi trasportò; invano fui ricercato dalla vendetta, che la fedeltà dei vassalli prevalse con unico esempio alla rabbia dei nemici. Giunsi a sanare, comecchè in parte rimanessi deturpato: mi provai le armi; da prima mi parvero insopportabile peso, a mano a mano come per lo tempo passato leggiere. Allora mandai cartelli a diversi Baroni perchè mi concedessero il campo, e sfidai il traditore. Drogone tacque, i Baroni risposero scusandosi che non potevano tenere il campo. Mandai messi, lettere a Manfredi; nessun messo tornò indietro, nessuna risposta. Così logorava il mio tempo, e la mia anima. Una sera sul finire di marzo la guardia venne ad avvisarmi che fuggissi; avere veduto molti armati sparsi pel bosco, ed inteso che mi cercavano; – mi affrettassi, un sol momento mi avrebbe condotto a certa rovina. Fuggii, ma parendomi impossibile sottrarmi alle perquisizioni dei cavalieri, che mi sentiva alle spalle, divisai aggrapparmi sopra un albero: quivi passai la notte, – qual notte! che Dio la faccia provare soltanto al mio nemico! – Alla mattina tesi l’orecchio, nessun rumore si sentiva per la foresta; scesi, e mi avviai senza sapere dove, che troppo mi gravava tornare alla casa di cui mi aveva cacciato: vero è bene, che ciò facendo provvedeva alla mia ed alla sua sicurezza, ed il bisogno l’aveva costretto; ma ad ogni modo io era stato cacciato, e fosse superbia, o generosità, piuttosto che riparare nuovamente in quel luogo, avrei scelto morire a cielo scoperto. – Seguiva i più intrigati sentieri, guardavami sospettoso all’intorno; – quante volte un leggiero susurro di frondi agitate dal vento m’impallidì il sembiante! quante il latrato dei veltri lontani! – Parevami essere una fiera, di cui alla caccia convenisse il genere umano… Se in quel punto mi fossi incontrato in mio padre, lo avrei tenuto, e trattato, come si trattano i più odiati nemici. Così coll’animo commosso dalla paura del sovrastante pericolo, giunsi verso sera sopra le rive del mare; – egli era tranquillo, e pareva m’invitasse a farmi suo cittadino, da che su la terra non aveva più da sperare; mi si presentò come amico che mi offrisse salute, e mi allettasse con la speranza di eventi meno tristi: spesso aveva veduto il mare, ma non mai con sentimento di amore siccome questa volta. La fortuna mi fu di tanto cortese, che indi a poco scôrsi con infinito piacere una saettía, che da Ischia andava a Pisa, costeggiando la riva: chiamai la gente, scongiurando per l’amore dei Santi, che seco loro mi accettassero; il Maestro, che uomo compassionevole era, mi tolse volentieri, ed io gli raccontai come fossi un povero vassallo che per avere offeso involontariamente il signore era stato condannato alle verghe. Gli uomini di mare, che, per quanto ho osservato in séguito, sono naturali nemici della tirannide, e per conseguenza grandissimi estimatori della libertà, si appassionarono per me, e tennero per fortunata la ventura di aver potuto sottrarre un uomo alla brutale ferocia
di un Barone. Arrivammo a Pisa con prospera navigazione: quivi, desideroso di farmi valente nell’arte di percorrere i mari, tolsi commiato da loro, e mi acconciai su le galere che navigano a Tiro, a Tolemaide e in altre terre di Levante. Di ritorno a Pisa, co’ danari procuratimi mandai segreti messi ad alcuni dei miei vassalli, affinchè mi chiarissero di ciò ch’era avvenuto dopo la mia partenza. Intanto strinsi amicizia con un certo Guasparrino marsigliese, ricco mercante, che conosciutomi delle cose di mare espertissimo, mi propose di governare la sua galera. Tornati i messi, seppi del mio castello essere stato dal Re Manfredi investito Drogone, il quale per opera del Conte della Cerra tanto si era avanzato in sua grazia, che lo aveva nominato Ammiraglio del Regno; allora accettai la proposta del Marsigliese, e da quel momento in poi una immagine di speranza ha lusingato il mio cuore che un giorno o l’altro potrei incontrarlo sul mare: – oh! allora… volgono cinque anni che vesto il cilicio, e mi circondo di terribili angoscie per sorridere alla morte, come a mio liberatore. Se alla mia vendetta si unisse la utilità della terra che mi ha veduto nascere, forse il mio nome ne avrebbe gloria nelle generazioni future; fatalmente sono disgiunti, e mi frutterà infamia: – che cosa importa? forse verrà tale che dispregiando la lode e il biasimo che danno gli uomini, – e loro; – tale che scrutinando impassibile le azioni chiamate delitti, e quelle chiamate virtù, vedrà che il caso, non già il mio volere, condanna il mio nome a comparire scellerato nelle pagine della storia, onde egli non sdegnerà di manifestarla alla gente, e suscitare una lagrima, come che tarda, sul mio feroce destino.»