Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 16
Carlo d’Angiò, degno di sentire altamente, aveva ascoltato quel racconto con tanta attenzione, che non s’era accorto il sole avere già da buon tempo lasciato il nostro emisfero, perchè Gorello non lo narrò così prestamente, come abbiamo fatto noi, ma con tante altre particolarità, che volentieri tralasciammo per provvedere alla pazienza del lettore: ora Carlo riunendo in un punto tutte le sue
sensazioni levò gli occhi al cielo, e mandò un gemito affannoso.
Il cielo si era coperto in gran parte di un nugolone nero, che cresceva da lato di Levante; il vento fatto impetuoso aveva sommosso il mare per modo, che Carlo voltosi al timoniere, parlò: «Parmi che avremo fortuna.»
«Sì, Monsignore. La mia vita è immagine di questa giornata, luce il mattino, tenebra a vespro: questo giorno terminerà forse con la tempesta, – la mia vita non deve finire altramente; – chi sa, che la procella che chiuderà questo giorno non sia destinata a dare compimento alla mia vita!»
«Nostra donna di Reims disperda l’augurio! Noi non possiamo restituirvi la pace, ma in fede di Cavaliere giuriamo, che, potendo, vi faremo giustizia.»
«Gran mercè, Monsignore: intanto ritiratevi, chè un balzo della galera non vi lanci, come poco pratico, in mare; state pur tranquillo, chè se sarà tempo da potersi superare da forze umane, noi lo supereremo.»
«Lo crediamo certamente; e più della fedeltà dei nostri ci dà pegno di questo la vostra vendetta, Gorello.»
Dopo queste parole Carlo, tolta la mano del timoniere, e affettuosamente stringendogliela. soggiunse: «Prendete conforto, Cavaliere; nuovo tempo, e nuovo amico, possono sanare le piaghe del tempo e dell’amico passati. Addio.»
«La buona notte, Monsignor Conte!» rispose Gorello; e quando Carlo prese ad allontanarsi crollò la testa e disse: «Miserabile! anch’egli appartiene alla schiatta di coloro che reputano un sorriso, od una carezza, presente del cielo, medicamento per ogni malattia dell’anima. – Miserabili anche voi! Ma Carlo ha creduto farmi il maggior bene che fosse in potere suo… lasciamo la presunzione, la bassezza e la follia del presente, – rimarrà sempre un pensiero di carità, e di questo merita gratitudine.»
CAPITOLO DECIMOTERZO. IL CUORE MORSO
… Il vidi appena,
Corsi a ucciderlo là…
Ben sette volte e sette entro all’imbelle
Tremante cor fitto e rifitto ho il brando,
Pur non ho sazia la mia lunga sete.
Oreste, tragedia.
Buio d’inferno: – non lémbo di nuvola illuminato dalla luna, non tremolare di stella; – diresti che il firmamento sia morto, e il fiotto del mare ne lamenti la estinzione. La galera di Carlo d’Angiò percorre trabalzata dalla traversia senza direzione sopra la superficie delle acque, di flutto in flutto, dentro una tenebra spaventosa, – come corpo lanciato per lo abisso dello spazio. Da per tutto sgomento: – Carlo geme abbattuto quanto il più tristo che sia su la galera, perchè la vita è ugualmente cara a cui porta scettro e a cui maneggia il remo, – nè forse corre tra essi altra diversità che quella dello istrumento che recano in mano, – almeno per lo amore della esistenza: chi urlava, chi taceva, chi pregava, chi bestemmiava; e i Santi si trovano spesso in caso di dover restare inoperosi a soccorrere una nave, però che metà della ciurma li chiama, e metà gli rinnega; onde è che mentre dimorano incerti a calcolare quale delle due parti preponderi, sopraggiunge un colpo di mare che sommerge la nave, e tronca ogni quistione; la qual cosa non avverrebbe di certo, dove di concorde preghiera tutti si volgessero ad implorare un aiuto, che non può mai venir meno. Il timoniere, esercendo le veci del Maestro ebbro di paura e di vino, visto quello universale sconforto gridava da poppa: «Fate forza di remi; chiudete la vela, se volete salvarvi; operate adesso che il tempo stringe da vero, altramente qui presso è la terra, e ne andremo tutti perduti.»
Di questo discorso furono prese le sole parole convenienti alla presente situazione: «qui presso è la terra, – siamo tutti perduti;» e sortì l’effetto contrario che si era proposto chi lo avea pronunziato.
«Siamo perduti!» susurrò scambievolmente il vicino al vicino, ed abbassarono insieme la faccia livida per lo spavento.
Il Maestro della nave, nel volto del quale la paura non si era manifestata, come negli altri, per via di pallidezza, ma con tale un colore che teneva tra violetto ed il nero, si vedeva intento, con le mani su due vasi di terra per impedire che, cozzandosi in quei fieri scotimenti, si rompessero, e quanto aveva in canna gridava: «Libeccio, libeccio! sono si fatti i modi che suoli tenere co’ tuoi buoni amici? Or corrono ben quaranta anni che frequento casa tua, nè mai quanto questa volta mi ti sei mostrato cruccioso: ti ho forse usato villania? ho tralasciato un giorno di bere alla tua salute? E mi dovevi fare questa vergogna appunto adesso che ho promesso a Monsignor Conte di trasportarlo sano e salvo fino ad Ostia? Senti che scossa! Domine, in adjutorium… che vento indiavolato! – Ne vuoi la fine; e quando avrai fatto percuotere questi due vasi tra loro, i quali da poi che si conoscono sono vissuti da buoni fratelli, e spezzare, e sperdere il mio buon vino, che cosa pensi aver fatto? Almeno tu mi avessi dato tempo di bevermelo… pazienza! Aspetta di grazia fino a domani, e quindi fa quello che vuoi… Domine, in manus tuas commendo…» urlò il povero Maestro, che uno sbalzo terribile della nave fece duramente stramazzare su l’intavolato, e rovesciargli addosso i vasi con tanto amore guardati; onde è che tutto smanioso prendesse a dire brontolando: «Ah! libeccio misleale e fellone, che pretendi? Annegare Monsignor Carlo? Non sai ch’egli nasce di famiglia antica quanto la tua, ed è il più nobile signore di tutta Cristianità? Si fanno esse queste cose ad un fratello di un Re di Francia, di un Santo, ad un campione di Santa Chiesa? Ah! vento, vento, tu ti sei fatto ghibellino, la riprendi per Manfredi. Oh! tra me e te è finita; ho strappato maglia; potresti far miracoli, non ti perdonerò mai di avermi versato il vino, e condannato a morire nell’acqua.»
Il timoniere vedendo che in quel modo si andava incontro a inevitabile rovina, chiamato un marinaro nel quale molto si confidava, gli comandò di tenere per poco il timone vôlto a destra, e scese in traccia di Carlo che trovò col capo nascosto tra le mani sopra una tavola, travagliato dall’angoscia di stomaco.
«Animo!» gli disse Gorello con voce sicura «alzatevi, Monsignore, e venite a confortare la vostra gente, perchè non vedo strada di potere uscire d’impaccio in questa maniera: chi si abbandona, Cristo abbandona; e a morire avanza sempre tempo.»
Carlo, punto di vergogna, balza in piedi, prende pel braccio il timoniere, e si fa oltre: allo improvviso percuote in un corpo disteso per terra, in modo che se non era Gorello vi traboccava sopra.
«Chi sei?» domandò Carlo.
«Oh! Monsignor Conte, sono io;» rispose lamentoso il Maestro «che volete? più cerco di stare in piedi, più il vento si diverte a gettarmi per terra, – vedete gusti! alla fine ho tolto consiglio di starmene così lungo e disteso; in questo modo sarà finita la burla: – e sì, vedete, io non me ne stava inoperoso qua dentro, ma intendeva a fare che non si sperdessero le provvisioni, perchè, Santa Vergine! che ne gioverebbe uscire salvi dal vento, se poi dimani non avessimo vino da bere, nè biscotto da mangiare?»
Carlo, come ogni uomo immaginerà facilmente, non istette ad ascoltare il ciarliero, ma appena sentì ch›era desso, continuò il suo cammino, e venne là dove i remiganti, disperati di salute, giacevano neghittosi lungo i banchi aspettando, chi più chi meno rabbioso, la morte.
«Amici!» Carlo gridò ai galeotti «io non so come a gente quale voi siete, assuefatta a trarre la vita sul mare, siasi cacciata addosso così grande paura. Siete voi femminette che per nulla si disperano, come se fosse sopraggiunta la fine del mondo? Vergogna! Ben altre tempeste abbiamo superato, ben altri pericoli, e con l›aiuto prima di Dio, e poi di Santo Dionigi, supereremo anche questo. Non vedete che la negligenza vostra vi perde, e che così vi date voi stessi in balía della morte? Pensate che un giorno dovrete rendere conto di avere sprecato così le anime vostre. Difendete la vostra vita, che da questo momento noi affranchiamo; avvertite, che se molto dobbiamo fare per essa, moltissimo dobbiamo tentare per la conservazione della libertà che adesso vi abbiamo donato.»
Amici! Carlo, quel fiero uomo, quell’orgoglioso per mille memorie paterne, ha chiamato col nome di amici una vile moltitudine composta la più parte di gente comprata come bestie al mercato, e di facinorosi condannati a far servigio al Principe pel danno che i delitti loro apportarono a speciali famiglie! – pure Carlo lo ha detto. Oh! quando la necessità uguaglia le schiatte di Adamo. e tacendo ogni distinzione diventano pari, io per me mi maraviglio se ii superbo dominatore non sia caduto più basso. – Libertà! Dio eterno! libertà! Su le labbra di Carlo di Angiò, che porta catene ad un Regno intero! I dottori della tirannide, e Carlo aveva imparato alla scuola di quelli, insegnano fino dai rimotissimi secoli gli uomini andare divisi in due classi, l’una delle quali ha da comandare, l’altra servire; e questo avere ordinato madre Natura, non già partorito la fraude o la violenza. Ora in che consistesse questa libertà donata da Carlo a tal gente, che dove il danaro, o la pena, non avesse sottoposto alla servitù, non avrebbe mancato di ridurvela la miseria, noi per verità non sappiamo. Ma la libertà è antica lusinga su la quale i viventi non si sono ancora sgannati, e tutti se ne valgono per acquistare lucro, od evitare danno; anzi, chi meno intende mantenerla, la promette più larga, però che a fine di conto sia parola elastica, e starei per dire quasi priva di senso; – come l’onore, e tale altra, che tralasciamo dire, perchè gli uomini sono gelosi dell’apparenza; – si accomoda alle diverse opinioni, e, camaleonte morale, prende colore dagli oggetti che più le si avvicinano: nel 1796 venne in Italia vestita di azzurro a cacciarne gli antichi dominatori; – nel 1814 vi tornò vestita di rosso per restituirveli; – anche adesso in Francia si schiamazza libertà; libertà in Inghilterra, e libertà in America; ognuna poi di queste libertà era, ed è, affatto diversa dall’altra, spesso contraria. Bisognerebbe dunque che gli uomini distinguessero la libertà in politica, come le piante in botanica; allora forse per libertà spinosa, per libertà lanceolata, per libertà parasita, potrebbe darsi che intendessimo qualche cosa; ma questo negano fare, ed affermano invece dovere essere unica, ed uniforme: ora non essendo unica, nè uniforme, presso nazione del mondo, anzi ciascheduna reputando buona la sua, come gli anelli di Melchisedech giudeo, ne viene ch’ella sia o l’immagine di una mente ammalata di giovanezza, o l’istrumento dell’accorto per suscitare i popoli a cosa che gli torni in vantaggio. Grande esca è questa della libertà per deludere i poveri mortali; nè fin qui se ne accôrsero, nè se ne accorgeranno mai, per la ragione, che i pesci da Adamo in poi si pescano con le reti, o si pigliano con gli ami. E poi e poi, l’uomo s’innamora di tutto, fuorchè di quello che è verità. I sistemi che ho letto in contrario intorno questa materia mi sono sembrati sempre tanti di quei bei discorsi che cominciano col se: se quegli stava in casa, non si fiaccava le gambe; se quegli non fosse povero, sarebbe ricco, e via favellando. E’ bisogna prendere il mondo come viene, non come dovrebbe venire; se ne fosse dato diversamente, oh! allora ogni uomo potrebbe farsi un mondo nuovo a suo modo, e adattarvi dentro quelle vedute che meglio gli piacessero. La gratitudine è una bella virtù; chi lo nega? l’amore pe’ parenti, per gli amici, chi lo nega? e dalla gente moderna non s’è trovato il magnifico parolone di Filantropia? Ma, che Dio v’illumini! dove s’incontrano le cose corrispondenti a questi segni? Avremmo potuto credere che fossero idee innate, ma dopo la guerra di distruzione che mosse loro Cartesio mal sapremmo da qual parte cercarle. Il mondo è lungo tempo, secondo i diversi computi, che vive in questa maniera, e lungo tempo ancora vivrà: gli stolti sono il retaggio dei furbi, i deboli dei forti; – debolezza e stoltezza, poichè siete, e crescete, lasciate governarvi dalla sapienza e dalla forza; fatevi merito dell’assenso, che tanto negando perderete la prova: dormite in pace nel sepolcro della vita, come quiete eterna vi aspetta a casa della morte.
«Libertà! Libertà!» si udì urlare per la galera con tale una voce che prevalse sul fragore del mare imperversato. – «Libertà!» e si dettero a fare di braccia nei remi per allontanarsi dalla terra pericolosa. La galera tagliando di faccia le ondate perviene a fuggire il danno di rompere, e va incontro all’altro d’imbattersi nei navigli che il Re Manfredi tien lungo la costa. – Ma forse anche essi sbatte la bufera, e poi quel danno è incerto, mentre questo altro pende inevitabile; dunque val meglio sfuggire il presente, all’altro, se occorre, provvederemo: – così pensava Carlo, e secondo i calcoli umani, non può negarsi, a dovere. La catena di quelle vicende che non possiamo prevedere nè allontanare, la quale noi chiamiamo Fortuna, si rise di que’ raziocinii, e dispose affatto diverso da ciò che Monsignore il Conte aveva disegnato.
Il vento, quasi spossato dallo sforzo continuo, da un punto all’altro si rimase tranquillo; allora cominciò a balenare, e a tuonare; poi un rovescio tra grandine e pioggia: – in quella notte Carlo doveva soffrire tutti i travagli dell’uomo che consuma la vita per mare. Era trascorsa qualche ora che andavano così, senza sapere dove, vaganti di onda in onda, allorchè ad un tratto la galera percuote aspramente in un corpo che le si para davanti, e crolla in tanto dura maniera che sembra doversi sfasciare. Si alza un grido, – il grido della disperazione! che temerono di avere investito in uno scoglio; ma quando il grido cessò, – che tutte le cose hanno fine, sieno pur quanto vogliono liete o affannose, – ne ascoltarono un altro non meno terribile lì presso di loro. – «È forse alcuna delle nostre galere che battuta dalla tempesta ha cozzato con noi?» diceva una parte di marinari; – altri: «No, è una galera genovese, l’abbiamo riconosciuta alla forma;» – altri: «È siciliana:» – altri, altra cosa, ma i più convenivano che fossero i nemici.
«I nemici! i nemici!» urlano da ambedue le galere; e se avessero potuto manifestare gli scambievoli desiderii, per quella notte si sarebbero lasciati stare.
Carlo d’Angiò, che fu veramente valoroso Cavaliere, per nulla si commuove a quei gridi, e come magnanimo si dispone, da che non può fuggire la battaglia, a uscirne vittorioso.
«Signori Baroni,» dice piacevolmente ai circostanti Cavalieri, che avevano di già l’arme nuda alla mano; «la fortuna nel chiamarci in Sicilia, ne sembra che non ci abbia voluto invitare a convito di nozze; ormai le tavole sono poste, e fa di mestieri mostrare buon viso a tutto quello che ci verrà apprestato. Se noi dubitassimo punto di voi, faremmo ciò che hanno avuto in costume di praticare i Capitani di tutti i tempi, ingegnandoci con le orazioni inanimirvi alla vicina battaglia; ma troppe volte abbiamo combattuto i medesimi fatti di arme, e troppo spesso ci siamo veduti negli stessi pericoli, perchè ci sia concesso di credere che una nostra parola valga a darvi quella sicurezza che solo avrà fine col palpito dei nostri cuori.»
Giunto là dove la ciurma di nuovo impaurita giacevasi in fondo della viltà: – «Uomini,» disse «se in voi fosse arbitrio di fuggire, vi conforterei a restare; la paura di morire griderà più forte della mia voce, ognuno faccia quello che può per salvarsi la vita.»
Questo strano discorso non dirò che infondesse un súbito coraggio in quei vili, ma profferito da uomo riputato come era Carlo valse a dare loro una leggiera speranza di salute, se avessero seguito a fare quello che il Conte faceva; ed in vero, se bene non con molto calore, si dettero ad imitarlo.
Come poi Carlo si mostrasse così caldo in questa ventura, mentre innanzi fu d’uopo che il timoniere andasse a suscitarlo, non fa maraviglia se si consideri, ora trattarsi d’armi, in che consisteva il suo mestiere, dianzi di flutti infuriati ai quali non era avvezzo, e poi lo spasimo di stomaco che aveva prostrato ogni sua facoltà intellettuale: perchè quantunque tutti si uniscano a dire l’anima molto maggiore ente del corpo, e più nobile, nondimeno è subordinata alla influenza di tutti gli umori di quello, – anche agli escrementi; onde vedasi un po’ quanto presuntuosa fosse l’eresia di Priscillano, che sosteneva l’anime umane emanazioni della Divinità.
«Ai graffi! ai graffi!» si udiva tuonare la voce di Carlo, (ed erano i graffi certi istrumenti uncinati coi quali tentavasi di accostare la galera nemica per venire a battaglia manesca) e súbito furono portati e messi in opera: questi però non bastarono a tanto bisogno, perchè le galere ora sospinte si urtavano con molto pericolo, ora divise furiosamente gli strappavano di mano a chi li teneva, e seco loro li trasportavano; vi furono anche di tali che ostinandosi a non lasciarli rimasero levati via di coperta, e sospesi ai manichi, per modo che quando le galere tornarono a cozzarsi o miseramente s’infransero, o non valendo loro le forze di starvi luogo tempo attaccati, lasciarono cadersi nel mare e quivi perirono. Carlo stringendo la mazza d’arme, con un piè levato sul parapetto della galera, aspettava ansiosamente il punto che all’avversaria si accostasse, e allora menava colpi, che di rado cadevano in fallo. Seguitavano l’esempio i compagni, espertissimi anch’essi nel maneggiare l’accétta, ed in breve ora cagionarono ai nemici non lieve danno di morti e di feriti. Questi però non si stavano, colpo con colpo cambiavano, e la battaglia sostenevano assai francamente. Tu avresti veduto le sarte della galera grondanti di sangue, la coperta sparsa di cervella infrante, e di membra recise; parte percossi cadevano bocconi spenzolati dalla nave, e a poco a poco sdrucciolando traboccavano nell’acqua; parte cadendo supini, le gambe di chi si avanzava impacciavano e facevano ch’essi pure nel mare precipitassero; alcuni sconciamente feriti fuggivano dal conflitto mettendo dolorosi lamenti, e chi gl’incontrava, non che rimanesse sbigottito da quello stato, cercava invece, puntando mani e piedi, di farsi largo, ed essere dei primi ad uccidere, o ad essere ucciso.
Intanto nella pienezza dell’orrore infuriava sopra le loro teste la procella: – ma la rabbia degli elementi scatenati comparisce solenne, degna affatto dell’attenzione di chi osserva; – sembrano giganti che non si possano distruggere, i quali sieno venuti nei campi del cielo meno per isfidarsi a morte, che per far prova del proprio vigore; ora prevale questo, ora quello, finchè stanchi della lotta si partono senza vittoria per ritornare quando che loro ne prenda vaghezza a nuovo esperimento: – non così della rabbia degli uomini; ogni atto di loro è via di distruzione; piccoli e feroci offrono la immagine di un brulichio di formiche impazzite, intente a divorarsi intorno ad una zolla di terra; la morte, che vi tiene levato un piè sopra, si rimane maravigliando a considerare quanto ferva in questi corpicciuoli il furore di estinguersi senza l’opera sua. Imbecilli in tutto, – anche in quelle opere che nella più parte di loro eccitano il pianto, – meritano, da chi gode nello spettacolo della tempesta, un riso di scherno.
Quella battaglia alla spartita non produceva alcuno buon frutto; da oltre un’ora avvicendavano colpi, molti cadevano uccisi per ambedue le parti, ma nessuna faceva sembiante di voler cedere.
Gorello, che era tornato al timone, mentre attendeva al suo ufficio sente sollevarsi in cuore sì fatto presentimento, il quale di súbito lo infiamma in guisa che non potendosi contenere spicca un lancio. Chiamato a nome il marinaro a cui aveva in quella medesima notte affidato di tenere il suo luogo, gli dà in fretta alcuni ammaestramenti del come debba regolare il timone, e s’incammina precipitoso sotto la coperta.
«Che fate voi così armato?» disse al Maestro, che al chiarore di un lampione vide venirsi incontro con l’accétta alla mano.
«Che faccio! che faccio! Che si fa egli con una mazza d’arme quando si combatte in coperta? Io vado a sbizzarrirmi con qualcheduno lassù, perchè mi sento la maggiore stizza ch’io abbia mai provata nel mondo: tanto. dobbiamo morire in questa notte: e se me lo avessi potuto immaginare! – ma! darmela a gambe non posso, dunque scelgo di finirla con una bella accettata nel capo. perchè il pensiero di restare sommerso nell’acqua mi fa morire avanti tempo. E voi come avete lasciato il timone?»
«S’io me ne venni, vi lasciai chi ne ha cura, Maestro: dite, vorrestemi voi dare cotesta vostra accétta?»
«Sì certo, io prenderò quest’altra: ditemi in cortesia, adesso che disegnate di farne?»
«La battaglia dura lunga e ostinata, la vittoria pende incerta; Carlo così gravemente armato non osa dare un salto per giungere su la galera siciliana…»
«Bene…»
«Io come pratico vo’ tentare questo; spesso la somma delle cose deriva da un subito ardire; gli uomini sono pecore, dove l’uno va gli altri vanno…»
«Bene»
«Quando ho posto piede su fa galera, con l’aiuto di Dio confido mantenermivi tanto, che chi viene dopo possa soccorrermi; altramente bisogna morire.»
«Ed io vo’ essere con voi – sì certo; – così potessi io darvi» e qui abbassò il guardo pietosamente dove i suoi vasi giacevano spezzati «un bicchiere di quel vino, come senza dubbio sarò con voi! – egli ci ristorerebbe il cuore… ma! – ormai è finita, quello che si poteva soffrire ho sofferto; per quanto possa angosciarvi acerbo il vostro cordoglio, non giungerà mai ad uguagliare l’amarezza ch’io sento: andiamo, via, ad insegnare a Carlo come si salta su le galere nemiche.»
La via e il discorso terminarono a un punto, perchè se ciò non fosse stato, Dio sa fino a quando avrebbe continuato a dire. Gorello, visto in un balenare di occhio la condizione delle cose, gridò al Maestro: «Qua da poppa avremo migliore ventura; da questa parte le galere si urtano più spesso, nè v’è tanta confusione, onde ci sarà dato operare come vorremo, e non come potremo; seguitemi.»
Eccoli giunti sul luogo, eccoli indietreggiare per meglio lanciarsi, eccoli spiccare il salto. Ora andate a negare che un destino inevitabile si compiaccia farsi burla degli umani disegni; il buon Maestro, che ogni supplizio avrebbe preposto all’affanno di sentirsi tuffato nell’acqua, che tanto deliberato si era allestito a combattere, che considerando la mole del suo corpo aveva spiccato tal salto da disperare i più destri, mentre ha posto sopra la galera nemica tutta la pianta del piede, fatalmente percuote col tacco (che in quei giorni costumavano altissimi), e riverso a gambe levate rovina nelle acque: grande fu il tonfo ch’ei fece, e gli spruzzi salirono fino su le coperte delle galere; il malarrivato, giunto a capovoltarsi, sbuca con la testa dalle acque urlando da spiritato: «Arnault! Gorello! calatemi una fune, che annego senza misericordia; – Arnault, fa presto, o Maestro Armando serve di cena ai pesci: – Arnault! Gorello! Gorello! Arnault! oh Dio! non mi rispondono: – Monsignor Conte! lasciate un po’ di menare cotesta accétta, e venite a soccorrere il povero Maestro Armando; – oh Monsignor Conte! – ehi! dico a voi, Conte… nè pur egli vuole sentire: – bella cortesia lasciare così sommergere un’anima cristiana; – nè pure se fossi pelle di cane! – almeno si trovasse qui meco prete, o frate, che mi acconciasse alla meglio!»
Un nuovo colpo di mare lo spinge sotto, e lo avvolge per molto spazio, cacciandogli in gola grande quantità d’acqua, che il povero Maestro ne stette per morire senz’altro; ma alla fine tornò a galla con gli occhi sanguigni quasi fuori dell’orbita per lo sforzo del vomito, urlando: «Ohimè! che amaro, ohimè! – aiuto! oh Conte indiavolato! – ogni volta che ho trasportato balle di panno, se mi accadeva traversìa, gittava le balle, e mi salvava; e voi, Monsignor Conte, che non ho gettato, in così fatto modo meco vi comportate? anzi mi tenete in mare, e senza pietà consentite che anneghi? Oh avessi io sempre portato panni franceschi! Che dirà il compare, cui aveva promesso recare vino di Sicilia? – dirà, che mi sono lasciato morire per non mantenere la promessa. Bella figura da Conte! in verità non fareste un piacere col pegno in mano.» E molte altre cose aggiungeva parte burlevoli, parte disperate, che noi lasciamo come troppo prolisse; imperciocchè gli venisse fatto di appigliarsi alle commettiture delle tavole della sua galera, e quivi assai tempo con tanto maravigliosa forza attenersi, che vi lasciasse la impronta delle dita.
Gorello, più felice del suo compagno, almeno nel salto, giunge a salvamento sopra la galera siciliana, e a prima giunta da con la mazza d’arme sopra la testa di uno che gli si parava minaccioso dinanzi, e dal sommo dell’orecchio destro gliela fende traverso la guancia fin sotto il naso: un occhio dello infelice schizza fuori dalla fronte, l’altro gli s’infossa; cade mandando un gemito; nella caduta alza le mani per portarle alla ferita, ma non giunsero alla metà dell’atto, che la morte gli scioglie le membra, ed egli percuote su la terra cadavere. Gorello lo calpesta, e passa, nè va molto che s’incontra con un giovanetto, il quale, veduto quel colpo, andava per vendicarlo: meglio per lui se non si fosse mosso, o avesse avuto meno carità, o più valore; perchè mentre solleva la spada, e grida – sei morto, – Gorello tanto rabbioso gli mena dell’accétta nel ventre, che più di mezza vi penetra, e quando la trasse a sè, gl’intestini si rovesciarono giù penzoloni per l’anguinaia e per le cosce: il giovanetto urlando smanioso, raccolse con ambe le mani le viscere, e si dette a fuggire; andava veloce, ma la morte lo raggiunse in due passi; stramazza, e l’anima si parte pel luogo del premio o della pena, piangendo il fiore della perduta gioventù.
Molte e più altre furono le ferite che dette Gorello, le quali non descrive lo scrittore che dei presenti fatti ci dà contezza; imperciocchè, essendo egli in quella fierissima notte allato di Carlo, non potè tutte vederle, in parte preoccupato nella propria difesa, in parte impedito dalle tenebre che di tratto in tratto succedevano al bagliore dei lampi: egli si restringe a dire che Gorello non mutò passo senza dar colpo, e a questo ci restringeremo anche noi. – Ma poichè, aggiunge lo Storico, i nostri tempi non sono più quelli del buono Re Artù, nei quali le fate donavano gli scudi incantati perchè Lancillotto vincesse il Castello della Guardia Dolorosa, Gorello versava sangue da molte parti del corpo, onde, sentendosi scemare la lena, e crescere le percosse, tentò di porre le spalle al maggiore albero della galera, e quivi difendersi, finchè gli reggessero i polsi; gli venne fatto il disegno, e lì menando in giro l’accétta potè ancora per alcun tempo tenere gli assalitori lontani; mentre però essi s’ingegnano circondarlo intenti a finirlo, egli inciampa in un cadavere, e cade; l’avrebbero adesso agevolmente posto in brani, se il Cielo, che lo serbava a più atroce destino, non lo avesse soccorso con mirabile caso: puntellando il pugno su la faccia del morto giunge a rilevarsi in ginocchio; ora un Siciliano che gli stava al fianco destro, desideroso di trapassarlo, abbassa il braccio armato di pugnale, e con esso la persona; il ferro male assestato lo coglie alla tempia, e di un taglio poco profondo lo incide fino alla mascella. Avete mai considerata la rabbia degli uomini? Il detto comune la paragona a quella del tigre; ciò non è già perchè la uguagli, ma perchè tra le rabbie delle bestie non se ne trovi altra che le si accosti, benchè alla lontana, come quella del tigre: – l’uomo è unico, profondamente terribile in tutte le cose.
Con rabbia sì fatta che non ha paragone, Gorello afferra il braccio del feritore, e glielo stringe in guisa, che i tendini costretti non possono fare articolare la mano; poi glielo torce nel seno, e lo forza a ferirsi; l’ucciso, che uomo di vastissime membra era, piomba addosso a Gorello, lo copre della propria persona, e fa che nuovamente giaccia disteso per terra: questa ventura fu operata in un punto, così che un altro che teneva alzata l’accétta per trucidare Gorello, di piena forza la vibra nelle spalle del morto compagno.
Intanto Carlo, che dal momento in cui vide Gorello con tanto felice audacia lanciarsi su la galera nemica sentì pungersi d’ira, di vergogna, e del nobile desiderio di porgergli soccorso, considerando che col modo fin lì praticato non sarebbe riuscito in nulla, chiamò ad alta voce: «Sire Gilles, andate, ed avvertite da nostra parte Michaux, Labrodérie, e quanti altri potrete raccogliere in fretta, e ordinate loro che si rechino tosto qui presso di noi.»
Sire Gilles si avvia velocissimo; Carlo, ritraendosi un poco, per essere meno impedito si cava le manopole di ferro, i bracciali, e gli schinieri, quindi torna al suo posto. Accorrevano i Cavalieri chiamati, e il Conte di Provenza così brevemente gli ammoniva: «Baroni, il timoniere della nostra galera già si lanciò su la nemica con raro esempio di ardimento e di valore: ci lasciammo rapire una bella gloria; ma da che non c’è più dato di conseguire la prima, acquistiamo almeno la seconda col dar soccorso al nostro prode fratello di armi.»
Profferita questa breve orazione, gli si restrinsero attorno; e quando venne il destro, ad un cenno si lanciarono tutti gridando: «Mongioia! Mongioia!» Come il destino volle, quantunque non si fossero al pari di Carlo alleggeriti, pervennero a salvamento sopra il legno avversario. Quella massa di uomini con tanto impeto balzata percosse d’irresistibile urto i Siciliani, che di súbito indietreggiarono: ripreso coraggio, si spinsero con nuova ferocia su i Francesi che cominciarono a piegare, e cedendo cedendo giunsero in parte, ove poco più che fossero andati oltre trovavano certissima morte nel mare. Di rado avviene che l’uomo, posto tra la difesa disperata e la morte, non vinca la prova. I Francesi ricuperarono, sebbene a fatica, lo spazio perduto: tanta era la pressa, che non solo non potessero adoperare le mazze d’arme per taglio, ma nè di punta. Fu un urtarsi, uno spingersi e respingersi, piuttosto che ordinata battaglia. Carlo, uomo ardito, lasciando allo improvviso l’accétta, afferra il suo avversario alla strozza, e stringe si duramente, che lo getta morto per terra: qualcheduno dei più forti dei suoi compagni ebbe lo stesso pensiero, e gli venne fatto, perchè i Siciliani non dubitavano di questo modo di combattere; qualche altro avendo il pugnale l’adoperò: allora i nemici si ritirano, e sentendosi la più parte feriti esitano a dare nuovo assalto. Questo istante di dubbio decise la battaglia, imperciocchè i Francesi avendo spazio da maneggiare le accétte, in che erano valenti, gli ridussero in breve a chiedere i quartieri, che per comando di Carlo furono prestamente concessi.