Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 24
CAPITOLO DECIMONONO. LO INDEMONIATO
Che di amara radice
Amare foglie e amare frutto nasce:
Il misero si pasce
D’orrore e di paura,
Di lacrime e sospiri,
Sempre in nuovi martiri,
E per lui solo al mondo il pianto dura.
Oreste, tragedia antica.
«Va, corri, Beltramo, – fa di recarmi tosto la mia armatura… e la lancia… e la spada… e…»
«Il pugnale?»
«Sì certo, il pugnale, – la più nobile invenzione per distruggere, che onori lo spirito umano, – il pugnale. Poni la sella al destriero…»
«Santa fede! che vorreste partire, bel Cavaliere? Guardate a quello che siete per fare: perchè le vostre ferite sono rimarginate di fresco; e così debole non saprei se…»
«Parti, e fa quello che ti ho comandato: chi ti ha reso tanto ardito di provvedere al mio bene? chi ti ha detto di prendere cura della mia salute? chi ve la dovrebbe, e ve la potrebbe avere, non vi bada tanto nè quanto, e vuoi averla tu, disgraziato! che non sei sufficiente di pensare a te stesso? presumi essere meno tristo, meno debole, meno scellerato di me?»
«Ma io, bel Cavaliere, possa morire scomunicato, se intendo sillaba del vostro discorso: non avreste veduto per caso la Tregenda dentro qualche macchione? Su via, non vi curate di cavalcare a quest’ora; messer Ghino non è ancora tornato, e non sarebbe mica cortesia cotesta di andarsene senza togliere commiato.»
«Che mi parli di cortesia, sciagurato! quando altri mi tradisce beffando, mi strazia il cuore ridendo, e viene quasi a spettacolo per godere nella contemplazione dei miei dolori! – l’arme, ti ripeto, l’arme.»
«Deh! bel Cavaliere, voi volete gettarvi via ad ogni costo; la vita è pur vita, e perduta una volta non si ricompra mica a contanti: sarebbe pure il gran peccato, che veniste così miseramente a morire, poichè mi sembrate gagliardo, e pro’ della persona; guarite prima per bene, poi non mancherà tempo a lasciare questo mondo…»
«Dov’è l’armatura?»
«Santa fede! O Cavaliere, da che non avete nessuno amore per voi, abbiatelo almeno per me; considerate di grazia che il ferro confricando le vostre piaghe tornerà a riaprirle prima che sia un’ora.»
«Ma che destino è il mio, che l’odio e l’amore degli uomini debbano riuscirmi ugualmente importuni?»
Questo dialogo, come la più parte dei miei lettori avrà immaginato, fu tenuto da Rogiero, che, dipartito dal convento, si era ridotto alla casa di Ghino, con Beltramo, il caritatevole custode del moribondo Drengotto. Terminate ch’ebbe Rogiero le riferite parole, cadde in pensiero, e declinò la faccia tra le mani; onde Beltramo, conoscendo che predicava al deserto, stimò nessun’altra cosa rimanergli di meglio che eseguire il comando. Già non poteva il masnadiero di lungo spazio avere trascorso la porta, allorchè Rogiero, crollata la testa, si dette a camminare per la stanza furiosamente.
«Mi prostrerò al suo trono,» diceva «mi prostrerò… io che non mi sarei curvato innanzi cosa immortale, cadrò adesso ai suoi piedi? Sì, cadrò, perchè la mia alterezza si dipartiva dalla innocenza… oh! come avvilisce la colpa!»
«Bel Cavaliere, ecco l’armatura;» entrando nella stanza favellava Beltramo.
Rogiero non gli poneva mente, e continuava così: «Ho voluto io la colpa? Io mi sarei sottratto a quella con la morte; pure ne porto la pena. Questa è una via dolorosa; la sventura mi flagella, affinchè senza requie pervenga al fine, e al fine mi attende l’infamia…»
«L’armatura, Cavaliere…»
«Ora temo il riposo della terra, perchè mi cadrebbe addosso, come il peso all’ostinato che volle caricarsi le spalle più che le sue forze gli concedevano… e non sarebbe già volontario… nè avrei per iscusarmi… e per accusarlo le ragioni di prima… – Non le avrei? Non sono circondato di lacci? Non mi hanno strascinato alla dannazione come omicida al supplizio? Io leverò la faccia, e gli dirò…»
«L’armatura, Cavaliere, l’armatura…»
«Che debbo farmi dell’armatura? il mio nemico è invincibile; l’asta e la spada non valgono contro di lui; egli combatte con la volontà. Altra forza che non è la mia, – altro ardimento, hanno perduto la prova… toglimi dinanzi cotesta armatura, che si fa beffe della mia debolezza, perchè non v’ha corpo nella creazione che non giunga a guastare questa mia fievole coperta di pelle.»
«Vi domando mercè, Cavaliere; ma voi non mi avete pur ora mandato per essa?»
«Io ti ho mandato? hai tu bene inteso?»
«Toglietemi qualunque facoltà vorrete, nè vi aspettate di sentirne un lamento; ma negli orecchi, Cavaliere, credo valere quanto alcun altro mio fratello di umanità.»
Rogiero si pone in atto di uomo che vuole richiamare alla mente una cosa sfuggita: «Se io l’ho detto, segno è certo che ne aveva ragione… O stato che commuovi il riso, perchè sei superiore del pianto!» e così favellando torse alquanto la bocca. «Ah! mi sovviene adesso; non devo prostrarmi, e chieder perdono?» Il rossore gli trascorse su per le guance fino alla radice dei capelli, e dopo alcuna pausa ricominciava: «Non di qui, non di qui la vergogna prende principio; segue ella come un’ombra il misfatto. Col prostrarci può bene diventare maggiore; ma ormai l’avvilimento è consumato; – porgimi lo usbergo.»
Beltramo, obbedendo al comando, gli fece passare le braccia per gli scavi che cingevano le spalle, e si pose a fermarglielo addosso, stringendo le fibbie che di sotto l’ascella destra si terminavano poco sopra il fianco: imperciocchè gli usberghi, corsaletti, giachi, ed altre arme di simil sorta, fossero fatte a modo delle moderne sottovesti, se non che mastiettate da un lato per potersi aprire e chiudere, e dall’altro, come abbiamo detto, avessero diversi fermagli, co’ quali si fissavano su la persona del cavaliere. Beltramo proseguendo l’ufficio venne all’improvviso interrotto da una esclamazione angosciosa di Rogiero, che disse: «Ahi! Quanto ti hanno dato i miei nemici perchè tu mi ferissi alle spalle?» e con súbito atto portò la mano su i reni per conoscere s’era stato ferito.
«Cavaliere!» rispose Beltramo indietreggiando di alcuni passi «ma che credete di stare tra masnadieri davvero? Non ve l’ho io detto che le vostre ferite non sono ancora del tutto sanate? e questa vi darà nella via più gravezza delle altre, come quella che rimane sotto un fermaglio dello usbergo. In che vi ho nociuto io, onde dobbiate così stranamente diffidare di me?»
Rogiero volse la faccia a Beltramo ridendo di quel sorriso col quale soglionsi ascoltare le parole dette con poca sapienza, o con molta stoltezza, e soggiungeva così: «Ogni uomo è onesto prima di farsi scellerato, – nè il non avere commesso il delitto significa rettitudine di anima; – ormai chi sa quanti ne avrai commessi col pensiero! ma risponderai che tu non chiamasti la mano ad esprimere la perfidia della mente; e credi per questo di essere meno colpevole? forse ti fuggì l’occasione; ma questa ti può essere offerta ad ogni momento. Torci le labbra? – non mi hai fede? frugati giù nel cuore, sfacciato, e affermami sul viso, se l’osi, che non hai mai pensato alla colpa.»
«Vi chiedo mercè, Cavaliere, ma io stimo che la miglior cosa pel nostro cuore sarebbe lasciarlo stare in pace. Io per me credo di non valere più nè meno di qualunque altro uomo; questo so certo, che non farei tradimento a persona, e meno a voi, bel Cavaliere; d’altronde poi io sono uomo grosso, nè m’intendo di tante sottigliezze; pensatela un po’ come vi pare, chè per questo non dormirò meno gagliardi i miei sonni. Intanto venitemi presso senza timore, se volete che io termini di affibbiarvi l’usbergo; o più tosto, se volete seguire una volta un buon consiglio, che ve lo tolga da dosso, perchè, permanendo ancora qualche giorno, possiate ricuperare affatto la vostra salute.»
Rogiero ravvicinatosi a Beltramo gli ordinava seguitasse ad armarlo; e allorchè di tanto in tanto il ferro, accostandosi su le mal rimarginate ferite, lo pungeva di acri trafitte, non più, come dianzi, dubitava di tradimento, ma esalava il concetto dolore con un gemito ammezzato tra i denti: allora Beltramo si rimaneva, e alzava gli occhi per riguardarlo: – la espressione dello spasimo era già dileguata dal volto di Rogiero, e compariva composto in certa impassibilità maestosa, che nè pareva nè era propria della sua natura, ma chiamatavi a forza, e a forza costretta a rimanervi da un senso magnanimo di alterezza; il che faceva cosa stupenda, e a un punto compassionevole a vedersi.
«Quando,» continuava a dire Rogiero, «quando ritornerà messer Ghino, gli dirai, che da poi la nostra natura è così vile, che al racconto dell’altrui disastro il proprio o tace, o diminuisce, tolga argomento dai miei casi di consolarsi dei suoi, i quali in proporzione dei miei sono giuochi da fanciulli; gli dirai ch’io fuggo per non attristarlo con una terribile storia, se veramente mi ama, e per non farlo godere, se finge… o invece, e farai meglio, non dirgli nulla: dalle mie vicende non può derivarne che male; per esse sarà noto che non giova onestà, non giova costanza, – l’amore, la carità, e ogni altra magnanima passione, non giovano; che una forza alla quale non ci è concesso resistere ci strascina; che non vive uomo il quale possa vantarsi incolpevole, – e se lo fa, è stolto; e se l’occasione gli si presenta, la sua anima darà una mentita a sè stessa; cose in somma che sarebbe pur meglio ignorare, la scienza delle quali prostra le menti invece di suscitarle, e le fa gemere sotto il peso della umanità, come schiavo per la gravezza del travaglio assegnato.» E così discorrendo, e cumulando errore ad errore noi non sappiamo dove sarebbe andato a riuscire, se Beltramo in quel momento, stretta l’ultima cintola, non avesse detto: «È finita.»
«Me avventuroso, quando proferiranno questa parola sul mio cadavere! Pure chi sa che anche nella fossa non mi aspetti qualche altro affanno, e chi sa se veramente là dentro si trovi riposo! Nonpertanto io non posso sperarlo altrove, poichè le nostre condizioni sono la vita e la morte, e nella prima già mi dispero di più mai conseguirlo.»
Soffrendo impazientemente che più oltre si prolungasse il tempo di armarlo, con quelle armi che si trovava in dosso uscì della stanza e scese nel cortile, dove trovò il suo buon destriere Allah in punto di essere cavalcato, tenuto da uno scudiero: senza altre parole, posto il piede in istaffa, inforcò la sella, e lo spinse fuori del cortile. Mentre stava per uscire, messer Ghino, reduce con alcuni dei suoi dalla divisata spedizione, gli si presentò dinanzi, attraversandogli la via.
«Dove, Principe?»
«Dove piace a colui che padre e innocenza mi ha fatto perdere a un punto.»
«Voi mi parlate strane novelle, Rogiero: vorrestemi in cortesia farmele chiare, narrandomi quello che vi è avvenuto?»
«Non vi curate conoscerlo, messer Ghino; già sapete assai per disprezzare la vostra schiatta; io ve la farei abborrire, e troppo grave danno ne verrebbe a voi, ed a lei: sgombratemi la via.»
«Voi siete ammalato nello spirito, amico mio; e se la compassione non permette di abbandonare lo infermo di corpo, molto meno concederà di abbandonare l’ammalato nel cuore, di cui le malattie travagliano più profonde e terribili.»
«Ghino, Ghino, sgombratemi la via, o ch’io vi spingo addosso il cavallo, succeda quello che può succedere.»
«Dio eterno!» gridò Ghino ritraendosi, e sollevando al cielo le mani; «tu gli hai tolto il senno…»
«Amico,» esclamava Rogiero in andando «ormai se è vero che l’uomo può amare l’uomo, la qual cosa non credo, fa di mestieri trovare un’altra parola per esprimere questo amore, da che amicizia sta per significare tutto ciò che l’odio, la rabbia e la frode, possono commettere di tristo contro la creatura che parla. Io da qui innanzi, quando alcuno mi si vorrà dire amico, porrò le spalle alla parete, per non trovarmi trapassato da tergo, e porterò le mani alla borsa, onde non mi sia rubata nell’abbracciamento.» E tuttavia cavalcando aggiungeva moltissime altre sentenze, che il vento, quasi avesse senso di ragione, tolse all’udito, e che sarebbe pietà riferire: vadano pure disperse, che noi rispetteremo il diritto dell’elemento, e potessero con quelle disperdersi le colpe che le fecero dire, le quali pur troppo vissero, vivono, e crescono tra noi! Il popolo ci accusa di essere troppo vaghi d’investigare le colpe, e desiderosi di calunniare l’umana natura. O popolo, popolo! Dio che scende nel profondo dei cuori, Dio sa se è sincero il nostro voto, e se più tosto di attristare noi stessi ed altrui col racconto dei misfatti, vorremmo celebrare le tue glorie, diffondere la luce del canto sopra i gesti magnanimi, inebriarci nell’aere della virtù… ma guárdati intorno, e domanda dove sia la virtù, – non troverai nè pur l’eco che risponda a questa strana parola.
Rogiero, travagliato dalla febbre dei tristi pensieri, di più in più si allontanava per la pianura; ma poichè tutti i nostri affanni trovano fine, rallentandosi, se tali che la nostra pazienza possa soffrirli, o distruggendo l’anima qualora le sieno superiori; quelli di Rogiero non essendo di forza da distruggerla, così la cortesia, ch’era in lui veementissima passione, appena trovò luogo di farsi sentire, gli rimproverò le strane maniere tenute con messer Ghino, il solo tra la famiglia degli uomini ch’egli avesse riputato degno di riverenza e di onore; voltò la testa all’indietro quasi per fare sue scuse alla parte del cielo che copriva quel valoroso; imperciocchè credeva lo avesse ormai trasportato il cavallo oltre la vista della sua dimora, ma s’ingannò; che il destriero non istimolato dal suo signore s’era fatto innanzi a piccolo passo, ed egli ebbe agio di vedere il buon messer Ghino, il quale nella medesima situazione in che lo aveva lasciato stava a riguardarlo: trasse dal lato destro la briglia, dette di sprone a manca, ed in meno che non si dice Ave Maria giunse presso Ghino, smontò da cavallo, e gli cadde smanioso tra le braccia; la testa, come se non potesse sopportare il peso della commozione, abbandonò sopra le spalle dell’amico; in faccia divenne tutto bianco, nessuna lacrima gli sfuggì dagli occhi, la gola chiusa non avrebbe concesso che le parole suonassero, nè egli si provò a favellare. Ghino lo sorreggeva, niuna cosa si aggiunse alla sua prima espressione, se non che una grossa lacrima formatasi lentamente gli gocciò giù per la guancia, posandosi alla fine sui capelli di Rogiero; dopo la prima ne sgorgarono delle altre assai, e a mano a mano più spesse; il volto però, come abbiamo detto, non prese nuova attitudine, ogni muscolo rimase al suo luogo; – pareva che gli occhi non avessero nulla che fare con quelle lacrime; – che spontanee si dipartissero dal cuore. Un poeta a considerare quel pianto sotto quelle ciglia irsute scendere per un viso adusto e di dure sembianze, quale era quello di Ghino, avrebbe súbito trascorso col pensiero ai versi di Omero, nei quali egli paragona il pianto di Agamennone
«… a cupo fonte,
Che tenebrosi da scoscesa rupe
Versa i suoi rivi…»
Le principali passioni di questi nostri personaggi, dove potessimo significare mediante la favella, non sarebbero degne di qui riferirsi; esse non pure assorbivano ogni altra potenza dell’anima, ma sforzavano talmente quella destinata a riceverne gl’impulsi, che un poco più che si fosse tesa rompevasi col danno di certissima morte. Non fiatarono, e pure quello amplesso muto disse più di quello che eglino avrebbero potuto esprimere in diversa maniera: l’uno non chiese, e l’altro promise; questi accettò, e quegli non proferse; in somma moti secreti di natura purificata che il volgo non potrà mai concepire, e dalla storia dei quali vuolsi tenere lontano quanto dai misteri del Santuario.
«Dunque» dopo lungo tempo cominciava messer Ghino «è irremovibile volontà vostra partire senza dimora?»
«È.»
«Terreste alcuno dei miei in vostra compagnia?»
Rogiero gli strinse la mano, e fissò i suoi negli occhi di lui, il quale atto valse un ringraziamento; dipoi soggiunse: «Messer Ghino, lo stato che adesso mi torni meno gravoso nella vita mi sembra la solitudine.»
«Sia fatta la vostra volontà. I miei passi son rivolti al Regno; terrò le stanze alle falde dei monti di Arpino presso le sponde del Garigliano, sopra il terreno una volta occupato dal valore dei Saracini; – quel terreno io considero come retaggio paterno, perchè appartenente ad una schiatta perseguitata e infelice: quivi, voi lo sapete Rogiero, vivrà un cuore di cui il penultimo sospiro sarà per Dio, l’ultimo per voi, e un braccio che combatterà in vostra difesa, finchè potrà sostenere peso di spada: solo che non mi chiamate contro Manfredi: – io potrò bene stendere la destra sopra la brace accesa, non già inalzarla contro colui che ho cominciato ad amare.»
«Comunque possa sembrarvi strano, sappiate, messer Ghino. che se io mai invocherò il sussidio delle vostre armi, questo non sarà se non in favore del Re Manfredi; più oltre non v’è concesso conoscere di questa avventura; a me riuscirebbe troppo gravoso dirlo, a voi ascoltarlo; bastivi quanto ve ne ho raccontato. Ghino, mio dolce amico, addio.» Rogiero proferite queste parole gli strinse di nuovo la mano, Ghino rispose: «Voi mi levate un gran peso dal cuore: certo adesso non istarà per noi, che i Barbari non sieno cacciati di là dalle Alpi; la vostra spada, Rogiero, per quello che mi parve a Roma, può compensare a misura di carbone il male che avrà fatto la vostra lingua. Addio… badate di non porlo in dimenticanza, – alle falde dei monti di Arpino…»
«Dimenticanza! Quando l’anima oblierà che v’è stato uno ieri, e che vi sarà un domani, allora soltanto potrà dimenticarvi, Ghino!»
«Sì bene; dunque colà aspetto la vostra chiamata. Intanto affileremo le daghe, onde, se alcuno dei Francesi scamperà, possa narrare a quelli di là dai monti, come taglino i ferri italiani. Addio… Aspettate, Rogiero: se per caso non vi fosse data comodità di venire in persona, a voi, togliete questo pugnale, il messaggiero che spedirete a recarmelo ritornerà alla vostra presenza con quattrocento uomini di arme, ed un amico.»
«Che posso dirvi, Ghino? – Addio!»
«Nè differite a chiamarmi nelle ultime strette; spesso, Rogiero, minor numero di gente di quella che io conduco, giunta in buon punto, ha reso vittorioso un esercito, che migliaia di armati, trascorsa la occasione, non hanno potuto salvare. Non vogliate risparmiarmi; pensate, che accorrendo con le armi nulla opero per voi, poco per Manfredi, molto per me, che sopra i piaceri del buon cittadino altissimo io pongo quello di menare le mani in pro del mio paese… Me lo promettete, Rogiero?»
«Ve lo prometto.»
«Anche uno abbraccio, e addio!»
Ghino gli tenne la staffa; Rogiero, quando fu salito in arcione, gli stese la destra; egli se l’accostò alla fronte, e disse: «Ella mi fa bene al capo quanto la benedizione di mio padre: sopra tutto abbiate cura delle ferite. Addio, mio diletto Rogiero, addio! addio!»
Si allontanava lo sfortunato giovane tenendo la faccia rivolta all’indietro, di tanto in tanto salutando il suo amico, che non si mosse mai dal luogo, finchè potè seguitarlo con gli occhi; quando l’ebbe smarrito a cagione del suolo montuoso, e delle giravolte della foresta, salì sopra una torretta per vederlo riuscire su l’aperta pianura; qui pure il cielo lontano glielo nascose, o più tosto la debolezza della vista non gli concesse tenergli dietro; allora curvò la persona, e appoggiò le gomita alla sponda della torretta, puntellandosi ambe le guance, e così stette assai gran tempo, considerando il luogo pel quale si era dileguato. Di qual sorta fossero i pensieri che gli si avvolsero per la mente noi non sapremmo rapportare; soltanto diremo, che togliendosi di costà fu inteso mormorare la seguente sentenza: – «Poichè le gioie di questa vita giungono tanto rade, e passano così veloci. io tengo per fermo che le ci sieno date per farci sentire più addentro i dolori.»
Rogiero, avendo raccolto per via, che la Corte e i principali Baroni dovevano quanto prima ridursi a Benevento, dove Manfredi aveva ordinato universale assemblea, divisò volgere quivi il viaggio, che stabiliva di fare a Napoli; e dopo un faticoso cammino per luoghi dirotti, reso più grave dalle piaghe inasprite, giunse l’ottavo giorno della sua partenza da messer Ghino in vista di Santa Agata dei Goti. Sia che temesse potersi celare, sia che desiderasse sfuggire l’aspetto dei viventi, Rogiero si consigliò di non entrare in quella città, ma posarsi alla campagna nella prima osteria che gli fosse occorsa, nè andò guari che il suo sguardo si fissò sopra una insegna dipinta sul muro. Il pittore, per quello che si poteva interpretare, aveva pensato raffigurarvi una luna nel suo primo quarto, allorchè somiglia, come ha detto Orazio in qualche parte delle sue Odi, – e la Musa sa con quanta gentilezza di concetto, – alle corna della vitella; certi globi neri condotti sotto la luna dovevano per certo fingere nuvoli, – almeno così credo; – sopra questa opera maravigliosa dell’arte stavano scritti con la brace i versi seguenti:
«Or che la notte è taciturna e bruna,
V’invito nell’albergo della Luna.»
Veramente, – disse a sè stesso il cervello di Rogiero, senza che la sua volontà vi partecipasse per niente, – poteva esser meno tristo; pure poichè tutto bene non si può avere, il meglio è che si trovi fuori di mano. – Mentre così fantasticava, da un fabbricato contiguo alla casa acconcio a modo di scuderia sbucò fuori un fanciullo di strana sembianza: pallido in volto, con gli occhi loschi, le labbra rovesciate, i capelli stesi; la testa strettissima sul davanti, si allargava dietro, presentando la forma di una borsa per riporre danaro; la sua veste, screziata d’infiniti colori, aveva sopramesse le toppe con tanta leggiadria, da sembrare, più che altro, un arazzo. Questo fanciullo pertanto senza fare parola si avventò alla briglia del cavallo di Rogiero, sforzandosi condurlo seco: il cavaliere stese la destra armata del guanto di ferro, e così per taglio percosse la mano di quello indiscreto in maniera che indietreggiò di alcuni passi, strillando, e soffiando su la parte offesa.
«E» instava minaccioso Rogiero «fa voto a cui adori che non ti faccio peggio, perchè fin qui nè Cristiano nè Saracino può vantarsi di aver toccato la briglia del mio destriero.»
Udendo poi che il fanciullo non cessava il lamento, per quella antica abitudine, che nessuno raziocinio varrà mai a cancellare dal nostro pensiero, di credere che uom possa con un pezzo d’oro, o di argento coniato, riparare le ingiurie, impedire alle lacrime di scorrere, e all’anima di sentire, il nostro eroe cavò fuori un fiorino, e l’offerse al fanciullo. Come avvenga questo, noi non sapremmo; ma i giovanetti, di cui lo spirito pare incapace delle nozioni più semplici, si mostrano sopra le altre bestie a due gambe bramosissimi del danaro; e sì che il modo di conseguirlo, quello di spenderlo, le cose che rappresenta, il perchè le rappresenti, dovrieno formare astrattezze non tanto agevoli a ficcarsi nella testa di un bambino; forse quel corpo lucido e rotondo vince ogni loro attenzione; forse, e questo mi sembra più vero, la scienza del quattrino sopra le altre scienze si adatta alla nostra natura, ed è la sola infusa che ci rimase da Adamo in poi. Rogiero, appena stesa la mano col fiorino, sentì mordersi il cuore. e poichè la velocità meccanica del pensiero, come sanno i lettori, formi anche oggidì il più efficace argomento per provare la spiritualità, in meno che non si chiudono gli occhi aveva conosciuto la sconvenienza tra una moneta e il torto apportato, la viltà di credere che lo avrebbe riparato, la stoltezza di volere con essa soffocare gli affetti, e molte altre idee, che appartengono a troppo arcano sapere, perchè possano convenientemente discorrersi in questo libro e convenientemente intendersi dalla più parte dei miei lettori. Nè alcuno voglia trovare strano quanto ho proferito qui sopra: – imperciocchè la plebe sia di certa zotica complessione (e per plebe intendo non pure quella che cammina vestita di frastaglio e di tela, ma si bene anche l’altra che si fascia di panno da quaranta e più Lire per braccio), che se a caso la fortuna le sbalestra un libro tra mano, e vede di non comprenderlo, distingue súbito se la fama dello scrittore per venire da tempi remoti sia radicata nella mente degli uomini, o se, di tenerissimo tempo, abbia mala pena messo le barbe: nel primo caso s’ingoia come una spugna il vituperio della ignoranza, e quantunque non capisca nulla, ed abbia smania infinita di mordere, grida bravo! guai a lei se gridasse tristo, che il disprezzo terrebbe dietro alla nudità della mente, ed ella vuole essere bene in camicia di scienza, non coperta di obbrobrio. La malvagità del cuore poi si dimostra pienamente nel secondo caso: conoscendo di poter nuocere, di far sentire il suo urlo, di rovesciare nel suo fango chi s’ingegna uscirne, calcandole la testa, non è da dire se corra festosa, come l’asino di Esopo, a dare dei calci in fronte al lione affralito dalla malattia e dagli unni. Quindi è che i primi passi di colui, che non ha troppo soverchianti doti di mente per disprezzare ogni riguardo, vogliono essere cauti, ma cauti bene; se mette piè in fallo, già non confidi che alcuno pietoso gli stenda la mano soccorrevole; accorreranno tutti a gittargli addosso la pietra, e con essa lo scherno, e quelli principalmente che più lo confortavano di avventurarsi al passo. Gli uomini godono allo aspetto delle rovine, nè possono perdonare nessuna superiorità di averi e d’intelletto. La fama assai si rassomiglia al Paradiso dei credenti in Maometto, per giungere al quale fa di mestieri traversare Alzirat, il ponte largo quanto un filo di ragnatelo, sotto cui scorre una riviera di fuoco, che con la vampa e il fragore spaventa chi passa: qui sì che fa di bisogno davvero la buona coscienza che rassicuri; un lieve ribrezzo, uno sfumato raccapriccio è morte eterna: da quella riviera infuocata la forza degli angeli e degli uomini riunita nel braccio di un demonio non varrebbe mai a sollevarti. Leggesi, che certo storpio s’imbattè un giorno in un cieco, e poichè scambievolmente si ebbero raccontato con quanto pericolo e affanno ognuno di loro procedesse nello impreso cammino, il cieco proponesse di levarsi in collo lo storpio, e così l’uno giovando con le gambe, l’altro con gli occhi, potessero ambidue pervenire a buon salvamento. Oh! bella carità questa, e certo degna del mondo come dovrebbe essere; ma tanto e tanto va immersa la gente nella costumanza del male, che io per me affermo, che dove tutti fossero ciechi, e dispersi pel deserto, ed uno solo godesse della luce per bene condurli, vorrebbero traboccare più tosto in qualche dirupo, perdersi dentro il torrente, – morire in somma, che sopportare la condotta di quell’uno. Ma io ho promesso una istoria, e così seguitando parmi che si convertirebbe in un trattato di filosofia, – e quale filosofia! pure non mi dà l’animo di cancellare una sillaba; quello che è scritto è scritto; molti non capiranno, più molti non vorranno capire; nondimeno la verità vive senza bisogno di essere intesa, ed io ho avuto il coraggio di dirla, e spero in Dio di conservarlo sempre, che in questa terra da cotesto valore in poi non mi venne altro retaggio: intanto io me ne lavo le mani, e non come Pilato, e la infamia a cui tocca. – Ritorno alla storia.
Rogiero dunque, sì come raccontava, avvertito dalla gentile coscienza, stava per ritirare la mano, ed in vece del fiorino proferire parole di scusa, quando il giovanetto si gettò avidamente su la moneta, e con ambe le mani gliela svelse dalle dita; intanto il suo volto si ricomponeva alla quiete, e le labbra si schiudevano al sorriso, mentre che tuttavia le lacrime gli sgorgavano dagli occhi. Rogiero, assuefatto a conoscere molte passioni umane, e tutte schifose, non potè contenersi dallo esclamare: «Io non avrei mai creduto che col danaro si comprasse anche il dolore!»
Il fanciullo lo seguitava in atto sommesso, gl’insegnava il luogo ove meglio avrebbe accomodato il cavallo.
Rogiero, dato al suo Allah le cure di un amico, si incamminava all’albergo.
In mezzo della stanza stava l’oste, – strana figura a vedersi! lungo sperticato, comecchè per tenere le spalle levate verso la nuca apparisse senza collo, con molto scapito della sua statura: il petto, diverso da quello di ogni animale della sua specie, non era piano nè convesso, ma incavato, macilento quanto le vacche che vaticinarono a Faraone la carestia dell’Egitto, con certe mani scarne, unghiate da accomodarne i nibbii: – avresti giurato che a mettergli un lume dietro gli si sarebbe veduto che cosa pensava nel cuore; e a malgrado lo inviluppo della carne, io credo che gli si potesse studiare addosso l’osteologia; aveva la fronte aguzza, alta forse due dita; il naso torto all’ingiù, il mento all’insù: quasi due amici che anelassero abbracciarsi; gli occhi presso le palpebre di bel colore carminio, più oltre di piombo scuro; la bocca amplissima prendeva le mosse da un punto assai prossimo alle orecchie, e formava un sesto acuto sopra il mento; qualcheduno che avesse avuto vaghezza di fare similitudini, l’avrebbe assomigliata ai festoni da morto che oggigiorno si appiccano alle porte delle chiese; nè il colore avrebbe impedito, chè se i labbri con erano neri non erano neanche vermigli. Il ritratto di questo personaggio non arriva anco a mezzo, e le tinte su la tavolozza mi mancano, onde sarà meglio finirlo con dire, che i suoi moti parevano raccolti dagli scimmiotti, e dai maníaci; il suo favellare da prima lento, poi precipitato in guisa che spruzzasse la saliva in volto a cui gli stava dinanzi, e negli angoli della bocca gli spumasse un rigonfiamento di bolle bavose. Il primo pensiero che suscitava il suo aspetto era di scherno, il secondo di paura; se avesse avuto la coda, lo avrebbero sbagliato con Moloch, il demonio della avarizia.
«Ben venuto,» disse costui appena vide Rogiero, facendogli profondissimo inchino col berretto alla mano, e percorrendolo da capo alle piante con tali sguardi che parvero una frugata di doganiere, «ben venuto sia il Cavaliere. Ahimè! la fortuna non può pararmi dinanzi nessuna occasione nella quale tanto mi dolga delle rapite sostanze quanto in questa, perchè non mi è dato di onorare come vorrei il Cavaliere che mi fa dono della cortese presenza; nondimeno spero in Santo Menna il Solitario, nostro Santo protettore, di potere sempre onestamente servirvi pe’ vostri danari. Voi siete proprio nato vestito a capitare al primo tratto alla Luna; avreste potuto, procedendo oltre, trovare l’Aquila d’oro, l’Orso bianco, – Santo Menna glorioso! belle mostre, – fattucchierie per iscorticare i poveri forestieri; e poi si vanno vantando che l’anitre loro sono più grasse delle mie, – come se non respirassero la medesima aria: e’ vi so dire, signor Cavaliere, che hanno posto davanti a chi ebbe la mala ventura di cadere là dentro più galli morti di pipita di quello che non v’ha fiori in primavera; e una donna assai mia familiare, che pratica cotesti inferni, mi assicurava l’altro ieri che seppellirono nello stomaco di certo uomo dabbene un gatto per lepre. Io per me non so come la Signoria non vi prenda rimedio, solamente per la salute pubblica… Basta, da un pezzo in qua le cose vanno a rifascio: io sono uomo grosso, nè so molto di ciò che sapete voi altri signori; pure, se stesse a me comandare, vorrei…»