Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 6
Agitato da profonda passione, mosse contro cotesti uomini, che gli stavano davanti; e benchè tacesse, parve minacciarli, dove non lo avessero celermente condotto all’oggetto del suo desiderio. Quei due si levarono tosto, ed avendogli fatto cenno di rimanere un poco, s’incamminarono alla estremità della stanza opposta all’uscio pel quale era entrato Rogiero. Per via uno di loro parlava all’orecchio dell’altro: «Io da qui innanzi, Conte di Caserta, amo avere la vostra approvazione. Che parvi dunque del mio operato?»
«Guarda se la misericordia di Dio è grande… pure tu mi appari più scellerato assai che egli non sia misericordioso.»
«E sì che le mie parole suonarono religione, e virtù.»
«Tanto è vero, che non si dà momento in cui Satana si mostra così terribile, come quello in cui si veste da Santo.»
«Troppa grazia,» rispose sorridendo il Conte della Cerra; e cavata una chiave, schiuse una porticella assicurata da forti sbarre di ferro. Ciò fatto, vi sporse il capo e chiamò: «Gisfredo! Gisfredo!» – Dopo poco tempo comparve una testa, poi le spalle, e il petto di un uomo, come quando ascendiamo una scala. Il Conte della Cerra gli si fece all’orecchio; lo domandò di alcuna cosa, alla quale avendo egli risposto col cenno del capo affermativamente, si volse a Rogiero, e disse: «Potete avanzarvi.»
Accorse Rogiero, e senza esitare si cacciò giù per la scaletta strettissima. I due Conti gli tenevano dietro: Gisfredo lo precedeva facendogli lume con la lanterna che aveva recata. Egli poi, per quanto studio vi ponesse, non potè conoscere nè anche chi fosse questo Gisfredo, perchè il suo volto andava come quello degli altri ricoperto di drappo; ma dall’afferrarlo ch’ei fece alcuna volta all’improvviso, come fingendo di cadere, dal suo volgersi rattissimo e sospettoso, dallo smarrimento delle pupille, ch’egli osservò attraverso i fori del drappo, allorchè gli prese la mano, e quasi per caso gliela pose su la guardia del suo pugnale, si accôrse essere costui un uomo di frode, anzichè di aperta violenza.
CAPITOLO SESTO. LEGA LOMBARDA
… Una feroce
Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
Dritto. La man degli avi insanguinata
Seminò la ingiustizia: i padri l’hanno
Coltivata col sangue, e omai la terra
Altro frutto non dà.
Adelchi, tragedia.
L’ordine di questa nostra narrazione vuole, che per noi si esponga un prospetto dei casi della famiglia di Svevia, nei secoli decimosecondo e decimoterzo. La nostra mano si accosta tremando a vergare queste carte, imperciocchè i fatti dei feroci che vissero in cotesti tempi infelici appaiano scritti col sangue; nè occorra pagina di storia, che non gridi delitto. Chiunque ricusasse prestare fede a quanto andremo narrando, sappia che non seguirebbe sano consiglio, avendolo noi raccolto da antichi e da moderni Storiografi. Per questo sarà manifesto come l’uomo posto solo dal caso in quel consorzio, ai patti del quale non si trovò presente, nè avrebbe, trovandovisi, consentito giammai, qualora si avvisi scostarsene, rivendicando parte dei diritti pei quali fu conformato, si tiri addosso la guerra di tutti i suoi simili; i quali, non perchè la sua azione sia essenzialmente colpa, ma perchè apporta loro nocumento, lo condannano all’onta e alla morte, a nome di una legge che hanno costituita i più forti soltanto. Al punto stesso vedremo le nazioni di proporzionata forza, tra loro da nessuna altra legge costrette, tranne la giustizia di Dio, la quale o non temono, o irridono, muoversi intere l’una alla rovina dell’altra; la debole innocente additarsi ai posteri con nomi di scherno, le virtù sue convertirsi in argomento di vituperio, che la calunnia, compiacendo all’oro dei potenti, o per naturale propensione al male, vomiterà dalle sue mille bocche di rettile; l’avventurosa colpevole strascinare il mondo a fare omaggio al suo splendido delitto, e l’uomo, o nato o piuttosto educato per essere iniquo o stolto, nulla curando il sangue fraterno che gli bagna le piante, nulla le ossa insepolte, nulla il grido delle vittime che prorompe dai sepolcri invendicati, applaudirla nella ebbrezza del cuore con le stesse voci che innalza alla Divinità; onde la mente del lettore sarà percossa da quella sentenza, che sembra assurda, e suona pur troppo orribilmente vera: lo stesso delitto che manda l’uomo al patibolo, rendere illustri le nazioni nella memoria dei posteri. Vedremo nel girare dei tempi quanto si prolunghi perenne la sventura tra noi, e la gioia fugga veloce, e quindi ricaveremo un’altra dura sentenza: essere il male nostro proprio retaggio, e stoltamente affidarsi colui, che ogni speranza di contento ripone in altro luogo che in cielo. Si vedrà dal seno della tirannide nascere la licenza, e dal seno della licenza nascere la tirannide; e i popoli del continuo travagliarsi in traccia di una libertà, che conseguita non hanno saputo poi mantenere, come quella che richiede l’esercizio di tali virtù che essi non conobbero mai, o se pure praticarono una volta, sì il fecero non già per libera elezione, ma per paura d’imminente pericolo; onde trarremo motivo di tenere per vero il detto di quel filosofo: nessuno ente vivere al mondo più codardo di lui, che opera il bene per la sola paura del male. Finalmente vedremo lo schifoso spettacolo di una Nazione vinta, e pasciuta di obbrobrio, che solo si dimostra viva per le vili querele contro i suoi oppressori, e per le più vili invidie contro chiunque tra lei tenta con opera di mano, o di consiglio, sorgere dalla melma dell’anima sua; nazione nuda di virtù proprie, e di altrui, doviziosa dei vizii di tutta la terra; gonfia di orgoglio per una gloria antica che forma la satira più sanguinosa del vituperio moderno; superba di tali geste, che chi le imprese avrebbe voluto non farle, qualora avesse saputo che dovevano essere argomento di petulanza, anzichè di rampogna, a tanti miserabili, ridicoli, e scellerati nepoti: Popolo insomma già signore, – oggi locandiere di tutte le nazioni del mondo. – Oh! dall’alto delle rupi, inutile schermo ai fiacchi che non sanno contendere co’ petti, dal profondo dei mari che ti circondano, dalle foreste, dai campi… da tutto il creato, maladizione e sventura su te, vilissima schiatta, che non sai vivere nè ardisci morire! Possa consumarti il fuoco del cielo, e teco i padri, i figli, e i figli dei figli, poichè la goccia nera del cuore distilla di generazione in generazione, nè si diminuisce per tempo. La pianta della infamia si abbarbicò intorno l’albero della vita, e ne ha guaste le più profonde radici. Gli anni si portano la vita, che è il sepolcro dell’anima, e allora rimane dei trapassati la fama; – qual fama! Chi più vive è più scellerato o più vile, e le colpe che si portano alla fossa sono in proporzione degli anni che abbiamo vissuto. E Dio volesse, che per molti ogni anno della loro vita potesse essere contato da una bassezza soltanto!
Di qua dal Reno, tra la Franconia, la Baviera, e la valle dell’Eno giace un paese nominato Svevia. Corre fama che negli antichi tempi fosse Regno, nei successivi fu Ducato; finalmente nel secolo scorso perde anche questa prerogativa. La casa di Austria, e di Vittemberga, se ne divisero il suolo; nè ora incontriamo più principe in Germania che assuma il titolo di Duca di Svevia.
Nei secoli di cui abbiamo impreso a trattare durava una feroce guerra civile, cagionata dalle fazioni guelfa e ghibellina. Si riunivano i Guelfi sotto le bandiere dei Duchi di Baviera, stipite delle case di Hannover, di Brunswich, e di Modena: i Ghibellini si erano posti a capo i Duchi di Svevia, e così si chiamavano dal castello di Gibeling, che questi Duchi possedevano nella diocesi di Augusburgo.
Corrado III di Hohenstauffen, succeduto a Lotario III dopo gloriosissimo regno di quattordici anni, sentendosi nel 1152 sopraggiunto dal male di morte a Bamberga, chiamati a sè i principali Baroni dell’Impero, consigliava, lui morto, eleggessero Re il suo nepote Federigo; e diceva loro: – l’amore della patria doversi ad ogni affetto privato anteporre, principalmente da coloro che la Provvidenza chiama al reggimento dei popoli, e però egli, sebbene fornito di figli, amare meglio, che fossero con la pace dei fedeli Tedeschi privati baroni, che con la guerra regnanti: il suo nepote Federigo, come quello, che, pel matrimonio di Federigo il Guercio di Svevia con Giuditta figlia di Enrico di Baviera, riuniva il sangue delle due famiglie inimiche, affidargli di pace, non meno che di vigoroso governo, perocch’egli guerreggiando in Palestina lo aveva sempre veduto al suo fianco fare prove di prode e valente cavaliere. – Questa orazione di Corrado troviamo presso molti Storici celebrata come uno dei pochi fatti che onorano la nostra specie. Guardimi Dio da calunniare la memoria di tanto Imperatore; ma potè ben anche essere previdenza di uomo accorto, che volle fare sembiante di donare quello che non istava in sua potestà impedire: imperciocchè lo Impero fosse elettivo, nè il suo figliuolo presentasse quei vantaggi che sembravano derivare dalla elezione di Federigo.
Gli elettori dell’Impero convenuti a Francforte in generale assemblea, trovando i voti del defunto Corrado conformi ai desiderii loro, elessero Re dei Romani Federigo, dal bel colore d’oro dei suoi capelli denominato Barbarossa.
Quanto poi s’ingannassero intorno alla indole mite di Federigo, lo videro nel giorno della sua incoronazione a Ratisbona, dove supplicato a graziare certo Barone, superbamente rispose: «per rendere severa giustizia secondo le leggi, non già per perdonare i colpevoli, sono stato eletto sovrano.» Al punto stesso per non isfiduciare gli elettori, che tanta speranza di pace in lui avevano riposta, dichiarava volersi rimettere alla decisione della Dieta di Gostanza intorno la lite del Ducato di Baviera, attualmente pendente tra lui ed Enrico il Lione, Duca di Sassonia. La Dieta gli rese sentenza contraria, ed egli parve acquietarsi, finchè nei successivi tempi capitatogli il destro spogliò Enrico di ogni suo possesso, e dichiaratolo traditore, lo pose al bando dello Impero.
Nessuno Imperatore fu più vaso di guerra, più cupido, o più presuntuoso di lui. Egli voleva l’impero Romano qual era sotto Augusto restituire; egli l’Armenia, la Siria, l’Etiopia, l’Egitto, non che Italia, Francia, e Inghilterra sottomettere. Vero è però che tanto grandiosi concetti finirono in una lunga guerra, all’ultimo per lui sventurata, in Italia; ed in alcune scorrerie piuttosto da ladrone, che da Imperatore, in Armenia.
Mentre che Federigo dimorava a Gostanza, Albernardo Alamano, e maestro Omobuono, cittadini lodigiani, trovandosi colà, a caso od a consiglio, tolte in mano due croci, siccome correva costume dei supplicanti, si fecero a visitare Federigo, e pietosamente gli esposero i danni della patria loro, cagionati dalla orgogliosa Milano, la quale, per le concessioni degli Imperatori Ottoni reggendosi fino dal 960 a libero reggimento, era salita in tanta grandezza, che di ogni costituzione imperiale non curante o sprezzante, a null’altro intendeva che ad ingrandirsi, sottomettendo le prossimane città.
Queste cose, sebbene per nulla contribuissero sopra le determinazioni di Federigo, ormai disposto a calare in Italia dal punto del suo incoronamento, valsero nondimeno a sempre più concitarlo, vedendo di poter trarre profitto dalla divisione delle città italiche. Quindi è che, quasi per tentare gli animi, mandò Sicherio suo Segretario a Milano per intimare che i Lodigiani negli antichi diritti si ristorassero, e per raccogliere il Fodero, il Mansionatico, e la Parata, contribuzioni usuali pel passo degl’Imperatori: consistenti, la prima nelle derrate necessarie al suo mantenimento, e a quello del suo seguito: la seconda nella provvisione degli alberghi; nel riattamento di ponti e strade la terza.
Sicherio presentatosi al Consiglio di Milano espose la sua commissione, e mostrò le lettere. I Milanesi in risposta gliele strapparono di mano, e in sua presenza ingiuriosamente le calpestarono. Sicherio, fuggendo a precipizio, scampava mala pena la vita. I Lodigiani adesso, considerando lo aiuto lontano, e i Milanesi vicini, spedirono una chiave d’oro a Federigo, perchè si affrettasse. I Milanesi, parimente, conoscendo avere mal fatto, mandarono all’Imperatore una coppa d’oro piena di danaro, la quale non fu accettata.
Volgeva l’ottobre del 1154, allorchè Federigo con numeroso séguito di Baroni, tra i quali era notabile il suo stesso emulo Enrico il Lione, tutti vestiti di bellissime armature, e di magnifiche stoffe, mosse per la valle di Trento in Italia. Questa compagnia, poichè ebbe fatta alcuna dimora su le rive del lago di Garda, si condusse direttamente nei prati di Roncaglia, dove per antica consuetudine si tenevano le Diete nazionali. Qui Federigo ascoltava con piacere infinito le scambievoli accuse delle città italiche, in ispecie quelle contro Milano; imperciocchè partendosi di Germania non avesse ben risoluto se Milano, o Pavia, avrebbe distrutto: e solo in Roncaglia si decideva contro Milano, come quella che sembrava dovergli più lungamente resistere. Poneva fine al congresso, e comandava ai Consoli milanesi Oberto dell’Orto, e Gerardo Nigro, che lui e il suo esercito guidassero a Novara. I Consoli, da buoni cittadini, tenevano questi insolenti più che potevano lontani dalla patria loro, e per sentieri piuttosto malagevoli li conducevano, reputando nonostante questo accorgimento potere in ispazio convenevole di tempo il cammino per a Novara fornire. Attraversava la fortuna i generosi disegni: le piogge dirotte guastarono tanto le strade, che la vettovaglia cominciò a mancare. Federigo, che aveva dato quella incombenza ai Milanesi, onde far nascere un appicco per romperla, non è da dirsi se si mostrasse crucciato per questo accidente. Cacciava dal suo campo i Milanesi, le Campagne loro mandava a sacco, i ponti sul Ticino ardeva, Rosate, Trecate, Galliate, e Mummia, nobilissimi castelli, sovvertiva. Tentarono i Milanesi placarlo con preghiere, e con doni, ma furono sempre rigidamente ributtati; dalle quali cose inaspriti, attribuendo a colpa dei Consoli quello che si dipartiva da mal talento di Federigo, insorsero pieni d’ira contro di loro, e ad Oberto dell’Orto fino dalle fondamenta rovinarono la casa. La qual cosa dimostra come fare del bene ai tuoi simili, specialmente poi alle turbe mutabili e matte, il più delle volte venga considerato delitto, il quale non può andare immune di pene condegne.
Federigo, per adempire i desiderii di Guglielmo Marchese di Monferrato, muove contro Asti e Chieri. Trovatele vuote di abitatori, la prima abbatte, la seconda incendia; poi contro Tortona. Pretesto della guerra erano le ingiurie commesse dai Tortonesi a danno di Pavia; cagione vera l’essere collegati a Milano. Troppo lunga sarebbe la narrazione, quantunque piena di lagrime, della guerra di esterminio da loro preposta al mancare di fede verso Milano. Da levante, ponente, e tramontana, duramente assediati si difesero; alla vista dei proprii concittadini prigionieri, dal barbaro nemico impiccati, non piegarono; per sessantadue giorni dalle mura i nemici respinsero; le mine fatte alla Rôcca Rubea, per via di contrammine resero vane: finalmente consumati i cibi, – le acque, che andavano ad attingere fuori della città, con pece, zolfo, ed altre immondezze dall’assediatore guastate, si arresero. Prometteva Federigo lasciare la città intatta; avutala, comandava ai Pavesi la distruggessero. I cittadini sotto rigido cielo, in rigida stagione, andavano pietosamente tapinando. Il loro venerabile Abate di Bagnolo, mediatore del trattato, afflitto per tanto tradimento, si lasciava morire di affanno.
Federigo, ricevuta la corona reale a Pavia, s’indirizza a Roma. Adriano IV, in quel tempo surrogato ad Anastasio IV, cominciava il suo Pontificato con atto di rigore: trovando apertamente contraria ad ogni suo comando o consiglio la città di Roma per le prediche di Arnaldo da Brescia, la scomunicava. I Romani, per liberarsi dallo interdetto, pregarono Arnaldo volesse in qualche parte allontanarsi. Questi, cedendo ai tempi, si riparava in Otricoli, castello dei Conti di Campania. Adriano lo voleva morto, e di vero egli non era uomo da lasciarsi vivo: di anima ardente, di maschia eloquenza; nel sembiante, e più nei costumi, severo; innamorato dell’antica libertà, che i suoi contemporanei non sapevano nè volevano conoscere; dopo avere ascoltato a Parigi le lezioni del famoso Pietro Abelardo, si dette prima in Brescia, poi in Roma, a declamare contro i costumi dei chierici, in quei tempi infelici pur troppo, e con gemito degli stessi romani Pontefici, tralignati: predicava gli ecclesiastici non dovessero possedere beni terreni, non temporale dominio; non averlo ritenuto San Piero, e San Lino, anzi proibito espressamente Gesù Cristo; le citazioni di Tito Livio mesceva con quelle dell’Evangelo; Camillo e Scipione con San Pietro e San Paolo; sacro e profano, ogni cosa a rifascio. Di questo, poco, o nulla, si curavano i popoli; ma quando, rapito alla considerazione delle cose future, profetava Arnaldo risorgerebbe dalle rovine il Campidoglio; risorgerebbero il senno e il valore romano l’augusto Senato, terrore o riverenza delle nazioni, risorgerebbe. – si sollevavano a maraviglioso concitamento e già sembrava loro vedere innalzarsi pel cielo l’aquila temuta al vittorioso suo volo: di Papa, di Cardinali, di Chiesa, non si teneva più conto; Consoli, Tribuni, e Senato, occupavano le menti di tutti. A queste cose, di per sè sole sufficienti a condannare Arnaldo, si aggiunsero alcune massime, meno che rette, sul mistero della Trinità, forse attinte dal suo maestro Abelardo, che fu nel 1110 condannato nel Concilio di Soissons ad abbruciare di propria mano il libro da lui composto intorno questa divina materia. Il Concilio lateranense secondo, tenuto sotto Innocenzio II, lo dichiarava eretico, e come scomunicato lo condannava. Arnaldo ripara a Gostanza; perseguitato da San Bernardo fugge a Zurigo, dov’ebbe per alcun tempo stanza e vita sicure. – Ma per lo esilio di Arnaldo non cessavano le turbolenze romane. Innocenzio II, dopo essersi invano adoperato a quietarle, ne moriva di affanno. Lucio II, vestito degli abiti pontificali, mentre vuole salire al Campidoglio, côlto alla tempia da un sasso cade miseramente ammazzato. Eugenio III è costretto a fuggire, e lascia alla Provvidenza prendersi cura della Chiesa, poichè vede tornare invano ogni mezzo terreno. Nel Pontificato di Eugenio fu richiamato Arnaldo a Roma, dove stette fino al 1133 sempre vegliando alla grandezza di un popolo, che parve destinato dai cieli a non essere più grande. Adriano adesso lo chiedeva a Federigo: questi, che desiderava essere coronato dal Papa, arresta il Barone presso cui riparava Arnaldo, e lo costringe a consegnargli quel male arrivato. Cinto da numerosa milizia s’incamminava Arnaldo a Roma per ricevere, come malfattore, la pena sul luogo del delitto. S’innalza il rogo, si sottopone la fiamma… cresce… gli avvampa le vesti… gli abbrucia le piante… E dove è il popolo, che Arnaldo voleva far grande? – Il fuoco gli consuma il corpo: i suoi occhi, disperati di umano soccorso, si affissano ai firmamento: il firmamento non si muove: egli è fatto cadavere… polvere… E dove è il popolo, che Arnaldo voleva far grande? – Si raguna la cenere; si disperde al vento: il popolo accorre, urla, schiamazza, e vuole salvarlo. – Oh! come burlevole saresti, umana razza, se tu non facessi così sovente piangere!
Federigo, andando a Viterbo, incontra il Pontefice Adriano nei campi di Sutri. Era costume che i Regnanti Incontrando il Pontefice gli si prostrassero, gli baciassero il piede, gli tenessero la staffa, e la Ghinea per lo spazio di nove passi romani gli conducessero. Lo Svevo, sdegnando coteste cerimonie, si fa arditamente incontro ad Adriano, che lo respinge, e gli nega il bacio della pace. I Cardinali spaventati fuggono a Civita-Castellana: una aperta rottura sembrava imminente, allorchè Federigo, mosso dall’esempio di Lotario II, si dispone fare a Nepi quello che aveva ricusato a Sutri, e così pacificato col Papa s’incamminano insieme alla volta di Roma. È fama, che Federigo, nello eseguire queste cerimonie, sbagliasse staffa; la qual cosa essendogli fatta osservare da certo famigliare del Papa, rispondesse: ch’egli non aveva mai fatto lo staffiere, volendo con questo mordere la bassa nascita di Papa Adriano; come se non fosse maggior gloria di piccolo farsi potente; che nato grande mantenersi in grandezza.
Mentre così si avvicinavano a Roma, ecco occorrere a Federigo una magnifica ambasciata del Senato e del popolo romano, che ammessa alla sua presenza così cominciava: «Gran Re, noi, di straniero che eravate, vi abbiamo sollevato all’onore di essere cittadino, e Principe nostro;» e così continuavano, fino ad esporre per patti della sua incoronazione il pagamento di cinquemila libbre di oro, e la concessione al Senato di reggersi come meglio gli piacesse. Federigo, a mala pena contenendosi, tutto infiammato nel volto rispondeva: «Roma o omai gran tempo che è convertita in nudo nome; voi mentite, se osate affermare me essere vostro Principe per elezione della vostra volontà: Carlomagno e Ottone vi hanno vinto con le armi, ed io sono vostro Sovrano per legittima possessione… partite.»
Giunto innanzi Roma si attendò fuori delle mura: dipoi, per consiglio del Pontefice, mandati innanzi mille cavalieri ad occupare la città leonina, e il ponte sotto il castello di Sant’Angiolo, andò a San Pietro, dove dalle mani del Papa ricevè scettro, spada, e corona, applaudente lo esercito. Compiuta la cerimonia, tornava al campo. I Romani ragunatisi al Campidoglio risolvono non soffrire tanto manifesto disprezzo; assaltano la città leonina, e quanti Tedeschi vi trovano uccidono. S’ingaggia una molto terribile battaglia davanti Sant’Angiolo. I Romani combattono francamente fino a notte; allora con la perdita di mille duecento uomini sono respinti. I Tedeschi però, non estimandosi sicuri, si ritirano a Tivoli, dove Alessandro assolve i soldati, dichiarando: non essere delitto versare il sangue dei popoli per mantenere i Principi, ma vendetta dei diritti dell’Impero. E sempre così! Federigo lascia il Pontefice a Tivoli, e volte le armi contro Spoleti, divenutagli nemica per la prigionia di Guido Guerra, e pel rifiuto di certo Fodero, la vince, la saccheggia, e la incendia. Ormai in questa impresa le cose gli andavano a seconda, e di certo gli sarebbe venuto fatto di conquistare il Regno di Napoli. dove i suoi Baroni, obbligati a seguitarlo per due soli anni, volendo tornarsene a casa, non lo avessero costretto a congedarli in Ancona. Egli poi traversata Romagna con modesta compagnia, alquanto tempo dopo teneva lor dietro. Giunto a Verona, poichè questa città godeva il privilegio di non dare il passo alle milizie imperiali, gli apprestavano un ponte su l’Adige. Il ponte fu dai Veronesi costruito con questo intendimento, che quando gli Imperiali fossero in parte passati, col gettare zattere cariche di terra nella corrente superiore del fiume, si rompesse, e così divisi, potessero agevolmente trucidarli. Ma l’inganno tornò in capo agli ingannatori; perchè i Tedeschi, duramente incalzati dalla gente del contado, passando a precipizio scamparono; gl’inseguenti rimasero rotti, ed una parte di questi, senza poterli soccorrere. stette sopra una riva, dolente spettatrice dello scempio che si faceva su l’altra dei suoi infelici compagni.
Questa è la prima spedizione di Federigo in Italia. narrata diligentemente da Ottone Frisingen, figlio di Leopoldo di Austria. Ben altre sei, sebbene con maggiore brevità, ne verremo esponendo, tutte piene di casi scellerati. Ora l’ordine della narrazione ci porta a contare le vicende del Reame di Napoli.
I Normanni, divenuti cristiani, dopo il conquisto della Neustria grandemente si dilettarono di sante pellegrinazioni; e visitata da prima Gerusalemme, passavano in Puglia, dove adorati i santuarii del monte Gargano e del monte Cassino, se ne tornavano in patria. Nel 1016 cento di questi Normanni trapassando per Salerno, allora governato dal Duca Guaimaro III, videro con maraviglia una masnada di Saracini sbarcare di nave, mettere a contribuzione la città, e aspettando il tributo darsi a banchettare trascuratamente sul lido: molto e più stupirono poi, allorchè i Salernitani, invece di apparecchiarsi a combattere, prepararono le cose richieste: onde sentendosi punti di vergogna per loro, sortirono dalla città, si gittarono addosso ai Saracini, e, molti uccidendone, costrinsero i rimanenti alla fuga. Pensisi quali accoglienze facesse loro Guaimaro. Voleva ad ogni costo ritenerli, ma rifiutarono; promettevano che gli avrebbero mandato alcuni compagni, e riccamente regalati si congedavano. Giunti in patria, la bellezza di questo nostro suolo esaltando, gli ori e le sete ricevute in dono mostrando, e sopra ogni altra cosa facendo gustare le frutta, che seco avevano recato, invogliarono gran parte dei concittadini loro a passare in Puglia. Di qui la conquista normanna del Regno di Napoli: vennevi primo Drengotto con poca fortuna: vennevi con migliore nel 1035 Tancredi di Altavilla coi suoi dodici figliuoli. Ponendosi ora sotto il comando di un Duca, ora sotto quello di un altro, vendendo il proprio braccio, per lo indebolimento di tutti giunsero a tale grado di potenza, che Papa Lione IX, timoroso pei suoi Stati Romani, predicò la Crociata contro di loro. Il Pontefice, quantunque sovvenuto da Tedeschi, Greci, Campani e Pugliesi, disfatto alla battaglia di Civitella, combattuta il 18 giugno 1053, cadde nelle mani di Unfrido braccio di ferro, Conte di Puglia, primogenito di Tancredi di Altavilla. Le molte cortesie adoperate dal Conte Unfrido al Pontefice, di nemico ch’egli era, glielo resero tanto benevolo e amico, che potè indurlo a investirlo, a nome di San Pietro, delle presenti e delle future conquiste, promettendogli in cambio un censo annuale di ottomila once d’oro. Morto Unfrido, succedeva Roberto il Guiscardo. Le conquiste di questo eroe furono tante, e tanto maravigliose, che gli antichi cronisti vollero, piuttosto che al suo valore, attribuirle a miracolo. La morte lo colse a Cefalonia nel luglio del 1085, allorchè si apprestava ad occupare la Grecia. Lasciò due figli, Rogiero Gran Conte di Puglia, o Boemondo: questi contesero del Principato, finchè la guerra delle Crociate aprendo vastissimo campo all’ambizione di Boemondo, passò in Soria, dove sottomise e tenne Antiochia. Rogiero, rimasto tranquillo possessore del retaggio paterno, muore a Melito nel luglio del 1101: gli succede Guglielmo, che, defunto anch’egli a Salerno nel 1127 senza prole, lascia tutti i suoi Stati a Rogiero II, suo cugino, figlio di Rogiero I, il quale, vivendo il Guiscardo, aveva conquistato Sicilia. Questo Rogiero II fu di mano, e più di consiglio, valoroso; per concessione dell’antipapa Anacleto II assunse corona reale; perdè, e ricuperò il Regno di qua dal Faro sotto Lotario II; fece prigioniero Papa Innocenzio II, e lo costrinse a confermargli la investitura del Regno di Sicilia; finalmente, dopo lunga e gloriosa vita, morì a Palermo nel febbraio del 1153. lasciando Guglielmo I detto il Malvagio regnante ai tempi del Barbarossa.
Fu il Regno di Guglielmo, non tanto per le forze degli esterni nemici, quanto por le interne rivoluzioni, tutto sconvolto. Maione, uomo oscuro di Bari, salì a tanta altezza di potere su l’animo del Re, che nessuna cosa, per quanto grande ella fosse, da altri fuorchè da lui si amministrava. La petulanza di questo Ministro si manifesta dalla domanda ch’ei fece ai Frati di Monte Cassino, affinchè registrassero sopra il loro libro dei Defunti (dove solamente si segnavano Papi, Imperatori, Re ec.) la morte dei suoi genitori: e i Monaci, però che l’adulazione sia stato male di tutti i tempi e di tutti, scrivevano sul libro: – Curazza mater Madii Magni Admirati Admiratorum obiit VII. K. Augus. Et Leo pater Admirati Admiratorum obiit VI. I. Sept. – Ora non rimanendogli più nulla da desiderare, come Ministro, e Grande Ammiraglio degli Ammiragli, sollevò la mente a più alti disegni. Tentò e vinse l’onestà della Regina. I primi gradi della milizia al suo fratello, e al suo figlio, concesse. Simone suo nepote creò Gran Siniscalco; mediante il matrimonio di sua figlia sperò farsi partigiano Mario Bonello cavaliere di moltissimo seguito nel Regno. Istruì eziandio pratiche con Alessandro, perchè ad esempio di Papa Zaccheria, che rimosse Childerico dal trono di Francia, deponesse Guglielmo, e lui in sua vece costituisse. Alessandro, conoscendo la malvagità di Maione, ributtò il trattato. Non per questo si rimase l’Ammiraglio, che anzi, considerando come fossero di grave impedimento ai suoi disegni Roberto Conte di Loritello, Simone Conte di Policastro, e Roberto Principe di Capua, signori riputatissimi, e parenti del Re, si accostò ad Ugone Arcivescovo di Palermo, uomo anche egli avido di dominio, e abbindolatolo con infinite promesse, gli scoperse i suoi segreti pensieri, e lo indusse a giurare, che in ogni fortuna, per quanto fosse stato in lui, lo avrebbe sostenuto. Intanto il Re Guglielmo stavasi chiuso nel suo palazzo di Palermo, sospettoso della lega che correva voce avessero stretto a suo danno gl’Imperatori Federigo Barbarossa, ed Emanuelle Comneno: dubitava della fede dei suoi Baroni; dubitava dei parenti, di sè medesimo dubitava. Maione conobbe essere giunto il tempo di rovinare gli odiati nemici, che con altrettanto odio lo ricambiavano. Cominciò da Roberto di Capila, che in quel torno dimorava a Sorrento; da prima lo mostra quale uomo pericoloso alla pace del Regno; vedendo che le parole trovavano tenero nell’animo di Guglielmo, lo accusa di ambiziose macchinazioni, finalmente di segrete intelligenze col nemico. Si spediscono genti ad arrestarlo. Roberto, avvertito in buon punto, si parte di Puglia, e con molti seguaci ripara negli Abruzzi. Rimanevano i Conti Simone e Roberto. Maione fece insorgere una rissa tra le milizie comandate dal Cancelliere Asclettino, e quelle del Conte Simone; descrisse quel tumulto come gli parve; aggiunse essere il Conte cagione di cotesti disturbi, congiurare insieme col Conte Roberto in pro del Principe di Capua; suppose lettere e messi, per modo che il Re, fatto arrestare Simone, senza pure ascoltarlo, lo condannava a perpetua prigionia.