Читайте только на Литрес

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 30

Yazı tipi:

«Anselmo,» gli disse il Conte di Caserta, occorrendogli, imperciocchè volle il destino che ritornasse prima di lui; «io ti aspettava.»

«Ch’è mai avvenuto di sinistro, Messere?»

«Nulla. Manfredi non diffida di noi; non vi smarrite di animo, Anselmo; mostriamo il viso alla fortuna, chè non sono ancora disperati gli eventi. Avete consegnati i dispacci?»

«Gli ho consegnati.»

«E fatti partire i Corrieri?»

«Sì, Conte.»

«Perchè avete fatto questo?»

«O che aveva io a fare?»

«Voi non siete uomo da suggerirvi che dovevate gettarli nel fiume.»

«Avete ragione, Messere; ma la vertigine dei casi mi ha turbato la mente… io non sapeva… io non avrei pensato…»

«Bada, Anselmo, a quello che operi; il mio cuore presso a cessare i suoi palpiti, ha ripreso l’antica vigoria; egli veglia, e tu non potresti essere a tempo a tradirmi.»

«Oh! che parlate, mio nobile protettore?» riprese il Cerra con atto di ossequio «io non ho mai tanto ferventemente ringraziato il Cielo quanto ora, che mi concede occasione di mostrarvi la mia riconoscenza col mettermi a rischio della vita per voi: meco stesso ho giurato di partecipare alle vostre gioie, ai vostri supplizii.»

Rinaldo fece sembianza di ringraziarlo con un sorriso; pure sapendo quanto malvagio fosse colui, divenuto anche sospettoso dal pericolo, non volle che dipendesse dalla sua scelta il mantenersi onesto; seco lo condusse alla presenza di Manfredi, nè lo lasciò un momento, finchè il fato estremo, che ormai minacciava il Conte della Cerra, non gli ebbe chiuso le labbra col segreto della morte.

CAPITOLO VENTESIMOQUARTO. LA PROVA DI DIO

Cotal fin ebbe il maledetto Gano:

Chè lo eterno giudicio è sempre appresso,

Quando tu credi che sia ben lontano.

Morgante Maggiore.

Sopra la testa di Manfredi posa la corona dei Re; – se fosse un cerchio di fuoco, la cingerebbe con meno dolore; una angoscia, come se la lama di pugnale gliele passasse da parte a parte, gli tormenta le tempie; le fibre del suo cervello, quasi riarse, sono stirate con incredibile spasimo; nondimeno solleva quella testa baldanzoso quanto in un giorno di vittoria, e dimostra che l’orgoglio dominerà su la sua fronte, finchè la morte non vi spieghi l’insegna della distruzione. Quegli occhi assuefatti a vigilare notti di spavento, a dormire sonni pieni di paura, che spesso si affissano in cotale direzione che non è della terra o del cielo, ma quasi a contemplare le schiere degli spiriti malefici, che la superstizione e il rimorso hanno posto nell’aria sotto il cerchio della luna, quegli occhi, dico, scintillano pur sempre di tale una luce, che bene ardito è colui che osa mirarli la seconda volta; infinite vene azzurre e sanguigne si dipartono di sotto il ciglio, e dirigendosi verso la pupilla si perdono pel bianco sporgente in molto terribile maniera: – pare che una scossa d’interna passione lo abbia forzato a balzare dalla fronte, ch’esso abbia resistito e vinto, pure la vittoria non sia stata senza gran danno, e rimanga così come franato mezzo fuori delle palpebre; – certo quegli occhi appaiono tremendi; ciò che di truce può immaginare la fantasia commossa hanno veduto, ed oggimai senza altra alterazione potrebbero fissare gl’interminabili cruciati delle anime perdute; – susurra la gente uscirne un raggio più spaventevole della cometa scomparsa, e giura che arde le carni su le quali si posa. La faccia ha bianca, e per la faccia erra un sorriso; – ride la demenza perchè non sa piangere; – ride la disperazione perchè non può piangere; – di gioia veramente egli non ride; se poi l’Onnipotente gli abbia tolto il senno o la speranza, noi non sappiamo; – la scienza della polvere non giunge a distinguere i segni della passione. Tale apparisce Manfredi circondato dalla pompa reale: la clamide di porpora, ricamata d’oro e sparsa di gemme, gl’ingombra parte della persona; stringe con la destra lo scettro; la manca ha su l’Aquila di argento che porta tessuta nel petto: – s’ei lo fa per reprimerne il volo, lo tenta invano: – sta scritto nel libro dove nè per minaccia nè per preghiera lo Inesorabile cancella, che l’Aquila sveva deva abbandonare per sempre la terra di Napoli.

Alla destra del Re siede il Conte Rinaldo di Caserta della famiglia di Aquino, sì come Gran Contestabile della Corona: sopra il suo seggio si vede lo scudo portante l’arme di sua casa, che a que’ tempi faceva tre bande rosse e tre bande d’oro cascanti da destra a sinistra inquartate, con un lione rampante, da metà in su d’argento in campo rosso, in giù rosso in campo di argento. Veste egli la cappa di porpora foderata di armellini, copre la testa d’una berretta di seta rossa, e tiene tra le mani la spada reale, insegna del suo ufficio: dimentico della gente che lo circonda, dimentico di sè stesso, si affissa sul volto di Manfredi per ispiarne il dolore; s’egli godesse, o sivvero si disperasse della costanza del Re, non dimostrava al di fuori, imperciocchè stesse immobile come cadavere. Primo a mano sinistra del Re comparisce il Gran Giustiziere del Regno, Giordano Lancia, cugino di Manfredi: veste anch’egli di porpora, e a lato della sua arme, che mostra lione nero in campo d’oro, con fascia intorno allo scudo, d’oro e di rosso, la quale avevano assunta i Conti di Lancia sì come discendenti dai Duchi di Baviera, spiega il gonfalone della giustizia, che secondo l’antica costumanza appiccava al balcone del palazzo ogni qualvolta condannava un uomo alla morte. Immediatamente dopo il Contestabile a mano destra veniva il seggio del Grande Ammiraglio, nel quale non si vedeva persona, perchè cotesto ufficio il Re Manfredi avesse conferito a Marino Capece, che in quel tempo, insieme col fratello Corrado, governava Sicilia: stava nondimeno su la sommità del seggio effigiata l’arme di sua famiglia, e il fanale, insegna della carica. Secondo alla manca del Re veniva Anselmo Conte della Cerra, gran Camerlingo, vestito anch’egli di porpora, con la chiave d’oro alla cintura: volgeva sospettoso gli sguardi per ogni parte, ed osservava in un punto teste, mani e petti; là dove era riunita una sola fila di Cavalieri o non guardava, o poco; ma ogni sua cura metteva di penetrare tra capo e capo, dove la folla compariva ben fitta, e discernere i più lontani e i meno rischiarati dalla luce. Seguitavano dopo di lui gli Ufficiali della Corona nel seguente modo, che minutamente descrivere sarebbe troppo grande fastidio nostro e altrui: il Gran Protonotario, di cui l’opera consisteva in ricevere i memoriali, e ridurre in decreto tutto quello che il Re sentenziava, sedeva terzo alla destra del Re, ed era, per quello che raccontano le storie, un messer Giovanni d’Alife; il Gran Cancelliere presidente degli affari civili del Regno e Segretario del Re, terzo a sinistra dopo il Conte della Cerra, il nominato Corrado di Pierlione Benincasa: e finalmente il gran Camerario, con la testa di cignale ricamata nel mantello di porpora, seduto su i gradini del trono ai piedi del Re, che, se la mente non erra, si appellava Giordano d’Angalone, zio di quel Natale che fu poi tanta parte nella congiura dei Vespri Siciliani. Disposte sì come abbiamo narrato le principali cariche della Corona, occupava la rimanente sala del Parlamento il volgo dei nobili, non già alla rinfusa, ma secondo la dignità dei sedili loro: e questi sedili, per chiunque avesse vaghezza di sapere che fossero, erano vastissimi portici aperti, dove da tempo immemorabile i Baroni delle diverse contrade si convocavano per trattare di affari pubblici e privati, o sì per diporto. Allorchè il Conte di Provenza scese in Italia alla occupazione del Regno se ne noveravano ventinove, sei dei quali maggiori, ventitrè minori: primo in prerogative era il Sedile Capuano, così detto per trovarsi presso alla casa del Re: secondo del Nilo, per una statua antica di questo fiume che avevano collocato nel mezzo del portico; terzo quello della Forcella, perchè presso alle forche; quello della Montagna era il quarto, essendo nel luogo più alto della città; pure tra i maggiori si consideravano i Sedili di Porto e Portanuova: i rimanenti passano innominati. Maravigliose a vedersi erano le ricche vesti, i giubboni di broccato, i mantelli, quale foderato di vaj, quale di zendadi verdi, rossi o rosati; aggiunge la Cronaca il nome di alcuni altri abiti, dei quali le memorie non ci hanno conservato la forma, come cipresi, tuni, e cioppe; maravigliosi i gioielli, le catenelle e le cinture di oro o di argento, che lavorate con quanto di più ingegnoso sapessero inventare le arti in cotesta età, e tempestate di diamanti, valevano talvolta mille e più once; ma più maraviglioso a considerare era, come in tanta ragunanza di gente, per natura loquacissima, non s’intendesse il più leggieri susurro; parevano ombre di morti costrette dagli scongiuri del negromante a comparire su quella terra, che da lungo tempo ne ha disfatto i cadaveri.

Mentre con grandissima sospensione di animo stavano i convocati nella aspettativa di eventi mirabili, dischiuse, allo improvviso le imposte d’una porta, comparvero due chierici, che portavano un altare, dice la Cronaca, di legno; ma noi troviamo, che simili altari permessi nelle persecuzioni della Chiesa furono dopo l’Imperatore Costantino solennemente aboliti nell’anno 547 di nostra salute in un concilio di Francia; onde ci è forza credere che Manfredi, il quale voleva fare le tante cose a suo modo diverse dai precetti della Chiesa, così pure si comportasse sul fatto degli altari. Giunti che furono i chierici sul mezzo della sala, quivi si fermarono, e accese due candele, e posto sull’altare un Crocifisso di argento, e un messale con ornati parimente di argento, senza proferire parola, come erano venuti, se ne tornarono. Manfredi soprastette alquanto, poi si mosse per alzarsi dal trono; – parve che non potesse; tentò di nuovo, e invano; alla fine con inestimabile sforzo si levò in piedi, scese i gradini, e si fermò davanti l’altare; depose sopra esso lo scettro, la corona, e la clamide; alzata quindi la destra nuda verso i Baroni esclamò: «Noi non vogliamo sangue… noi non vogliamo il vituperio vostro… cessate di cercare nel tradimento la via di rovinarci dal trono… voi nol potreste. Per libero, universale consentimento vostro, questo scettro, e questa corona assumemmo a Monreale; di libero consentimento nostro, questa corona, e questo scettro vi restituiamo a Benevento: possa colui che voi chiamate a succederci, operare quello che noi volemmo; possa con le sue virtù farvi benedire il momento, nel quale, mutando di fede, sommo bene riputaste la caduta del vostro antico signore!…» E seguitava molto commosso, se non che i Baroni, nulla rispettando la parola del Re, trassero le spade, e proruppero con altissime grida: «Morte ai traditori!… dove sono i traditori?» – e quelli che più urlavano erano coloro che più lo tradivano: il Conte della Cerra fu per perderne la voce; Rinaldo di Caserta alzò la spada, ma rinvenuto dalla sua distrazione, conoscendo che si trattava di difendere, non di ferire il Re, l’abbassò sospirando: – «Non è anche tempo!»

Il nobile Manfredi levandosi contro coteste voci, prorompeva: «Noi non vogliamo sangue: – sia questo l’ultimo comando della nostra autorità.»

Allora i Baroni non sapendo che cosa gridare, dicevano: «Riponetevi, messer lo Re, la corona che vi abbiamo data; noi spenderemo la vita per mantenervela su la testa.»

«Oggimai» rispondeva Manfredi «la corona di Sicilia, più che di gloria, è diventata di spine: pure noi non rifiutiamo lo incarico, laddove voi partecipiate nei pericoli di sostenerlo; nè noi soli bastiamo: giovi oggi rinnuovare l’antico giuramento; questo è il Cristo medesimo, che ascoltava, ora fa dieci anni, le voci vostre; questi gli Evangeli che sentivano il tocco delle vostre mani: – giurate.»

Se qualcheduno pratico delle cose del mondo domandasse qui, come Manfredi, il quale per indole e per esperienza tanto diffidava degli uomini, si commettesse così di leggeri alla fede loro, e stimasse, che alcune parole proferite avanti una immagine valessero a ritenere dal tradirlo anime, che cessarono di essere innocenti dal punto in cui pensarono al tradimento, noi vorremmo pregarlo a porre mente, che i tempi si erano fatti tali pel figlio di Federigo, che pericoloso diventava il non versare sangue, pericolosissimo il versarlo: vedeva anche egli la debolezza dell’espediente che adoperava, ma aveva meditato sul danno di quello che non adoperava: non già ch’egli abborrisse dalle vendette, chè anzi n’era quanto altro uomo desideroso: pure se nella casata dei traditori avesse avuto qualche amico al suo nome, se lo sarebbe alienato col supplizio del congiunto; ed egli molto abbisognava di amici, chè di nemici ne aveva più del necessario. Nello interno dell’animo però disegnava, passata quella tempesta, di farli colpevoli per punirli con la giustizia, e i pochi che suo malgrado si fossero rimasti incontaminati spegnere col veleno. Quello poi che faceva non era scelta; e da che operava costretto, la sua memoria poteva consolarsi nel felice esito dell’avventura, presso a poco uguale, eseguita da Filippo Augusto innanzi la battaglia di Bouvines per confermare la fede vacillante dei Baroni francesi. In tempi a noi più recenti, Maria Teresa, l’animosa Imperatrice, disperate le cose del Regno, suscitò il valore degli Ungari con simile accorgimento, e prevalse al nemico; molti altri Re e capitani usarono di queste arti con lieto fine, molti anche le usarono con tristo, e Manfredi fu degli ultimi; colpa meno del consiglio, che è cosa stolta biasimare dal fatto, che della umana natura, la quale composta di contraddizioni non concede sistema certo, nè regola per condurci con passi infallibili nei casi dubbii della vita: onde s’egli è pur vero che quel Divino lo dicesse, disse poco savia sentenza Galileo quando sostenne, potersi ridurre a dimostrazioni geometriche le operazioni morali dell’uomo. Tanto e tanto c’inabbisseremmo dentro queste sottigliezze, allorchè ci capita il destro di fantasticare a modo nostro, che se altri non ci riscuotesse, immemori della storia che raccontiamo, immemori del principio dei ragionamenti stessi, e di noi, chi sa dove mai andremmo a riuscire: – e’ vogliono essere storielle, non raziocinii; e la più parte di coloro che ci leggono, andiamo convinti, che, quando s’imbatte in un discorso come il passato, quasi dovesse affaticarsi su l’erta di qualche gran monte, apparecchia lo affanno, o da bestia leggiera lo scavalca a piè pari. – Proseguiamo il racconto.

Rispondevano in tumulto, sì come vuole il costume della plebe raccolta, i Baroni del Regno: «Messer lo Re, noi siamo pronti a fare quello che comandate.»

Scompigliati gli ordini, Anselmo trovò modo di accostarsi a Rinaldo, che tornato su l’astrazione pareva sonnambulo, e dirgli all’orecchio con molta destrezza: «Conte, tornate in voi; bisogna rinnuovare il giuramento di fedeltà… vedete un misfatto di più.»

«Non sarà quello che ci manderà all’Inferno,» – rispose Rinaldo: quindi accostatosi francamente all’altare, sì come correva la usanza s’inginocchiò pel primo, e toccando con la destra il libro dei santi Evangeli, con la manca le mani del Re, proferì a voce alta che si fece a mano a mano più fioca: «Al cospetto di Dio e dei Santi, rinnuovo nelle mani del mio Re Manfredi Primo il giuramento di lealtà, e ligio omaggio, che già gli ho giurato a Monreale:» – dette le quali parole, od ira, o coscienza, che il rimordesse, di vermiglio che era si fece pallido, e le parti del volto meno esposte alla circolazione del sangue diventarono di colore oscuro; nondimeno tanta faceva pressa il Gran Giustiziere di prestare il proprio giuramento, che quei moti del Caserta passarono inosservati. Ora si accosta il Conte Anselmo, baldanzoso, ridente di quel suo schifoso sorriso, quasi togliendo a scherno la persona del Re, e l’aspetto molto più sacro del Dio-Uomo, il cielo e la terra; si prostra innanzi l’altare, e stende la destra sopra gli Evangeli…

«Cristo!» – urla spaventato il maladetto, chè una mano ghiacciata gli avvinghiava il polso a guisa di tanaglia, e glielo teneva sospeso.

«Spergiuro!» lo minaccia da tergo un Cavaliere affatto coperto di maglia «se non mi tenesse il rispetto dell’altare, che tu hai polluto, e quello della Serenità del Re Manfredi, io ti darei d’un coltello pel mezzo del cuore; – alzati… dinanzi al mio Re, dinanzi a voi altri, onorati Baroni, accuso costui, Anselmo Conte della Cerra, colpevole di crimenlese, e traditore del Regno.»

«Tu te ne menti per la gola!» – comecchè sbigottito dal caso rispose incontanente Anselmo della Cerra.

«Io» riprendeva il Cavaliere, volgendosi a Manfredi, «costituito nella presenza della Serenità Vostra, con buona grazia e licenza affermo, che Anselmo Conte della Cerra qui presente è traditore. Egli ha tentato dare ai vostri nemici la terra vostra in danno e vilipendio di voi, dello Stato vostro, e con pessimo esempio di tutti i vostri vassalli; si è adoperato nella infame opera con ogni suo ingegno e forza; e quantunque infiniti concorrano gli indizii per chiarire con certezza la mia accusa, mi restringo a produrre questa carta, che per certo di per sè sola sarà sufficiente.»

Porgeva assai circospetto la carta al Re, il quale aveva riconosciuto il Cavaliere per quello stesso, che nella sera antecedente andava a scoprirgli la congiura: era la carta una minuta di lettera che il Conte Anselmo divisava mandare a Carlo di Angiò, nella quale gli magnificava i suoi servigii, e molto maggiori dei già fatti di farne prometteva; solo si rammentasse di lui; all’ultimo toccava, tutti i rimanenti Baroni congiurati essere una mano di stolti, che, dove egli non fosse, andrebbero di per sè a riporsi tra le mani di Manfredi; non pertanto non dubitasse, ch’egli saprebbe dominare gli eventi e resistere alla fortuna; per così savio e generoso signore spendere volentieri l’opera della mano e l’ingegno; spenderebbe anche la vita, dove l’occasione lo avesse voluto; – e così continuava con parole, parte lusinghiere, parte piene di cupidigia, tutte vili. La carta però non era firmata dal Conte, solo compariva scritta di suo carattere: Rogiero l’aveva trovata nel corridore, e il Cerra l’aveva perduta nella istantanea fuga.

«Quando» aggiungeva Rogiero «non s’intenda pienamente provata la mia accusa, sì come buono e leale vassallo mi chiamo tenuto a mantenere la onoranza e vita vostre, mio Re, nè schivare pericolo per dedurre a vostra notizia tutto quello che si trama contro lo Stato vostro, se non voglio essere, giudicato del medesimo delitto di crimenlese colpevole: però mi offro di provare, cimentando la sua persona con la mia, quanto ho proposto esser vero. Supplico con ogni istanza vogliate pronunciare lo indizio sufficiente per venire a duello, ch’io spero nella giustizia di Dio convincerlo, ad onore, mantenimento, ed esaltazione dello Stato vostro.»

«Ed io» rispose l’accusato «Anselmo Conte della Cerra, con licenza della Serenità Vostra dichiaro cotesto sconosciuto mentitore, e mantengo quella carta non appartenermi per nulla, esservisi falsificato il mio carattere…» Profferite appena l’estreme parole si accôrse Anselmo del fallo commesso; e procurò rimediarvi, aggiungendo precipitoso: «E però mi offro…»

Manfredi, che fino da principio del discorso gli aveva fitto addosso que’ suoi occhi scintillanti di malignità, al punto fatale lo interruppe domandandolo: «Chi vi ha detto, messere il Conte, essere questa carta di carattere simile al vostro?»

«Io…» rispondeva Anselmo esitante «io l’ho veduta.»

«Ah! l’avete veduta?» – disse Manfredi abbassando lo sguardo.

«Sì» – con terrore crescente aggiunse Anselmo.

Manfredi allo improvviso gli pose di nuovo gli occhi addosso, per lo che egli fu costretto a volgere a terra i suoi, e dopo aver considerato quel turbamento, con voce tra minacciosa e beffarda disse: «Sta bene.»

Anselmo, costretto a terminare la sua formula di mentita, come serpe fiaccata sul dorso, continuava: «E però mi offro in ogni giudizio militare e civile, difendere il contrario, solo confidato nella giustizia di Dio.»

Manfredi intanto, dopo aver ben letto la carta, la passava al Contestabile, dicendo: – «Che parvene, Messere?» – Rinaldo, recatasela in mano, faceva atto di guardarla attentamente: i circostanti, non potendosi frenare, gli si aggrupparono intorno; questi lo prendeva per un braccio, quegli per l’altro, chi gli poneva il capo sotto il mento, chi lo sporgeva dalle sue spalle; il più lungo gli stette di faccia, e in punta di piedi col capo ripiegato sul seno, a modo di cicogna quando prende il cibo; il più piccolo levata la faccia, e veduti quelli uomini che gli si paravano dinanzi a guisa di muraglioni, tolse una sedia, e vi montò sopra; così ne nasceva uno scompiglio, un susurro, che la natura napolitana ha in ogni tempo messo nelle più comuni operazioni della vita.

I congiurati, che ad ogni momento si facevano perduti, con voci o con cenni scongiuravano il Caserta a camparli da quella fortuna; ed egli, che sembrava mandar fiamme allorchè tutti gli altri pareano carboni spenti, gli assicurò di uno sguardo, che il suo spirito vegliava. In questo accostandosegli il Re ripeteva sommesso: «Che parvene, Contestabile?»

«Potete concedere il campo.» – Il che era vero; ma egli non lo consigliava mica per giustizia, avvisando, che se speranza di salute avanzava, consisteva nel levar di mezzo quella vita tanto sospettata del Cerra; cosa che sarebbe di certo avvenuta, dove fosse stato costretto a combattere, essendo costui d’indole codarda, di corpo indebolito, ed il suo avversario, a giudicarne dal sembiante, assai prode uomo di guerra: faceva in somma il Caserta al Cerra per caso quello che non era riuscito al Cerra di fare al Caserta per arte.

«Noi abbiamo pensato, Contestabile,» disse Manfredi al Caserta, «di ridurre questo affare a giudizio civile, perchè da questi giudizii di Dio non si ricava mai nulla che valga, e spesso lo invocato, che vi dovrebbe assistere, non vi assiste, e con manifesta ingiuria della giustizia il torto prevale alla innocenza.»

«Pure la religione…» – si avvisò interrompere un Cavaliere.

«La religione è cosa santa; ma v’ha tal donna chiamata superstizione che veste sì come ella veste, oscena di volto quanto quella è leggiadra; e per andare ambedue velate, la gente grossa non le distingue, Barone.»

«Dio» insisteva il Cavaliere «ha spesso visibilmente protetto la innocenza nei suoi giudizii.»

«Spesso anche no: perchè dobbiamo porlo nella necessità di fare un miracolo, che noi non sappiamo se sia decretato nel suo santo volere? perchè infastidirlo quando l’uomo può fare da sè? non ci ha egli dato il senno per questo?»

Il Cavaliere, sia che non sapesse che cosa rispondere, o che altro, si trasse indietro, mormorando: «È un eretico.»

Rinaldo, che pe’ suoi fini voleva che quel duello si facesse, aveva lasciato dire il Cavaliere, perchè usava un mezzo di persuasione che a lui non istava bene adoperare, e perchè dimostrarsi troppo insistente avrebbe dato sospetto; adesso, conosciuto che quelle ragioni non bastavano, si mise a proporre le sue.

«Mio Re,» favellava a Manfredi «voi sapete meglio che persona due essere le cause per le quali a forma delle costituzioni del Regno ha da permettersi il duello nella vostra terra: per crimenlese, e per la morte occulta di veleno, o in qualunque altra maniera data; sì che non potrebbe la Serenità Vostra senza derogare a un tratto…»

«E se noi vi derogassimo, Contestabile, che direste voi? Meglio una volta che mai: hanno a vivere eterni gli errori? Niun termine, nessun confine alle follíe dei nostri maggiori? Dorrebbevi forse, che fossero aboliti questi barbari avanzi di tempi infelici?»

Giordano Lancia, cugino di Manfredi, a lui per interesse e per volontà sinceramente affezionato, prese ad agevolare il consiglio del Caserta aggiungendo: «Messer lo Re, io stimo bene avvertirvi costituire questi giudizii gran parte dei privilegii baronali; a me pare, che adesso non corra la stagione delle riforme; e di questa, sono certo, si dorrebbero più di ogni altra, come quella che, per consistere in dimostrazioni esterne, più offenderebbe con la mancanza i sensi della gente.»

Manfredi, che non aveva creduto trovare così forte impedimento al suo pensiero, mosso dal consiglio di persone tanto autorevoli, si strinse nelle spalle, dicendo: «Pur troppo l’errore giunge con la velocità del desiderio, e si diparte con la lentezza della speranza!»– quindi avanzatosi verso il Gran Protonotario, ordinava: – «Spedite le patenti; noi concediamo il campo.»

Il Gran Protonotario, fornito assai prestamente l’ufficio, porse la patente a Manfredi perchè la firmasse, ed egli munitala di sua firma gliela restituì sul momento. Allora Messer Giovanni d’Alife lesse: «Noi Manfredi Primo per la grazia di Dio Re di Sicilia, etc. etc., per tenore delle presenti concediamo a Messer Anselmo Conte della Cerra provocato, e a Messer Cavaliere innominato provocatore, ambedue qui presenti, campo franco e sicuro a primo transito nella terra nostra di Benevento, dove ognuno di loro possa diffinire con l’arme la querela di crimenlese per lo tempo e termine di tutto il presente giorno, nonostante alcuna cosa in contrario, etc. etc. In fede di che Noi abbiamo fatto fare la presente, segnata di nostra mano, e munita del nostro suggello, anno Domini 1265, giorno 24 del mese di gennaio. – Manfredi.»

Anselmo non si aspettava a questo; e veduto che il Re si consigliava co’ suoi più eletti Baroni, per essere tra quelli il Conte Rinaldo, stava sicuro che l’affare del Giudizio di Dio non sarebbe andato più innanzi; però se gli giungesse improvvisa quella concessione del campo non è da raccontare; l’ascoltava come uomo smemorato; pure il Gran Protonotario non aveva finito di leggere la patente, ch’egli pensò tra sè: – Rinaldo avrà certamente consigliato che non si venisse a questo fine, almeno doveva farlo; forse che non avrà potuto impedirlo… ma e non avrebbe anche potuto promuoverlo? – perchè? – io non ne vedo la ragione: questo duello non si ha da fare, nè si farà. Guardiamo se per avventura giunsero i tempi di porre me sotto la protezione del trono, e loro sotto quella della forca… No, – oggimai è troppo tardi, gli eventi mi hanno strascinato; a mal grado del mio ingegno per ischivare l’unione fatale, l’altrui vita sta essenzialmente congiunta alla mia, nè posso far cadere la scure sul collo dei miei compagni senza ch’io ne perda la testa… la testa! – qui sì che ci vuole arte davvero: animo, Anselmo, non mancare in questo estremo a te stesso, aguzza lo intelletto, mostra il viso alla fortuna, ella si volge benigna agli audaci, e pensa che non ti resta per la tua salute che audacia. – Così appunto, secondo che narrano le vecchie leggende, quel Gano di Maganza, che occorre nella epigrafe del presente Capitolo, condannato da Carlo Magno allo squarto per aver tradito i Cristiani a Roncisvalle, dove morì il famoso Conte Orlando con la più parte dei Paladini di Francia, ormai presso allo strazio, supplicò l’Imperatore di una grazia, il quale, pur che non fosse di vita avendogliela quegli concessa, domandò di essere squartato da quattro cavalli verdi; invenzione che non giovò a quel tristo, più che ad Anselmo giovasse la sua, perchè dice la leggenda, che Malagigi per arte di negromanzia fece apparire quattro demoni in sembianza di cavalli verdi, e Manfredi con la sua autorità rimosse tutti gli ostacoli che mise in campo il male arrivato Della Cerra.

«Mio Re,» con atto modesto parlava Anselmo vôlto a Manfredi, «non v’ha colomba, per innocente che sia, che non possa essere dall’altrui malignità calunniata; la mia lealtà per voi si chiarisce per mille prove, nè teme offesa da questo uomo, che per dirne meno dirò che viene sconosciuto sì come fa il ladro…»

«Potrei scoprirmi, e allora che diverreste Anselmo?»

«Io parlo al mio Re, e prego di non essere interrotto:» (Manfredi accennava al Cavaliere che tacesse;) «ora Dio sa se volentieri io verrei al paragone con qualunque uomo al mondo, ed anche con costui, per sostenerla con l’armi; ma per appartenere ad illustre famiglia, tra le più nobili del Regno onorata, le leggi di Cavalleria mi vietano scendere in isteccato con tale che non pure non prova di essere Cavaliere, ma per istarsi tutto nascosto nell’armi potrebbe bene aver nota d’infamia…»

«Infame io? tu sei infame…»

«O bando per assassino, per tradimento, o per qualunque altra causa contemplata nelle costituzioni…» (Lo sconosciuto fece sembiante di prorompere; Manfredi lo contenne con un suo sguardo severo, tuttavia egli continuò a stringere con mano tremante di rabbia l’elsa della spada) «… così che lo potessi rifiutare di ragione, e però non venissi, assistendomi Dio, sì come confido per esser questa causa della innocenza, e causa sua, a conseguire vittoria contro costui più vituperosa, che perdita contro un Cavaliere onorato.»

«Conte della Cerra,» risponde Manfredi, «sappiate che un uomo che si affatica, come fa questo Cavaliere, a sostenere la gloria della nostra Casa, non può essere infame, nè notato di quelle vergogne che voi andate esponendo; nondimeno perchè a noi, quanto a voi, preme che illibate si conservino le leggi di Cavalleria, non vogliamo che con altri combattiate se non con Cavaliere.» E così favellando, ordinò a Rogiero che si accostasse all’altare: quivi arrivato: – «Ponete ginocchio a terra,» aggiunse, e toltagli la spada da canto, la sguainò, gliela percosse per tre volte su l’elmo, e proseguiva: «Voi siete Cavaliere: i modi vostri assai ci fanno palese, voi da gran tempo conoscerne i doveri; che voi siate per onorare il grado non dubitiamo» (e sì dicendo gli ricinse di sua mano la spada), «nè consentiamo che scendiate in campo senza illustre insegna. Contestabile Rinaldo, noi vi preghiamo esserci di tanto cortese, che lo vogliate accomodare della vostra arme; noi vi assicuriamo che le vostre bande d’oro, e i lioni d’argento, non si dorranno di questo, perchè se a Cavaliere privato fosse concesso portare impresa di Re, noi gli avremmo fatto presente della nostra Aquila stessa.»

Il Conte di Caserta, staccato dal suo seggio lo scudo, lo porse con bel garbo a Manfredi, che lo adattò al braccio del nuovo Cavaliere; il quale, sopraffatto da così grande dimostrazione di amore, null’altra cosa poteva proferire oltre questa: «O mio Signore, gran mercè!»

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
740 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre