Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 29
CAPITOLO VENTESIMOTERZO. LA SORPRESA
… E fino a quando il giogo
Soffrirem di un tiranno?..
… Sappiasi al fine
Che voi suo valor siete, e sua fortuna,
E che, sdegnati voi, Giovanni è un vinto.
Giovanni Di Giscala, tragedia.
«Voi qui, Alberico?» – aggiunse Manfredi, scorgendo il Maestro degli scudieri, che, affacciata la testa dall’usciale mezzo aperto, pareva che desiderasse un nuovo invito per entrare. – «Fatevi innanzi francamente, messere Alberico.»
«Messere il Re!» – rispose il Maestro inoltrandosi a mezza sala, dove inchinata la persona salutava in giro la reale famiglia.
«Che cosa vi mena, Alberico? parlate:» – e queste parole gli disse in accento amorevole, perchè i tempi si facevano oscuri, e Manfredi adesso sentiva più che mai il bisogno di rendersi fedeli i suoi ufficiali.
«Messere il Re, si è presentato un cavaliere al palazzo, e a grande istanza ha richiesto di parlare a Vostra Serenità: io gli ho detto, questa non essere ora conveniente; ma egli ha insistito, allegando trattarsi di caso gravissimo, nel quale andava della morte e della vita.»
«Il suo nome?»
«Non lo ha voluto manifestare, e la sembianza neppure, perchè va armato di armatura straniera, e tiene calata la buffa dell’elmo; però non porta arme da offesa.»
«Chi vi ha chiesto se avesse armi da offesa? Dove si trova?»
«Io l’ho introdotto nel mio appartamento, perchè fosse veduto da meno.»
«Elena, Yole, Manfredino, addio; voi vedete che sia la gloria del trono, – domanda perfino quei pochi momenti felici, che ogni uomo trova a sazietà nel seno della sua famiglia; ormai è un peso che il destino ha imposto sopra le nostre spalle, e che noi dobbiamo portare fino alla morte: statemi lieti; tra poco speriamo di tornare nelle vostre braccia. Andiamo, messere Alberico.»
Forse così favellando Manfredi mentiva i suoi interni sentimenti; forse anche parlava sincero, imperciocchè stia nella nostra natura, che la cosa conseguíta, nuda del desiderio e della speranza, divenga minore dell’aspettazione, e il dolore dello acquisto non abbia compenso nelle gioie dell’acquistato.
Giunto alla soglia dell’appartamento del Maestro, gli comandava che rimanesse, e invigilasse ad impedire l’entrata a qualunque vivente. S’inoltrava leggiero. Un cavaliere di bello aspetto, con la visiera calata, sorreggendosi alla spalliera di un sedile, pareva occupato in profonda meditazione; scosso dal rumore dei passi, osservò, e vide Manfredi; esitava da prima, vacillava; ripreso animo, si avanzò precipitoso, pose un ginocchio a terra, e disse con accento commosso: «Mio Re!»
«Alzatevi, Cavaliere, alzatevi: possiamo dalla cortesia vostra conoscere chi ci sta presentemente dinanzi? Possiamo sapere a che dobbiamo attribuire il bene di godere delle vostre parole?»
«Mio Re, se la generosità che altissima suona di voi non mi fa troppo ardito nella speranza, io vorrei pregarvi a lasciarmi sconosciuto; quello che sto per dirvi non è già grazia o favore, perchè la legge lo comanda; pure vado sicuro che me ne dareste guiderdone; sia pertanto, dove a voi piaccia, questo guiderdone anticipato, e consista nella licenza di tenere la visiera calata.»
Manfredi pensò un poco, e rispose: «Sia fatta la vostra volontà; voi siete venuto disarmato nelle nostre braccia, potevate non venirci; già a Dio non piaccia che si abbia a pentire persona di essersi affidata alla fede sveva.»
«Gran mercè!» – soggiunse il Cavaliere, toccandosi sul cuore; dipoi rinforzando la voce riprese: – «Mio Re, voi siete tradito.»
«Questo sapevamo, Cavaliere.»
«Che? sapete voi che si congiura contro il trono?»
«Noi sappiamo che i nostri sudditi sono uomini, e che noi abbiamo sempre tentato di farli gloriosi.»
«Non tutti vi tradiscono, e molti darebbero la vita per voi.»
«L’ora della prova non è arrivata.»
«Arriverà.»
«E allora vedremo la fede, ora vediamo il tradimento. Cavaliere, avete nulla altro a riferire?»
«Sì, veramente.»
«Parlate.»
«Nel vostro Regno, in questa stessa città, in questo stesso punto, dalla più parte dei Baroni napolitani si macchina contro la vostra vita.»
«Che dite? Badate…»
«Si congiura contro la vostra vita.»
«Questo non è possibile.»
«Si parla la menzogna al cospetto dei Re?»
«Come proverete l’accusa?»
«La Dio mercè, agevolmente.»
«Pur, come?»
«Conducendo su l’istante la Serenità Vostra al luogo del convegno.»
«Vero?»
«Venite.»
«Codardi! stolti!» gridò Manfredi, forte percuotendo sopra una tavola; «credono fuggire la fama di vili coll’opera di traditori: essi ad ogni modo vogliono rovinarci, rovineranno anche sè stessi; poi in fondo alla miseria, ci desidereranno quando non saremo più; – solita vicenda dei buoni, essere odiati in vita, e pianti in morte! davvero che ce ne duole per essi. O miei vasti disegni! o speranze! o veglie di meditazione indarno! Ben era morto l’aspetto d’Italia, nondimeno ebbi fede che un atomo di vita le si conservasse nel cuore; osai stendere la mano alla prova, ne ho ricavato la certezza dolorosa che da gran tempo la stringe ghiaccio di morte. Italia è spenta tutta per sempre. Maestro! Maestro! fate che quanto prima i miei scudieri, armati, in sella, si trovino giù nel cortile apparecchiati a scortarmi, – andate, affrettatevi, usate discrezione.»
Mentre che questi casi accadevano nel palazzo reale di Manfredi, il Conte Rinaldo di Caserta, raccolti a notturna congrega tutti i Baroni congiurati, esponeva loro con ammirabile chiarezza le cose fino a quel punto a buon termine condotte, e le altre che disegnava imprendere, affinchè potessero pervenire allo scopo desiderato. Tutto ciò che per lo innanzi abbiamo riferito del Conte della Cerra non era avvenuto senza ch’ei lo sapesse, ma, od occupato più strettamente di prima presso Manfredi, o per alterezza d’indole, aborrente dalle minuzie che ogni opera per quanto grande suole mai sempre strascinarsi dietro, ne lasciava lo incarico a costui: ed è qui che bisogna aguzzare l’intelletto per ben distinguere l’animo di questi due Conti, perché Rinaldo di Aquino fu gentile Cavaliere, e cortese operatore di ogni azione onorata; la sete terribile della vendetta convertiva in malvagie le sue belle qualità; travolto dall’impeto della passione, più tosto che di animo deliberato, gustava il frutto del delitto, ed ora si rinveniva sopra una via scabrosa dalla quale nè sapeva nè voleva uscire, come quella, che sola poteva condurlo al suo fine: il Conte della Cerra poi era venuto al mondo con le protuberanze di Truffaldino; le opere oneste non pure ei non eseguiva, ma fatte da altrui non intendeva, nè poteva andare capace come si potesse dir savio quegli che altramente da lui praticasse; non amava nessuno, nè odiava nessuno in ispecie, – odiava tutti; serviva da lungo tempo il Caserta, imperciocchè ne avesse finora ricavato buono utile, ma stava pronto a tradirlo, se questo utile fosse cessato, o se il tradirlo gliene avesse offerto uno maggiore; pensava che il traditore non avesse mai torto per questa ragione: – quando due uomini, – ragionava costui, – si stringono in società, egli è certo che l’uno promette all’altro tali vantaggi, che o solo, o accompagnato ad altro uomo, non potrebbe godere; però, se una parte cessa di presentare questi vantaggi, e l’altra se ne allontana, la mancanza di fede non istà nell’ultima, ma sì nella prima che ha cessato dalla condizione dell’utile, principalissimo patto della antica stipulazione. In somma, per non fermarci più oltre, chè l’ora si fa tarda e lunga la via, da che mondo è mondo nessuna testa fu battezzata, che più di quella potesse fare onore ad un nodo scorsoio.
Rinaldo seguendo la sua orazione favellava ai circostanti: «Ecco che la Provvidenza vi manda i tempi fatali da voi così lungamente desiderati, e con tanti voti affrettati: stiamo adesso a vedere che sarete per fare. Già le vittoriose armi di Carlo, sgombrandosi innanzi il paese, accennano voler traghettare il Garigliano a Castelluccio e a Cepperano, già si presentano ad espugnare Gaeta: sono con loro la benedizione del Pontefice, il valore che nasce dal buon diritto, la chiamata dei popoli; con quelle di Manfredi, terrore, e paura: che più dunque aspettiamo a ribellarci? – già più di quello che si addice ad uomo prudente abbiamo indugiato. Vogliamo forse che Carlo giunga sotto le mura di Napoli, per sovvenirlo dei nostri soccorsi? Allora qual sarà maggiore, o la scempiezza del Conte nel farci partecipi della vittoria, o la imprudenza nostra nel pretenderlo, io non saprei. Nessun premio senza pericolo, nessun guiderdone senza fatica: anzi, s’io bene considero, parmi che facendo alcuna dimostrazione in pro di Monsignore di Provenza non siamo per correre pericolo di sorta; non anche si muovono le bande armate di Calabria e di Puglia, non anche quelle di Sicilia; sorgiamo, precipitiamo gl’indugii, facciamo che queste forze non si riuniscano; la fortuna non offre più di una occasione; e voi sapete, Baroni, che un oggi val meglio di due domani, e che chi ha tempo non deve aspettar tempo; cada questo colosso di creta sotto l’anatema della Chiesa, sotto il furore degli oppressi. Vogliamo forse aspettare gli estremi danni per levarci dal collo il vituperoso giogo di Manfredi? Non bastano i baronali privilegii soppressi? non i balzelli forzati? non le nostre case espilate? non quelle di Dio contaminate?»
«Non le mogli sedotte?» – qualcuno si avvisò di aggiungere.
«Chi è colui che ha parlato di mogli? Che si vuol dire egli con le mogli?» – gridò concitato a rabbiosissimo sdegno il Caserta.
«Io l’ho detto così per dire, e per aggiungere un torto a quelli che avete annoverati.»
Il Conte mutò di colore, cadde riverso su la sedia, dalla quale era sorto per meglio mostrarsi infiammato nell’orazione, nè per quanto si sforzasse potè continuare, onde comandava al Cerra, che gli sedeva a canto, ordinasse i consigli.
Il vecchio, che la sera antecedente aveva con tanta aggiustatezza di senno favellato, senza altro invito aspettare levatosi in piedi, e riguardati gli astanti con un certo piglio di superiorità, cominciava: «Dacchè vogliono i fati che per noi si debba adoperare uno espediente infame per ottimo fine, confortomi di questo, che la virtù pubblica fu sempre figlia, più tosto che madre, della libertà, e che sì come da fetida erba nascono odorosissimi gigli, così possano derivare dal tradimento sante provvisioni pel felice stato dei popoli, per la contentezza di tutti. Ora poi, siccome noi non odiamo l’uomo per sè, ma pel grave giogo col quale ci opprime, mio consiglio sarebbe che nella esecuzione dei nostri progetti nessuno odio privato, nessuna nimicizia particolare intervenisse, onde i nostri posteri vedano che se usammo i mezzi vili, ciò fu perchè la necessità ci allontanò dai generosi, e la necessità estimasi somma escusatrice dei fatti scellerati; anzi, pensando meglio, confido che sia per ridondarcene lode, come quelli che solo costanti in ben fare tenemmo in niun conto i beni della opinione. Affrettiamo pertanto Monsignor di Provenza a incamminarsi quanto può meglio veloce nel cuore del Regno; e non obbedendo ai comandi dello Svevo, non lo soccorriamo di nostre forze; meglio sarà non rispondere alla chiamata, che lasciarlo solo sul campo: certamente colpevole è il primo partito, ma il secondo è colpevole, e vile. Nè già con questo io voglio dire che ce ne dobbiamo stare disarmati, no; anzi raduniamo le nostre bande, e componiamo un esercito, il quale sia freno al conquistatore, e guarentigia per le cose promesse. – Allorchè invitiamo lo straniero in casa, ben lo dobbiamo accogliere come amico, tuttavolta però con tale apparecchio, che il comportarsi anche egli da amico verso di noi sia cosa non volontaria, ma costretta: quel potere ingiuriare impunemente è grande incitamento alla ingiuria; e quel dolerci della ingiuria quando non si hanno che querele per farla cessare, è stimolo anche maggiore allo scherno. Usiamo della forza che Dio ci ha concessa: veda Carlo, che se ci siamo dati a lui, potevamo anche non darci; e se egli non ci assicura, conosca che possiamo assicurarci da noi… Ridete, Conte della Cerra? Parlo da stolto io? Per quanto io abbia meditato, non mi venne fatto conoscere come meglio si possa ovviare a quanto esponeva la sera trascorsa…»
«Rido sì, Barone, e a ragione rido, imperciocchè questi vostri provvedimenti somiglino assai a quelli di colui, che, mentre ardono le interne pareti della casa, s’ingegnasse a spengere l’incendio con lo spruzzare i muri al di fuori; e’ bisogna distruggere la parte per serbare il tutto; e’ fa di mestieri potare i rami soverchi dell’albero rigoglioso, perchè meglio divenga fruttifero. Che pensate di fare con codesto vostro esercito mantenitore degli ordini? Davvero che me ne prende il riso, nè senza ragione, perchè quando Carlo avrà in mano l’erario, e il potere di mandare al patibolo chi vorrà chiamare ribelle, i mezzi in somma di corrompere e di punire, non vedete che quel vostro esercito sarà disfatto in una ora? E voi sapete che parando innanzi ostacoli agevoli a superarsi si accresce la baldanza a chi li supera. Udite me adesso, e dite se consiglio meglio di voi. Corre gran tempo, che una vil ciurma di vassalli riscattata a contanti dalla servitù, e fattasi ricca su i nostri livelli, trascorre insolentita a non volere riconoscere i feudali privilegii, sogna nella grossezza della mente farsi nostra uguale, osa perfino sperare di concorrere insieme co’ suoi antichi padroni alle magistrature del Regno; e’ fa mestieri cavare un poco di sangue a questo corpo, che tutto giorno con vicina minaccia di danno s’ingigantisce; è forza che egli si convinca che può variare signore, non signoria; che deve servirci, che deve formare una massa morta o viva, secondo i nostri comandi: il mezzo di conseguirlo sta nell’ordinaria in bande armate, e mandarla in soccorso dell’uomo; s’inciti pure con la lusinga d’una libertà che nè ella conosce, nè noi le lasceremo conoscere; vada lietamente sul campo ad uccidere e ad essere uccisa; prevarrà, non ne dubito, la disciplina francese, non senza strage però, ed allora noi avremo riportato due notabili vantaggi, quello di essere affrancati da gente tanto pericolosa, e di avere indebolito coloro che vogliono dominarci; a noi rimarranno intere le valorose masnade dei nostri castelli, e con esse la facoltà di sperdere i nuovi signori, sì come saranno dispersi gli antichi: bello ci si presenta lo scopo al quale miriamo, nè dobbiamo prenderci cura della via; un tradimento più, un tradimento meno, non è quello che ci deve tenere ormai che siamo su l’operare, e finalmente un po’ di sangue nelle rivoluzioni parmi necessario… E che! abbrividite voi? Da quando in qua diventaste femminette voi, da atterrirvi a questa parola? occorre forse uno tra voi che abbia le mani incontaminate? Chi di voi oserebbe giurare sul Vangelo che nei sotterranei del suo castello non ha fatto commettere segreto omicidio? In verità io vi confermo che le rivoluzioni senza sangue non hanno opinione. Perano Carlo e Manfredi, e provvediamo una volta a noi stessi. Forse alcuno temerà di risse civili, di contese tra i capi; ma oltrechè il Pontefice, apparecchiato a prevalersi della nostra discordia, farà in modo che stiamo collegati per ributtare i suoi tentativi, le guerre civili si vollero sempre preferire alle dominazioni straniere.»
Giunto che fu il Conte Anselmo a questa parte di sua orazione, la quale, se non per la profondità, almeno per la tristezza equivaleva a qualunque pagina del nostro Machiavelli, s’intese uno spesso scalpitare di cavalli, e vicino. Si alzò prestamente un congiurato, e fattosi al balcone della stanza contigua, ne ritornò tutto disfatto gridando: «Armati! armati a questa volta!»
Rispondevano in tumulto: «Siamo traditi.» – «E’ sarà la ronda che passa.» – «Misericordia! noi siamo perduti!» – «No… sì… udite al rumore ch’è troppo grossa squadra per andare in ronda.» – «Ma se lo aveva detto,» senza levarsi da sedere parlava il vecchio congiurato al suo vicino «che le cospirazioni quando vanno in lungo non si possono celare, specialmente tra noi che siamo d’indole tanto loquace!» – Lo scompiglio cresceva: egli era un andare, un venire, un urtarsi; pochi aveano tratta la spada, sprangata la porta al di dentro, e senza dire un fiato si mostravano disposti all’estrema difesa; i più invocavano o bestemmiavano Dio, e si avvolgevano per la sala privi di mente, per modo che somigliassero ai percossi di cecità dall’Angiolo del Signore davanti la casa di Lot. A tanto scompiglio si aggiunse un asprissimo colpo su la porta della via, e un grido che diceva: «Aprite, da parte di Messere il Re.» – Nessuno ardì muoversi alla chiamata, nè avrebbero potuto, chè i più fieri guardavano il passo: qual con gli occhi al soffitto, quale al solaio, speculavano se si parasse loro dinanzi un nascondiglio; videro una porta, e tutti facendo pressa si affollarono per aprirla; i primi sospinti vi dettero dentro col capo e col petto, e colà confinati, non potendo farsi largo per operare, e cansarsi nè meno, ne veniva che facessero nulla; intanto quei di dietro maledicevano la lentezza loro, e spingevano più che mai.
Rinaldo di Caserta, il quale dopo l’osservazione che interruppe il suo discorso era rimasto come smemorato, si riscosse a un tratto, e: «Svergognati!» esclamava «nel porvi dentro alla congiura voi non avete calcolato tutti i casi, – peggio per voi: questo è il caso del pugnale; mettete la morte tra voi e i vostri persecutori, nè temerete persona.»
Sono i Napolitani uomini in fama di poco valenti, ed anzi che no di codardi; tuttavolta la fama erra, e le storie rammentano fortissimi fatti per loro operati, quando che alcuno gli abbia con l’esempio o con le parole commossi; però, udito il Caserta, mutarono avviso, e tratte le spade giurarono combattere fino all’ultimo sangue. Per istrana contradizione della nostra natura, quelli che si erano mostrati più pronti alla fuga, contendevano adesso per essere situati nel luogo più pericoloso.
Poichè gli scudieri di Manfredi ebbero per ben tre volte, e sempre indarno, ripetuto la intimazione di aprire la porta in nome del Re, posero mano ad atterrarla; conseguivano l’intento, e primo il Re si cacciava su per le scale seguitato súbito dopo dal Cavaliere sconosciuto; percorsero moltissime camere senza trovare traccia di anima vivente, quando alla fine pervennero innanzi un’altra porta serrata; provarono a schiuderla con le sole mani; non venendone a capo, presero a darvi dentro con le mazze d’arme, così che fecero cedere anche questa, con tempo e fatica maggiore però, come quella ch’era forte sbarrata. Penetravano nella sala, – non v’era persona; si vedevano su di una tavola molti mantelli, per terra qualche brano di veste, e due spade, un fuoco, ed assai lumi accesi, vestigii tutti di recenti abitatori, – ma gli abitatori erano scomparsi. Manfredi, osservate alcune carte, le tolse in mano, e conobbe con maraviglia essere lettere del Pontefice e di Carlo, suoi nemici, ai ribelli. Intanto gli scudieri, non potendo darsi pace come fossero scampati i traditori, facevano le più strane cose del mondo: occorreva dirimpetto alla porta per la quale erano entrati un’altra porticella foderata di ferro di saldissima apparenza, per lo che stimando che fossero indi fuggiti, senz’altra cosa considerare, vi si affollarono per isforzarla, siccome poc’anzi aveano tentato di fare i ribelli, e già accennava crollare agli urti replicati, quando il Maestro dimostrava impossibile che se ne fossero usciti per quella, da che i catenacci si aprissero dalla parte loro. Adesso accadeva un fatto singolare: considerando certo scudiero assai devoto al suo Re gli arazzi che addobbavano la sala, ne fissò uno che presentava il Papa seduto in Concistoro nel punto di ricevere la Chinea, e il tributo che già da qualche secolo aveva imposto sul Regno; rabbioso di cieco impeto, alzò la mazza d’arme e lasciò andarla di tutta forza contro l’arazzo: ben per quel Pontefice ch’era tessuto, imperciocchè la mazza giunse a ferirlo giusto su l’orecchio, e gli divise la testa; l’arme però non balzava indietro, siccome doveva accadere se avesse urtato nel muro, anzi s’internò nell’arazzo, disparve, e s’intese ruzzolare molti passi distante: pensisi al terrore dello scudiere; per poco stette che prostrandosi non iscongiurasse il panno di perdono, se non che il Cavaliere sconosciuto, o sì vero Rogiero, accorse prestissimo, e divisolo affatto, scoperse un molto largo corridore. La scoperta di questo passaggio, unita alla osservazione del Maestro, distolse gli scudieri da atterrare l’altra porta, e fece sì che aspettassero gli ordini di Manfredi: questi, animoso come era, recatosi nella manca un lume, si cacciava dentro al corridore; lo seguitavano i suoi.
Importa avvertire che la sala dove si radunavano i congiurati fu già destinata ai giudizi criminali, allorchè il Vicario pontificio reggeva Benevento per la Chiesa: la porticella che gli scudieri avevano voluto atterrare menava alle carceri; quel largo corridore nascosto dietro l’arazzo serviva per stanza delle prove; quasi capi d’opera dell’arte raccolti dentro qualche museo, vi si vedevano disposti in ordine gli arnesi adoperati a que’ tempi per far confessare gli accusati; – eranvi le verghette di acciaio, dal lungo disuso un cotal po’ rugginose, pel tormento così detto dei Sibilli, consistente nello introdurle tra dito e dito, e poi stringer forte, il quale solevano adoperare con le donne, co’ fanciulli, e co’ vecchi; eravi la Stanghetta, lungo pezzo di legno di forma triangolare, che si poneva sotto i piedi del paziente, forzandolo a posarvisi ritto durante la recita di due Miserere; eravi la Corda, chiamata dai Dottori Regina probationum; la Capra, o sia cavalletto a schiena d’asino, sopra del quale costringevano lo imputato a giacersi supino; eranvi manette, spranghe per la bocca, tanaglie, e l’altre suppellettili degli antichi giudizi. Adesso (di tanto ci è stata benigna l’eterna misericordia) non solo rimasero coteste infamie abolite tra noi, ma pochi sanno in che consistessero; frutto dei caritatevoli scrittori del trapassato secolo, che di sì grande conforto sovvennero le umane condizioni; pure e’ mi è forza, e con dolore inestimabile, confessare che i delitti, invece di andarne diminuiti, spaventosamente si accrebbero. Di cotesti scrittori tolsero l’ultima parte, e lasciarono la prima, nè considerarono che la conclusione del sillogismo non può stare senza la premessa. Basta, le mie parole sentiranno, più che d’altro, di scemo; ma finchè non mi abbiano convinto in contrario, persisterò a credere, che gli uomini abbiano tolto la benda al toro prima d’introdurlo nello steccato.
Manfredi, senza dare attenzione a cotesti arnesi, procedeva con moltissima furia; trascorse un numero maraviglioso di camere e di anditi, di cui gli usci per la troppa fretta erano stati lasciati aperti; finalmente, quando meno se l’aspettava, sboccò in una strada deserta prossima alle mura: intese il guardo, intese le orecchie, – da per tutto silenzio; stette per alcuni minuti in forse se dovesse ritornare, o seguitare; poi il meglio gli parve rifare i passi: pervenuto nella sala della congrega, ordinò agli scudieri prendessero i mantelli, le spade, e ogni altra cosa lasciata dai cospiratori; le lettere dei suoi nemici già si era riposte con molta diligenza nel seno. Avviandosi al palazzo reale si accorse che il Cavaliere sconosciuto, côlto il tempo, s’era fuggito: il caso inopinato non gli apportava maggiore maraviglia; gli accresceva il sospetto.
Intanto Rinaldo ed Anselmo, trafelati, affannosi, chè avevano camminato più che di passo, arrivavano alle dimore loro. In qual modo fossero giunti a sottrarsi all’imminente pericolo esporremo con brevi parole. Il Conte della Cerra, come colui che astutissimo era, non aveva scelto il palazzo del Legato pontificio per la riunione dei congiurati senza il consueto accorgimento: già prima che si partisse di Napoli aveva sentito tenere proposito delle segrete uscite del palazzo di Benevento; sua prima cura, appena venuto in questa città, fu di accertarsi se fosse vero quello che portava la fama, e tanto gli fu favorevole la ventura, ch’ei ne ritrovasse la pianta dentro l’archivio: la cagione per la quale non isvelasse il passaggio al primo rumore, si trova nella sua scellerata natura: vilissimo uomo, godeva dell’avvilimento dei suoi simili, e in quella comunione di bassezza il suo cuore si sollevava; nè, se qualche grave bisogno non lo avesse costretto, avrebbe egli imposto termine alla dimostrazione delle vergogne spirituali, ch’ella era il più gradito spettacolo al quale potesse esser chiamato; però finchè vide tra i cospiratori paura, stette a goderne, immemore del pericolo; ma quando si concitarono a súbito sdegno, quando statuirono di difendersi, e di morire, allora, quasi non potesse sopportare la luce di quella generosità, partecipava loro conoscere modo di salvarsi con la fuga: se lo accettassero con liete grida, se lo immagineranno coloro i quali sanno, che se l’uomo talvolta s’induce a diventare prode per disperazione, più spesso si rimane vile per sicurezza.
Non anche si ristoravano dello affanno sofferto, che videro i nostri Conti entrare nella stanza uno scudiere del Re, il quale per parte del suo signore intimava che tosto si rendessero a Corte.
«Sapete voi la cagione della chiamata, scudiere?» – domandava il Cerra con mal celata impazienza.
«La mia commessione sta nello intimarvi di andar súbito in Corte.» – E dette queste parole, lo scudiere fece un inchino, e si partì.
«Io non vi andrò,» parlava il conte Anselmo «no certo; se vogliono imprigionarmi, mi prendano; ma che vada io stesso a pormi nella tagliola, non conosco legge divina nè umana che lo comandi: su, levatevi, Conte; non parmi tempo di meditare questo, – fuggiamo.»
«E sempre fuggire, e sempre fuggire, nè ferire mai!» rispondeva il Caserta «vattene, se vuoi; io aborro il consiglio della paura; non passò anche un’ora che mi apparecchiava a partirmi da questa vita senza vendetta, adesso avanti di morire posso sperare di vedere il sangue del mio nemico; – è mancata la vendetta della mente, quella della mano non può mancare: non sei anche tu armato di pugnale? che temi? La morte salda tutti i conti:» e preso Anselmo pel braccio aggiungeva: «Vieni.»
«Ecco, Messer Contestabile, ecco, Messer Camarlingo,» esclamava Manfredi appena vide i Conti di Caserta, e della Cerra, che entravano nella sua camera, «la vantata fedeltà dei miei Baroni: quando io mi travaglio dì e notte per preservarli dalla invasione straniera, quando io mi apparecchio a versare il mio sangue sul campo in loro tutela, invidiosi perfino che io chiuda con la gloria una vita consumata dalle fatiche, congiurano a spengermi col pugnale del sicario, offrono al mio nemico il mio trono, – perfidi!»
«Messere il Re,» rispondeva il Caserta «ma siete veramente certo che non vi abbiano ingannato?»
«Ingannato! guardate se m’inganno io, leggete queste lettere, vedete la firma del Conte di Provenza, argomentate dalla risposta che cosa gli abbiano offerto i ribaldi.»
«Io fremo!» – gridavano a due voci Anselmo e Rinaldo.
«Ella è una indegnità: mi vogliono crudele, tentano ch’io contamini la mia fama di principe benigno, – l’otterranno; forse il sole di domani può incontrare co’ suoi primi raggi più di cento teste divise dal busto. Qui, dove li chiamo a consultare delle cose del Regno, qui mi tradiscono, infami!»
«Io vi ho sempre confortato al rigore. Messere il Re.» soggiungeva il Cerra «nè so perchè prevalesse il malvagio consiglio: i buoni non hanno bisogno di clemenza: pe’ tristi ci vuole giustizia, e inesorabile, e severa.»
«Che cosa ho io fatto ai Baroni, perchè non rifuggano all’idea del vituperio per distruggere il Re?…»
«Il figlio di Federigo!» – aggiunge il Caserta.
«Santo Germano glorioso!» esclama il Cerra «come preporre uno sconosciuto a tanto savio, a tanto virtuoso signore?»
«No. miei fedeli, io mi sento colpevole; ma se Manfredi ha peccato, non ha peccato contro di loro.» – E qui tace. Dopo lungo tempo: – «Forse sono giudicato,» mormora sommesso «forse questa è la prima ora di passione; facciamo tutto quello che ad uomo magnanimo conviene in tale estremo, poi lasciamo compire a Dio ciò che ha destinato. – Baroni, sedetevi.»
Seduti che furono, con ammirabile celerità dettava loro dispacci ai Luogotenenti, ai Governatori, e ad altri magistrati che lo rappresentavano nelle città del Regno; ordinava che quanto prima si muovessero co’ presidii, disegnava la via da tenere, le fermate da fare, ed accennava Capua, e San Germano, come i luoghi nei quali dovessero rannodarsi: scritti i dispacci, senza pur leggerli gli sottoscriveva, e gli suggellava; così se ne andava gran parte della notte. Terminata cotesta faccenda, spediva il Cerra, affinchè provvedesse che frettolosi Corrieri gli recassero al destino loro. Rimaneva col Caserta.
«Tu almeno non mi tradisci, o fedele;» favellava Manfredi ponendo la sua nella destra di lui «la nostra amicizia è bene antica: cominciava sotto gli auspicii di tale creatura, che adesso certamente la benedice dal Paradiso… Oh! io sono indiscreto a rinnovarti un dolore; il tempo non ha sanato la tua ferita? Pur troppo il tempo non ha potenza sopra affanni sì fatti! Tu va, provvedi col Conte Giordano alla sicurezza di questa città, e della mia famiglia; per la perfidia di pochi ribelli io non devo lasciare la difesa dei miei fedeli, nè posso; mi si attribuirebbe a codardia: se deve tramontare la stella di Svevia, tramonti co’ medesimi raggi con i quali comparve; – splende inclito il nome dei miei padri, nè noi lo contamineremo: facile è mostrarci grandi allorchè la fortuna esalta, difficile quando deprime. – Va, provvedi, tu hai senno da reggere il Regno; fa tutto quello che vuoi, pur che non vi sia sangue; poniamo i traditori in istato di non perdere i buoni; abbiano per pena l’onta di aver macchinato inutilmente un’opera di vergogna: molto mi prometto dalla vigilanza e dalla fedeltà tue.»
Accolse queste carezze il Caserta; – come un lione ammansato partiva per fare l’ufficio.
Il Conte della Cerra, spediti i Corrieri, tornava al palazzo; – per via andava pensando: – giudica, testa mia, se il destro di scoprirsi è arrivato; – avesse Gisfredo preoccupato il passo? – fingesse Manfredi con noi? Veramente Gisfredo non mi occorre più innanzi gli occhi, e Manfredi è capace di questo, e d’altro. Ma Gisfredo non può avergli detto il come, e il quando… no… io non glielo ho mai confidato, e buona previdenza fu questa; dunque potrebbe essere una mia confessione tuttavia necessaria, e premiata. Chi mi assicura che Manfredi mi darà guiderdone? Avessi guarentigia… allora… egli certo mi disprezzerà… che importa? non mi dispregio io stesso? Questo non monterebbe nulla, basta che fosse certa la mercede… facciamolo giurare su i Vangeli… ma se è eretico! – su l’onore di sua famiglia… ell’è tutt’una. Veramente posso affidarmi nel pensare che premierà il primo delatore, perchè gli altri non si perdano d’animo a svelargli le congiure che possono succedere; certo non sarebbe accortezza punire anzi che premiare a quest’ora, nè Manfredi è stolto; – di stargli al fianco non amo, nè egli amerà; – mi manderà governatore in qualche lontana provincia di Sicilia; tanto meglio per me, reggerò a mio modo, avrò il diritto della vita e della morte; oh! somma gioia firmare una sentenza di morte! Vedi come la speranza ruba la mano al senno! e se Carlo viene? il meno che me ne possa andare, rimanendo, è la testa; fuggendo, tapinerò pel mondo miserabile… atroce delitto è la miseria! in tutta la terra si trovano tribunali apposta per punirla; i miei feudi, il mio governo, non potrò già trasportarli meco: – patteggiamo a contanti, – torna meglio così; me ne andrò a Trapani, appresterò quivi una saettía; e se le cose rovinano per lo Svevo, fuggirò tra’ Saracini, e se bisogna, rinnegherò. La terra del mio nascimento? che nascimento? Dovunque la vite produce il liquore che rallegra il sangue, dovunque la bellezza concede le sue voluttà all’affetto coniato, dovunque s’incontrano anime da corrompere, virtù da schernire, vizii da esercitare, colà è la mia patria. Epilogando: – Rinaldo comincia a diventare pericoloso; egli ha mancato di fede, e prudenza vuole che io l’abbandoni. – Così meditando pervenne nell’anticamera del Re.