Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 25
Rogiero, per le cose proferite dall’oste ormai rassegnato di trangugiare un mal pasto, senza più badargli s’indirizzò verso una camera dalla quale usciva rumore confuso di gente, che parli insieme a gola spiegata. Giunto che fu sopra il limitare osservò quattro uomini che portavano in testa cappelli di ferro, in parte ammaccati, in parte rugginosi, e intorno alla vita corsaletti parimente di ferro; le partigiane e le daghe avevano posto in un canto della stanza: stavano seduti da un lato della tavola alternando il mandare dentro bicchieri di vino, e il cacciare fuori discorsi. Questi uomini, che appartenevano a qualche compagnia di vassalli armati, che ogni Barone si faceva pregio tenersi appresso, sorsero all’apparire di Rogiero, e molto rispettosamente lo salutarono, imperciocchè fossero da remota consuetudine assuefatti a fare così a tutte le armature ornate con fregi di oro, o di argento. Rogiero ringraziava con la mano, e invitava che tornassero a sedere: ma la sua attenzione non era rivolta su loro, sì bene sopra il quinto personaggio, che appena lo vide entrare, con trepidante prestezza togliendosi dinanzi un gran piatto di troppo squisita vivanda, vi sostituiva un pugno di ulive secche, e celava più che poteva il volto nel cappuccio, però che avesse addosso una schiavina da pellegrino. Per quanto s’ingegnasse, non giunse però a nascondersi da Rogiero, il quale, riconosciuto che l’ebbe, si sentì sorpreso da un senso di paura simile a quello che ci percuote allorquando ascoltiamo un racconto terribile: – vorremmo interrompere il narratore, e le parole si perdono per la gola, – vorremmo allontanarci, e le gambe ci paiono radicate sul terreno, e il sudore scorre su la fronte gelata, e non osiamo voltare la testa. Vergognando d’impallire al cospetto di tale uomo ch’ei teneva per vile, raccolse fiato, e disse con un sospiro: «Voi qui, pellegrino!»
Proferite le prime parole, rotto lo incanto, riprese il vigore del pensare, e del sentire, onde guardando su i quattro ribaldi, che avea d’attorno, lo proverbiava con un tal sorriso di scherno: «D’ora in avanti parmi che non avrete bisogno di altra compagnia!»
«Eh! chi cerca trova,» rispondeva il pellegrino «bel Cavaliere; la nave piega secondo il vento, e da più gran testa che non è la mia viene il detto: – co’ Santi in Chiesa, o in taverna co’ ghiottoni.»
«E se non m’inganno, parmi che siate fatto per istare più tosto co’ secondi che con i primi, e che possa confermarvi di giorno quello che vi dissi di notte, quando in prima v’incontrai. Non conosco le cause per le quali v’ingegnate ingannarmi; ma credete poterlo fare mangiando, o astenendovi in mia presenza dal cibo che poco fa gustavate? Proseguite il pasto, chè per vedere su la mensa starne, od ulive, già non cambierò pensiero su voi: – la faccia è quella che conta.»
«Oh! allora poi, se mi avete veduto, continuerò a mangiare la mia vivanda. Peccato celato è mezzo perdonato; questa volta però me lo scriveranno a debito tutto intero;» e così favellando faceva il pellegrino di grossi bocconi: «il peggio, a parer mio, sta nello scandalo; quasi quasi direi che senza scandalo non vi abbia fallo: allorchè gli uomini non veggono, anche Dio chiude un occhio, e lascia fare…»
«Scellerato pensiero! se il grido della tua coscienza ti assicura, pensi che ti sconforterà quello della gente? Il cedro del libano piega sotto l’impeto della bufera, ma non si spezza.»
«Sì come, bel Cavaliere, è impossibile, – continuando a parlare con gli esempii, – che un bottigliere correndo a gran corso con la coppa piena fino all’orlo non lasci cadere alcuna stilla, così riesce quasi impossibile all’uomo di mantenere l’anima bianca fino alla fossa; ora poi siccome non dannereste il bottigliere di celare il difetto della tazza, così non potete dannare l’uomo che nasconde il pezzo d’anima fatto nero con la parte rimasta bianca. Con l’arte e con l’inganno – si vive mezzo l’anno; con l’inganno e con l’arte – si vive l’altra parte, – come diceva il poeta.»
E avrebbe continuato, se non che in quel punto entrò l’oste, che portava a Rogiero il cibo richiesto: nè io starò a dire in che consistesse, nè come fosse accomodato, perchè vado affatto ignorante dell’arte della cucina, e per me Apicio potrebbe dormire mille anni sopra di un lato, che non lo farei certo, risvegliandolo, giacere su l’altro; e in questa, come in ogni altra cosa, converrà cedere la mano al Romanziere scozzese: basterà accertare che il presentimento di Rogiero non rimase deluso, e che in tempo di sua vita non aveva fatto pasto meno gradito, nè più lodato.
«Nol dico per vantazione, chè superbia è troppo brutto peccato,» favellava l’oste «ma andate all’Aquila d’oro se volete gustare di questi camangiaretti; andate all’Orso bianco: Santo Menna glorioso! lì sì che si può dire che danno il pane con la balestra. E il vino? oh! pel vino vi giuro che può averlo uguale il Re Manfredi. Filippello di Faggiano, mio parente, che ha servito in corte tanti anni, mi assicurava un giorno che pareano fratelli; nè a casa mia si fa pagare, come altrove, quattro tarì la misura, perchè poveri ormai dobbiamo rimanere, ma col santo timore di Dio: io per me lo compro a tre tarì e mezzo, e lo vendo tre e tre quarti; guadagnerò poco in questo mondo, pazienza! salverò l’anima in quell’altro; tanto, in questo siamo pellegrini, come dice Frate Giocondo, e di là dobbiamo dimorare degli anni più di millanta: mi hanno assicurato, bel Cavaliere, che la pena degli osti nell’Inferno sarà di stare sommersi nell’acqua che hanno mescolato nel vino; pensate quante pertiche sotto vi starà l’oste dell’Aquila d’oro! davvero che me ne duole per lui, che ha famiglia; quello poi dell’Orso bianco credo che quando anche gli fosse concessa licenza di tornarsene a galla consumerebbe l’eternità per la via.»
L’oste, mentre così discorreva, aveva spiegato una meschina tovaglietta, e l’andava assettando sopra la tavola, la qual cosa vedendo il nostro pellegrino, vôlto a Rogiero favellava: «Bel Cavaliere, se Dio vi aiuti, qualora vogliate godere della nostra compagnia, io non vi sarò scortese come già voi lo foste con me; venite francamente, io mi restringerò da un lato, e spero farvi tanto luogo da potervi sedere.»
«Quando anche» gli rispondeva Rogiero, guardandolo traverso, «tu tenessi ad una mensa il posto del cane, ed io mi dovessi sedere nella scranna del Barone che gli getta l’ossa, aborrirei di sedermi a quella mensa.»
«Questa è da valente uomo. Messere,» parlò l’oste, fingendo di prender le parti di Rogiero; «ciò si chiama rendere tre pani per coppia, e vino dolce per malvagìa; tanto sa altri quanto altri, pellegrino, e così avviene sempre a coloro che cercano migliore pane che di grano.»
«L’ho io offeso offrendo di fargli largo alla mia mensa?» soggiungeva il pellegrino; «e deriva dai tempi vecchi l’esempio di colui ch’ebbe morsa la mano per dare del pane al mastino; nondimeno che cosa insegna il Maestro? Se alcuno ti chiede il farsetto, e tu dàgli anche il mantello; se tale altro ti percuote la guancia destra, e tu gli presenta la sinistra perchè ti percuota anche quella; – però ti perdono.»
«Da vero! Provami come potresti fare altramente, allora forse ti saprò grado del tuo perdono.»
«Spesso» affermava il pellegrino, ficcando addosso a Rogiero certi occhi maligni quanto quelli della vipera, «una scintilla arse castelli e abbazie; spesso un verme guastò la più alta querce della montagna.»
«Comincia a tacere, se vuoi ch’io ti stimi onesto; se in te fosse ombra di virtù, vanteresti meno te stesso.»
«Questa non è buona ragione; la lode in bocca propria può essere difetto, ma non esclude la qualità lodata.»
«Io giuro che se tu avessi la potenza della favilla, arderesti: sei un rettile fiaccato sopra la vita…»
«Sono uomo – che sovente è impedito nel fare il bene quando vuole, ma che sa fare il male quando anche non vuole.»
«La notte nella quale senza vederti in faccia, dal suono della voce, ti dissi scellerato, per certo non m’ingannò l’intelletto; tuttavia non conobbi allora, nè posso conoscere adesso, di quale specie sia cotesta tua iniquità: io non so se tu sii malvagio stolto, o malvagio sapiente, se per arte, o per natura; tu mi apparisci come un sembiante truce mezzo coperto dal mantello, come uno spettro più che metà confuso nel buio; ogni tuo sguardo porta affanno; ogni parola, trafitta nel cuore: s’è vero che vivono serpenti, di cui il fiato ha valore d’irrigidire i sentimenti, tu ne sei certamente uno in forma di uomo.»
«Cavaliere, se la esaltazione del sangue derivata da finta sventura vi rese una volta facile all’oltraggio, e me per compassione paziente a soffrire, pensate che non sempre a voi sarà dato oltraggiare, quantunque in me non sia per venire meno la virtù di tollerare. V’è un occhio che vede i torti del debole, e una mano che gli ripara.»
«Ch’io la vegga una volta.»
«Potreste sostenerne la vista? Ella vive quantunque nascosta: il fulmine da man celata scende.»
Il suono col quale il pellegrino discorreva queste ultime parole fu talmente diverso da quello adoperato finora, che Rogiero lasciò cadersi come spasimato col capo sopra la tavola. Al punto stesso il pellegrino accennando con gli occhi e con la persona a due dei suoi compagni, fece sì che si levassero in piedi, e andassero prestissimi a situarsi ai lati della tavola di Rogiero. L’oste si pose le mani dietro, e veduta la mala parata si trasse piano piano verso la porta. Nessuno fiatava: per ben dieci minuti ogni cosa fu cheta; alla fine Rogiero prese a mormorare bassamente: «Egli è desso, – l’uomo fatale, – l’istrumento del destino. – L’anima non ha accolto la sua voce col medesimo terrore? Non si è congelato il sangue, i polsi rimasti?» E poi proseguiva con forza maggiore: «Egli è desso!» Appena proferite queste parole, chiuse le pugna, tese le braccia, tutti i muscoli del volto compresse, come se riunisse ogni virtù per non soccombere sotto un dolore, e le ripetè più volte: «Fosse un demonio incarnato, sprofonderemo insieme nel fuoco penace, perchè io me gli avvinghierò alla cintura, nè il lascerò finchè non mi abbia reso ragione del suo fiero perseguitarmi, – del suo ingannarmi. Scellerato! io non l’offendeva mai, mai più lo aveva visto, ed ei mi ha voluto far perdere lo intelletto, – mi ha avvelenato la vita; – ma lo stolto me ne ha lasciata tanta da dargli la morte,… e se sei tale da soffrirla, ora la soffrirai.»
Dava un calcio alla tavola, e cibo, bevanda, stoviglie, ogni cosa gettava rovesciata sul pavimento: sorgeva; aveva la guardatura terribile, il viso acceso, la persona in atto di offendere. Guai al pellegrino, se lo avesse giunto, che non avrebbe avuto altro bisogno di medico per finire la vita. I due ribaldi che gli s’erano messi allato lo presero per le braccia e pel petto, dicendogli: «Dove, Messere?»
«Con voi non ho nulla… scostatevi… lasciatemi. chè devo ricambiare alcune parole con quel demonio là.»
«E gliele potrete dire da questa distanza, così bene che da presso; per quello che pare non avete lasciato la lingua al beccaio.»
«No, – no: – è forza ch’io gli stia vicino… lasciatemi, vi dico,» e scotevasi «lasciatemi… vi comando… vi prego.»
«Non vi accostate, Cavaliere, che vi farò mal giuoco; non sapete che il Diavolo scotta? Eh! dico, Puccio, tienlo sodo, – e tu Giannozzo,…»
«Ingégnati pure, se sai; ma converrà che tu mi dica per qual ragione da più mesi m’inciti alla vendetta di un uomo che non era mio padre… dimmi… dimmi, perchè mi hai spinto al delitto?»
Rogiero, per una convulsione di rabbia, raddoppiando la forza, si adopra svincolarsi dai ribaldi e gittarsi sul pellegrino: quelli però che troppo bene lo tenevano, nol lasciarono andare; tuttavia, mal potendo resistere all’impeto, lo seguitavano strascinati. Il pellegrino, di tanto baldanzoso che era, divenuto a un tratto avvilito, dato un urto alla tavola, si mette a fuggire: la tavola si rovescia come quella di Rogiero, – e qui pure, sottosopra ogni cosa: – forse l’impeto della paura fu violento quanto quello del furore; – forse erano poste in bilico a bella posta dall’ostiere, affinchè al primo urto cadessero, e così avesse occasione di farsi pagare per nuovo tutto ciò che vi stava sopra imbandito.
«Bel modo davvero di acquistar le grazie del Signore, ghiottoni!» urlava il pellegrino avvolgendosi per la stanza; «tenetelo, sciagurati che siete; non vedete che se vi fugge ci strangola quanti siamo?»
«Che sciupinío!» gridava per altra parte l’oste, «che sciupinío! Vergine addolorata! poveri miei stovigli che aveva comprati belli e lucenti alla fiera di Piscitella! – mi avete guasta la dozzina, signori: – chi paga? ehi! chi rompe paga… chi paga?…»
«Mi fate forza!» gridava a sua posta Rogiero «che è questo?… tanto ch’io possa riprendere la spada… iniqui! al tradimento!… al tradimento!»
«Va,» ordinò un ribaldo all’oste «va, e recaci quante corde hai in cucina…»
«Ma questo non entra…»
«Che? Párti che ti abbiamo fatto guasto per uno agostaro? quando anche ti abbruciassimo la casa con te e la tua famiglia dentro, il danno non potrebbe sommare a tanto.»
«Ecco che le mie profezie diventano vere,» riprese un altro ribaldo; «se fino da bel principio lo aveste assuefatto, secondo il mio avviso, a dargli del bastone sul capo per pagamento, non farebbe oggi dell’indiscreto: – va su tosto, furfante, a prendere le funi.»
«Considerate… vedete…»
«Se rispondi anche una parola,» minacciava col pugnale il ribaldo «giuro per l’anima di mio padre, che non risponderai in appresso a nessuna dimanda che ti sia fatta in questo mondo.»
L’oste muovendo la bocca, come se gustasse alcuna cosa acerba, partiva immediatamente. Intanto Rogiero faceva l’estremo di sua possa per liberarsi; si aiutava con le mani, co’ piedi, co’ denti; quei che percosse sentirono dolore anche il giorno appresso; cacciava acutissime strida: con forza e destrezza maravigliose, sovente abbattuto, col peso di un uomo sul corpo, lo mise sotto, e si rilevò calpestandogli il petto; faceva uno schiamazzo, un rovinio da potersi sentire a mezzo miglio d’attorno. In questa tornava l’oste, smarrito nel sembiante, con corde in mano, gridando: «Gente! gente! a questa volta.»
Un ribaldo porse il capo alla finestra, e lo ritrasse pronunziando una fiera bestemmia.
Si udiva il rumore di mano in mano avvicinarsi, allorchè l’oste prese a dire a voce alta: «Lasciate questo Cavaliere, egli è in casa mia, e deve starci sicuro come in Chiesa: se vi ha fatto torto, aspettatelo fuori: – che è questo venire in tanti contro uno? – che soperchieria! – che assassinamento! – giuro al corpo… al sangue…»
I ribaldi gli risero in volto; il pellegrino che conobbe l’arte dell’oste, gli disse: «Senti, Pierone, credi che ti mancheranno delitti per andare alla forca celando quest’uno? Tu hai avuto uno agostaro onde prestarci la tua opera per imprigionare questo Cavaliere, se fosse capitato in tua casa; eccotene un altro: il modo con che getto i danari, ti faccia persuaso che non ispendo dei miei. Colui che mi ha comandato di arrestarlo, è tale che può farti impiccare per avere pôrto da bere ad uno assetato. Hai inteso? fa senno, se non vuoi che qui dentro venga la bara prima che sia molto.»
La gente, come cosa matta, inondava la stanza; – erano vassalli del vicinato, tratti al rumore: – domandarono che cosa fosse accaduto, come stesse la bisogna, e intanto alcuni si portavano a liberare Rogiero: se si fosse taciuto, lo avrebbero per certo tolto dalle mani di quei ribaldi; ma vedendo il pellegrino che tentava nascondersi nella calca e fuggire, non potè tenersi dal gridare, accennandolo: «Prendete quel serpente, quel demonio là; sono mesi e mesi che mi perseguita!»
Tutti gli occhi si voltarono da quel lato. Il pellegrino, conoscendo non potersi celare, si fece oltre arditamente, e vôlto ai più vecchi, giungendo le mani e sollevando gli occhi umidi di lagrime, favellava: «O Signore, ben sei misericordioso e sapiente in ogni opera tua, così che quello che ci mandi deve essere tutto bene, quantunque ci si offra sotto la forma del male; pure per le preghiere di questi Fedeli, per quelle di me peccatore, ti piaccia liberare quella povera carne battezzata» e mostrava il Cavaliere «da tanta tribolazione; vedi, come lo travaglia il nemico del genere umano; vedi, come esulta della vittoria l’angiolo maledetto…»
«Ah traditore!» gridava con quanto aveva in canna Rogiero «lascia che io mi ti accosti, e vedrai chi di noi due sia indemoniato…»
«Deh! vedete, fratelli,» senza dargli mente continuava il pellegrino «a che mena il peccato; divenite savii dall’esempio altrui, frequentate i sacramenti, digiunate, vigilate, perchè il tentatore sta sempre alle velette…»
«È indemoniato?» urlava la gente accorsa, tutta atterrita.
«Iniqui!… stolti!…» con la spuma alla bocca urlava il mal capitato Rogiero, e avventavasi digrignando i denti.
«Tenetelo forte, fratelli, ma con carità, che sebbene indemoniato, egli è pur sempre Cristiano; tenetelo, – a voi, – legatelo per amore di Dio: – considerate, fratelli, la malignità del Demonio, che lo spinge contro me perchè sono prete. Lui misero, se mi percuotesse! chè incorrerebbe súbito nella scomunica lata; – il Canone parla chiaro: Si quis suadente Diabulo huius sacrilegii realum incurrerit, quod clericum, vel monachum, etc.»
La gente, che era accorsa con tanto grave aspetto di fierezza da prendere di primo assalto un castello, adesso non osava accostarsi; si segnava, – susurrava preghiere; alla più parte non sarebbe parso vero rimanere lontana; altri pianamente presero l’uscio, e rifecero i passi. I vecchi pregavano; le vecchie, incapaci di sentire compassione, toglievano motivo dall’energumeno che credevano avere sottocchio, per favellare di tutti gl’indemoniati che avevano veduto ai giorni loro nel circondario della Parrocchia; i giovani ora guardavano i padri, ora Rogiero, il quale pareva loro che avesse assai motivo di montare così su le furie per essere tanto villanamente legato; pure timorosi di mal fare tacevano, ammirando la gravità delle ciglia paterne; le donzelle, sia buona natura che svapora in proporzione che gli anni si accrescono, sia, come credo, debolezza, gli si facevano sopra tutti gli altri vicino, e: – «Poveretto!» dicevano, – «peccato! che sarebbe pur bello! Oh! se potesse riacquistare la salute, darei il cappello che lo zio prete mi portò dalla fiera!» – «Ed io il guarnellino dalle feste.» – «Oh! sì, giusto si muove co’ cappelli e co’ guarnellini la misericordia di Dio!» – parlò con voce soave una fanciullina, che pareva uno angioletto, – «preghiamolo di cuore, e forse ci ascolterà; è tanto buono, mi ha detto la mamma, e noi lo preghiamo di fare cosa buona, dunque ci ascolterà.» – E le altre giovanette, seguendo il consiglio, pregarono, e fervorosamente, per l’infelice: – ma l’infelice non doveva essere sollevato. Rogiero le guardò: – belle le aveva fatte la Natura, più belle le faceva quell’atto di preghiera; egli era nato per queste sensazioni; dette un gemito, e gli parve di sentirsi confortato da lungo riposo; per alcuni istanti non vide che a traverso le lacrime le quali gli ingombravano gli occhi: già stava per parlare pacato più che non soleva, e coloro che lo tenevano lo avrebbero volentieri lasciato a patto di salvare la vita, allorchè quel pellegrino, che conobbe il pericolo della situazione, si mise a predicare: «Non v’inganni questa apparente tranquillità, fratelli; – oste, porgetemi l’acqua benedetta; – osservate, signori, quanta sia la malignità dello spirito infernale, che mostra di ritirarsi al punto di sentirsi vinto; vedrete come è per iscontorcersi allo spruzzo dell’acqua santa.» E presa dell’acqua, la gittava nel volto a Rogiero: «Ne reminiscaris, Domine, delicta nostra, neque vindictam sumas de peccatis nostris: dite il Pater noster.»
«Uccidetelo,» fuori di senno esclamava Rogiero «trapassate quel Longino, quel feritore dei costati innocenti…»
«Et ne nos inducas in tentationem.»
«Sed libera nos a malo.»
«Amen. Oremus…» ripeteva il pellegrino.
«Ah! questo non può sopportarsi!» gridò furiosamente Rogiero, e voleva fuggire dalle mani di quei carnefici, e uccidere od essere ucciso. Il suo stato è più agevole immaginare che dire; forse alcuno potrebbe formarsene idea, sapendo che molti di coloro che passavano per valorosi fuggirono via, facendosi grandi segni di croce. Oggimai aveva esaurito ogni genere d’imprecazione che la mente offesa può cacciare in bocca al disperato, e il finto pellegrino con empio abuso messo in opera più volte i santi esorcismi, nè il Demonio se ne andava, perchè non v’era. I ribaldi volgevano di tanto in tanto gli sguardi alla porta per vedere se la calca diradasse, e darsela a gambe: ell’era di fatti assai diminuita, pure la rimasta dava tuttavia da pensare. L’oste in quel caso parlò al pellegrino le seguenti parole: «Messer pellegrino, voi come cherico sapete meglio di me, che per esorcizzare i demonii non basta la santità della vita, che si richiede anche la facoltà della grazia; – voi forse avrete ricevuto il potere di cacciare i demonii minori, e questo sarà certamente sopra le vostre forze.»
Il pellegrino si morse il labbro inferiore in pena di non avere immaginato egli primo codesto espediente; nondimeno pensò valersene, e in vista dimessa riprendeva: «Ecco, che la polvere aveva dimenticato la sua umiltà, e Dio ha punito la sua presunzione. E chi sono io povero peccatore da volere imprendere miracoli concessi solamente ai Santi del Signore? Chi, per omettere le sacre cirimonie, la stola, e le altre cose, che si richiedono all’ufficio dell’Esorcista? Fratelli, si vuole una grazia maggiore della mia onde liberare questo tribolato; sarebbe mio consiglio condurlo in parte dove se gli potessero applicare addosso Reliquie dei Santi, e Agnus-Dei.»
Finite che ebbe queste parole il perfido pellegrino, la plebe grossa cominciò a gridare: «Meniamolo a Sant’Agata, sul corpo di Santo Menna: – ha fatto tanti miracoli, perchè non farà anche questo?»
«A Sant’Agata! – a Sant’Agata!» ripeterono tutti; e se i ribaldi lo gridassero di cuore non è da dirsi, imperciocchè ad ognuno di loro paresse sentire la stretta del capestro alla gola. Tolsero di peso l’infelice giovane per piena dello affanno caduto in deliquio; ed esclamando: «Largo, Cristiani, in carità, largo all’energumeno;» – e unendo alla voce violentissime spinte, giunsero a passare la porta. L’oste in bella maniera si era tratto nel canto dove Rogiero aveva lasciato le armi e la più grave armatura, e mentre che i muscoli della sua bocca erano impiegati ad articolare carità, il suo cervello pensava: – se quei furfanti non si rammentassero di queste armi, a ridurle in oro ho piuttosto avanzato che rimesso all’avventura: – tanto è vero che perdita altrui fa guadagno. – Uno dei ribaldi al punto di uscire dalla stanza si volse, e gelò il corso di quei raziocinii nella mente dell’oste; forse, se la folla non gli si fosse di súbito chiusa alle spalle, sarebbe tornato per l’armatura: l’oste lo vide trapassare la soglia con la gioia di un condannato che su la scala del patibolo ascolta la grazia; spiegò quelle mani che di per sè sole davano idea della rapina, e le stese, tremanti per la certezza del guadagno, su l’armatura; poi con passi obliqui, la testa in giro, affatto simile al gatto che ha rubato il pesce in cucina, traversò velocissimo la stanza, e andò a nasconderla sotto il carbone.
I ribaldi che tenevano presta pel ratto di Rogiero una lettiga sopra due buoni cavalli, ve lo chiusero dentro, ed essi pure montati su i loro ronzini presero da prima con passi soavi la via di Sant’Agata dei Goti.
Ormai la città appariva vicina, nè la calca diminuiva, e il pellegrino non amava di entrare là dentro; aveva per via pensato qualche nuovo accorgimento, ma nessuno gli era sembrato buono da praticarsi: costretto di adoperarne uno, chiamava a sè alcuni più vecchi della compagnia, e diceva loro: «Io ho pensato, fratelli, di condurre il povero ossesso a Benevento.»
«Oh! perchè questo, santo pellegrino?»
«Perchè costà vi si adora la immagine di Santa Maria della Pace, che pare fatta a posta per questi miracoli.»
«Pellegrino, a quel che vedo non avete visitato ancora la Chiesa di Santo Menna, e non sapete che ogni anno i Frati sono costretti di rimuovere i voti dal chiostro, e appiccarli nel refettorio.»
«Sì bene, fratello; ma alla fin fine Santo Menna è Santo normanno, e Maria è molto maggiore Santa che non è egli, e madre, e sposa del Signore, come sapete.»
«Certo non vo› dire che non parliate santamente, ma Santo Menna ne ha fatti degli altri, e…»
«Potrebbe fare anche questo, eh? chi lo nega? Lasciamo i Santi, via, e parliamo di cose umane: fratel mio, voi sapete meglio di me, che Sant’Agata fa Vescovo, e Benevento Arcivescovo; ora nella gerarchia ecclesiastica l’Arcivescovo può molto maggiori cose del Vescovo: e poniamo che a quello riuscisse, a questo no, ditemi, fratello, non vi rimorderebbe la coscienza di averlo così trasmesso da Erode a Pilato?»
«Voi parlate santamente; ma Santo Menna ne ha fatti degli altri, e…»
«Ne farà degli altri ancora, – chi lo nega? E’ bisognerebbe non essere Cristiani per negarlo: ma che dice il Profeta? – Onagrus silvester, intelligis ne, me velle ducere illum in ore leonis… in capite draconis.»
Il povero uomo, fulminato da quel latino, non osò aggiungere motto: l’ore leonis, il capite draconis, lo avevano fatto abbrividire dentro e fuori; – si nascondeva tra la folla. – Subitamente la nuovità che non si andava più a Sant’Agata si sparse tra la gente, onde la più parte prese a sbandarsi, e a tornare donde era venuta; a mano a mano che avanzavano per la strada di Benevento, e si lasciavano alle spalle Sant’Agata, alcuni altri drappelletti cominciarono a seguire più lentamente i ribaldi, poi a riposarsi, poi a voltarsi verso casa; la comitiva si struggeva come pezzo di tela destinata a farne fila sotto le dita della vecchia. La notte adesso confondeva le cose, e di punto in punto insisteva con tenebre sempre crescenti, allorchè i ribaldi considerando che alcuni pochi giovani gli seguitavano, i quali volentieri avrebbero fatta altra cosa che camminare così a piedi, di notte, quindici e più miglia di paese montuoso, se non fossero state le amanze loro che si erano fitto in testa di voler vedere la fine di quel caso, deliberarono di essere affatto soli, e in questo pensiero, senza porre tempo tra mezzo, voltati i cavalli, si cacciarono tra quelli, menando di buoni colpi a destra e a sinistra col manico delle partigiane.
«Via, vassalli, via, villani!» urlavano tra le percosse «a casa, chè l’ora si fa tarda, e lunga la via; a casa, chè dimani la rugiada dee piovervi su la testa.»
Già que’ vassalli, come abbiamo detto, avevano più che voglia di ritornare; ora poi che vi si aggiungeva tanto persuasivo argomento, pensisi se levassero le gambe, e mostrassero le suola: e’ vi so dire, che chi corre, corre; ma chi fugge, vola; perchè tutto di un fiato arrivarono a casa, dove molte novelle raccontarono vere, moltissime false; e volevano armarsi, seguitare i ribaldi, e prenderne vendetta da incidersi in pietra, e da rammentarsi di lì a mille anni. Un vecchio però essendosi levato in piedi, fece loro osservare, ch’essi dovevano sentirsi stanchi, e aveano due gambe, mentre i ribaldi fuggivano con quattro; onde il meglio, a parer suo, era andarsene a dormire per sorgere alla dimane freschi e riposati, e così perseguitarli con più frutto. I giovani si guardarono l’un l’altro nel volto, nè aggiunsero motto; dopo quello sguardo però si accinsero a deporre sotto le lenzuola le parole e i pensieri di sangue.