Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 7
Gravissima fu la indignazione dei popoli per così grave attentato; oggimai non potendo più sopportare la tirannide di Maione e di Guglielmo, proruppero in manifesta rivolta. Si videro a un punto la Calabria, la Puglia e la Terra di Lavoro, ardere di crudelissima guerra. Il Conte Roberto vinse Taranto; sovvenuto da Emanuele Comneno superò Bari, poi Brindisi; – tutta la Puglia sossopra. Nè meglio andavano le cose in Terra di Lavoro, chè quivi infuriava il Principe di Capua. Nel Picentino, meno Amalfi, Napoli e Palermo, ogni altra città venuta in mano di Riccardo dell’Aquila Conte di Fondi. Il Conte di Rupe Canina aveva sottomesso tutto il contado di Alife.
Guglielmo, logorando neghittosamente la vita nel suo palazzo, tutte queste cose ignorava, chè con molta avvedutezza gliele nascondeva Maione. Si manifesta finalmente la rivolta in Palermo: allora Guglielmo, conosciuto il pericolo, si mostrò al popolo, ed acquietò il tumulto: Butera occupata dai ribelli ricupera, Simone sprigiona, appresta milizie, e valica il Faro. Maione fu ad un punto maravigliato e atterrito da così repentino mutamento; e da che non gli fu possibile sopire quel subito ardore, stimò meglio seguirlo. Guglielmo continuando il suo cammino campeggia, ed espugna Brindisi, fuga il Principe di Capua, distrugge Bari, prende Taranto, e duramente assediando Benevento, costringe Papa Adriano IV, principale fautore di quelle sommosse, a concedere vantaggiosissime condizioni di pace. I Baroni ribelli, disperati di potere resistere, cercano salute. I Conti Roberto, di Rupe Canina, ed altri, riparano in Lombardia. Roberto Principe di Capua, mentre vuol passare il Garigliano, tradito dal Conte Riccardo dell’Aquila, che col secondo tradimento fugge la pena del primo, e consegue la infamia di ambedue, è condotto a Palermo, dove crudelmente abbacinato perde la vita.
Ma il terrore, dove non sia da milizie permanenti conservato, non vale nè anche per poco a frenare i popoli ribellanti. Tornato appena Guglielmo agli ozii del suo castello di Palermo, la Puglia imprende a tumultuare di nuovo. Maione stimò bene spedire Mario Bonello a comporre que’ moti. Questi, parte per l’odio segreto che portava all’Ammiraglio, il quale, volendolo ad ogni costo per genero, gli attraversava le nozze con Clemenza Contessa di Catanzaro, da lui ardentemente amata; parte pei discorsi di Rogiero da Martorano cavaliere di molta reputazione, congiurò co’ suoi nemici, ed anzi promise loro di ucciderlo. Intanto Maione, stimando giunto il tempo di mandare ad esecuzione le cose concepite, si consigliava con l’Arcivescovo; si accordarono su la morte del Re, su la tutela dei figli dissentirono. La pretendeva l’Ammiraglio: Ugone, conoscendo la sua perfidia, non voleva concederla: cominciarono scambievolmente a dolersi; poi vennero ad acerbe parole, alla fine partirono nemici. L’Arcivescovo è avvelenato. Tornava il Bonello, e assicurava Maione essere le cose di Puglia affatto quietate: saputa la contesa dell’Arcivescovo con l’Ammiraglio, si fa a trovare l’Arcivescovo giacente in letto, dal quale intesa la trama di Maione, sempre più si conferma nel proponimento di ucciderlo. Ora l’Ammiraglio, vedendo che il tossico amministrato ad Ugone non faceva gran frutto, timoroso dell’esito, presone seco uno più violento, andò con lieta faccia a trovarlo: gli favella dolcemente, protesta volergli ritornare amico, scapitare ambedue in quella contesa; pensasse a sanare; a lui più che ad altri stare a cuore la sua salute; avergli perciò recato un suo medicamento, che per certo lo avrebbe tornato da morte a vita. L’Arcivescovo, conosciuta la perfidia, si scusò con arte, e chiamato il Vescovo di Messina, mandò ad avvisare il Bonello come l’Ammiraglio si trovasse in casa sua. Maione, ricambiate molte parole di amore con Ugone, partiva; la notte era oscura, nè alcuno del séguito dell’Ammiraglio temeva insidie; giunto che fu alla chiesa di Sant’Agata, il Bonello, fattoglisi addosso, gridava: «Sei morto, traditore e adultero del mio Re.» Parava l’assalito il primo colpo; ma dal secondo mortalmente trafitto cadeva. Mentre però l’Ammiraglio di morte sanguinosa sopra la pubblica strada finiva la vita, quasi fosse consiglio della Provvidenza, l’Arcivescovo, da fiere convulsioni travagliato, in mezzo ad atroci dolori di viscere spirava l’anima.
Il Bonello fugge da Palermo. Il Re, udito il caso, sentì gravissimo sdegno per la morte del suo favorito; molto maggiore la Regina. Alla fine Guglielmo, conosciuta la perfidia di Maione, tra i tesori del quale fu trovata una corona reale, chiama in Corte il Bonello, e lo ritorna in grazia. Ma l’odio della Regina vegliava contro di lui, e ad un Re sospettoso riesce facile cosa persuadere ch’è traditore un potente ed ardito Cortigiano. Il Bonello, accortosi del temporale, macchina nuova congiura, e vi trae il Conte Simone, e Tancredi di Lecce, parenti del Re, tenuti per suo comando a guisa di prigionieri con molti altri principali Baroni dell’Isola. Ciò fatto, accorre a Mistretto suo castello, per provvederlo di arme e di vittovaglie, onde in caso di fortuna contraria gli fosse aperta una via di salute. Mentre che qui dimorava, un discorso imprudente, da certo soldato, partecipe del negozio, tenuto al suo compagno, costrinse i congiurati a precipitare gl’indugi. Il Gavarretto custode del Conte Simone e di Tancredi, secondo il convenuto, li toglie di prigione, e questi seguiti da molti s’incamminano alle stanze del Re. Sedeva tranquillamente Guglielmo ragionando con Enrico Aristippo: alla vista di Simone e di Tancredi, sdegnato perchè senza suo ordine gli comparissero innanzi, prese a minacciare, poi a fuggire; ma presto raggiunto con le spade nude dal Conte di Lesina e da Roberto Bovense, uomini feroci, questi dissero di levargli la vita, e lo facevano; ma Riccardo Mandra gli rattenne, e provvide alla salvezza del Re trasportandolo prontamente in prigione. Allora, secondo l’ordine della congiura, cavato fuori del palazzo Rogiero, primogenito di Guglielmo, lo fecero cavalcare per la città, e lo salutarono Re. In questa Gualtieri Arcidiacono di Ceffalù andava esponendo i delitti di Guglielmo, e confortava con la speranza delle virtù di Rogiero: il popolo applaudiva! Ma il Bonello non si vedeva. Senza un conveniente sussidio di armati non si ricava frutto dalle congiure: partiva Tancredi ad affrettarlo. Ormai erano trapassati tre giorni, nè il Bonello nè Tancredi comparivano. Romualdo Arcivescovo di Salerno, Roberto Arcivescovo di Messina, l’eletto di Siracusa, e il Vescovo di Mezzara, sia perchè in questa mutazione avessero perduto, sia che in una nuova sperassero acquistare, si dettero a persuadere ai Palermitani sprigionassero il Re: lo sprigionarono. I congiurati, dalla velocità dei moti smarriti e confusi, abbandonano Palermo. Guglielmo, trascorrendo armato le vie della città, vide farglisi incontro Rogiero, amabile ed avvenente giovanetto, sua gioia nel tempo passato, ora tutto giubbilante per la ricuperata libertà del padre; preso da profondo dispetto non ravvisa in lui il figlio, ma il nemico che volle strappargli la corona e la vita: lo percote nel petto: il giovane spira l’anima senza mandare un gemito: il popolo applaudiva! Guglielmo, avvedutosi del misfatto, deposta la veste reale, mettendo dolorosi guai, come se avesse perduto l’intelletto, schiuse le porte del palazzo, chiunque passava traeva dentro, e amaramente piangendo gli raccontava la sua disavventura. Tra tanto dolore domestico fu posta in oblio ogni pubblica vicenda. Il Bonello, un’altra volta perdonato, congiurava un’altra volta. Richiesto dal Re di una spiegazione intorno alla sua condotta, rispondeva superbo. Il Re si armava; vinti i ribelli, parte uccideva, parte bandiva: il Bonello rinchiuso in oscurissima prigione, poichè ebbe gli occhi abbacinati e i nervi sopra i talloni recisi, piangendo il duro destino, di vilissima morte terminava la vita. I rimanenti giorni del Re Guglielmo furono uno alternare di ribellioni, di ferro e di veleno. Le dure estorsioni, con le quali angustiava i sudditi, appaiono più spaventose che credibili. La sua crudeltà fu tale, che non si sbramasse neppure sopra i nemici fatti cadaveri; a brani a brani, su per la pubblica piazza, a vista di popolo, gli facea mettere dai morsi di affamati mastini: e il popolo applaudiva! – Nel 1166 la morte pose fine alla sua esistenza, che, e per lui, e per gli altri, era stata flagello.
Molti dei fatti siciliani fin qui raccontati succedevano contemporanei a quelli di Lombardia che ora siamo per raccontare; ma a noi piacque separarneli, sì perchè possono stare divisi, sì perchè ordinati disgiuntamente fra loro rappresentano un quadro molto meglio importante. Torniamo adesso a parlare di Federigo. Andava questi forte cruccioso contro Papa Adriano per la pace conclusa con Guglielmo I; era il Papa adirato contro Federigo per l’arresto dell’Arcivescovo di London. Questi semi di mala intelligenza proruppero in manifesta discordia, allorchè Adriano mandategli sue lettere, dopo averlo gravemente ammonito, scriveva: «rammentasse bene, ch’egli teneva lo impero come beneficio della Chiesa;» la qual parola significava feudo. A questo motivo, sebbene di per sè stesso sufficiente, si aggiunse la notizia che Adriano aveva fatto dipingere sopra le pareti del palazzo di Laterano Lotario II genuflesso innanzi Alessandro II, tenendo le mani sopra quelle del Pontefice con sotto l’iscrizione:
/# «Rex venit ante fores – jurans prius urbis honores, Post homo fit Papæ – sumit quo dante coronam:» #/
la qual cosa stava a dimostrare vassallaggio. Federigo, insofferente di tante ingiurie, cala pel Friuli un’altra volta in Italia, passa su quel di Brescia, dove pubblica una disciplina per l’esercito, e cita i Milanesi. Comparsi, gl’interroga, perchè abbiano riposta Tortona, sottomessa Lomellina, i ponti su l’Adda e sul Ticino rifabbricati. I Milanesi, non potendo con le armi, si difendevano con le parole; non si ascoltavano, e si ponevano al bando dell’Impero. Federigo avanzandosi è respinto al ponte di Cassano. Ladislao Re di Boemia valica l’Adda a Cornaliano; i Milanesi ritirandosi abbandonano il ponte; i Tedeschi incalzando superano i castelli di Trezzo e Melagnano, e pervengono sul contado di Lodi. Qui fu che Eberto da Butena, stimando con un súbito assalto superare Milano, partiva con mille cavalieri alla volta di questa città. – Non uno di loro sopravvisse a recare la novella della strage degli altri. Federigo muove con tutto l’esercito contro Milano; considerando difficile l’assedio, stabilisce il blocco. Divide in sette corpi l’esercito, e li pone a guardia delle sette porte della città. I Milanesi sortono e rompono il corpo di Corrado Conte Palatino; ma sovvenuto a tempo da Ladislao di Boemia gli ributta con perdita. Invano con eroico valore quaranta Milanesi contro esercito di centomila uomini difesero un arco antico posto in mezzo del campo; invano tentarono i cittadini nuove sortite e alcune ne trassero ad avventuroso fine. Milano è costretto a piegare. Guido Conte di Biandrate, mediatore per la pace, conclude il 7 settembre 1158 un trattato nel quale si conveniva, che i Milanesi cedessero le Regalie; novemila marchi di argento, e trecento ostaggi consegnassero: Federigo all’incontro la facoltà di governarsi a modo loro concedeva, del solo giuramento di fedeltà si contentava. Ciò fatto, fu nuovamente convocata per San Martino la Dieta a Roncaglia. V’intervenivano Bulgaro e Martino scolari d’Irnerio, reputatissimi giureconsulti invitati da Federigo. Disputarono se l’Imperatore fosse padrone del mondo. Negò Bulgaro, affermò Martino. Si racconta che l’orazione di Martino piacesse tanto a Federigo, che sceso da cavallo glielo offrisse in dono, per lo che Bulgaro con un bisticcio latino dicesse – Amisi equum, propter æquum (perdei il cavallo per difendere il giusto). Bartolo, quell’aquila dei giureconsulti antichi e moderni, giunse nei tempi posteriori a qualificare eretico chiunque si fosse avvisato sostenere diversa sentenza. La qual cosa sta a dimostrare, nel dizionario dei legisti eresia suonare generosità: tanto è vero che ogni arte ha i suoi termini proprii, o come oggi diciamo tecnici! Conseguenza di questa Dieta fu, che Federigo rivendicasse le Regalie, e si attribuisse il diritto di mandare Vicarii nelle città lombarde per governarle a piacer suo. Malgrado i patti poco tempo innanzi conclusi con Milano, non volle eccettuarla dalla decisione della Dieta; mandava un Vicario a reggerla; questi tutto rotto di battiture gli tornava in breve, cacciato a vituperio dalla città. Federigo, convocata una Dieta ad Antimaco, mette i Milanesi al bando dell’Impero. I Milanesi si uniscono ai Cremaschi, ed apparecchiano le difese. L’Imperatore assedia Crema. Diremo noi la nefanda strage commessa da Federigo di quanti prigioni gli venivano in mano? Diremo come facesse appendere vivi moltissimi ostaggi cremaschi intorno ad una torre per muoverla sicura contro la città, e come i padri di cotesti infelici, fermi di salvare la patria, urlando disperatamente, lanciassero sassi ed armi, per respingerla con la morte della propria prole? La torre fu bene costretta a indietreggiare, ma lurida di sparse cervella e di sangue, – ma maladetta per generosi parricidii… Diremo come tanti sforzi tornassero vani, e come la città fosse tradita, arsa, distrutta? No, esponiamo, se non più glorioso, meno lagrimevole fatto alle armi italiane. Correva il 9 agosto 1160, allorchè Federigo sapendo che i Milanesi si erano messi in campagna, accorse a guerreggiarli con Novaresi, Pavesi, Comaschi ed altri infiniti. La fortuna gli fu di tanto cortese che gli venne fatto di circondarli: ormai pareva non potessero sfuggire l’universale esterminio. I Milanesi, nulla per questo caso sbigottiti, divise in due le milizie, attendono battaglia. Federigo comincia un furiosissimo assalto; le masnade romana e orientale, duramente percosse, piegano e fuggono; egli le incalza, giunge al Carroccio, ne uccide di propria mano i bovi, e rapisce il gonfalone. Intanto per altra parte la seconda ala milanese, vinti i nemici, tornavasi al campo. Udita la nuova del Carroccio, tutta baldanzosa per la fresca vittoria, si precipita sul vincente Federigo; questi lunga pezza tien fermo; alfine, sopraffatto da irresistibile impeto, si volge in vergognosa fuga, lasciando arme e prigioni.
Se un pari numero di soldati avesse per ambedue le parti combattuto anche in séguito, e solo fosse stata contesa di valore, la prodezza italiana avrebbe certamente prevalso; ma nel successivo anno, centomila Tedeschi scesi dall’Alpi in soccorso dello Imperatore, lo riposero in grado di scorrere il Milanese. Orribile fu il guasto che cagionava; a quanti poteva far prigionieri le mani recideva; finalmente dopo infinite crudeltà tornava ad assediare Milano. Di lì a poco le provvisioni, sia che non se ne potessero, o non se ne volessero raccogliere, mancarono in questa città. Chiesero i Milanesi di venire ai patti; rispondeva Federigo, non volerli ricevere che a discrezione. I nobili si disponevano piuttosto a morire; la plebe si ammotinò, e li costrinse a cedere. Qui comincia la pietosa rovina di Milano, di cui la descrizione volentieri esporremmo, se molte gravissime cose non ci rimanessero a raccontare. Fu il diroccamento di Milano operato da mani italiane; nè più crudelmente avrebbero fatto gli stessi nemici. Questa era la carità della patria nei nostri padri! Nè ciò dico per dimostrare che noi siamo migliori: ma essi non furono meno scellerati di noi: – iniqui tutti! Ormai il governo di Federigo era divenuto increscioso alla più parte delle città lombarde; nessuna poteva sperare di resistere sola: unite, sarebbe stata cosa da tentarsi, e la tentarono. Prima Verona ne fece proposta: Padova. Vicenza, Treviso, acconsentirono seconde; poco dopo Venezia. Federigo, ch’era tornato in Lamagna a cagione di una sommossa, scende nuovamente in Italia, ma adesso per Valle Camonica onde evitare i Veronesi. Seguiva un congresso nel Monastero di Santo Jacopo in Pontida, tra Milano e Bergamo, dove gli abitanti della Marca di Verona convengono con Mantovani, Cremonesi, Bresciani, Bergamaschi, Ferraresi, e Milanesi, e giurano di non posare le armi finchè non abbiano i perduti diritti ricuperato. Federigo evitando questa improvvisa tempesta va a Roma, in parte la incendia, poi muove per Napoli. La peste gli distrugge l’esercito; a guisa di fuggiasco passa per Lucca, e s’incammina a Pontremoli, di cui gli abitatori gli si oppongono, e minacciano arrestarlo: sovvenuto dal Marchese Malaspina giunge a salvarsi in Lamagna. La Lega, divenuta di giorno in giorno più formidabile, fabbrica tra il contado di Pavia e quello del Conte di Monforte, nel confluente del Tanaro e della Bormida, sopra un terreno limaccioso e arrendevole, una città che in onore di Alessandro Pontefice chiamano Alessandria. Federigo oltremodo sdegnoso per questi avvenimenti, non potendo venire in persona, mandò per reprimere la ribellione il suo Vicario Cristiano Arcivescovo di Magonza: questi dopo alcuni fatti, che si vorrebbero raccontare se mostrassero almeno quella specie di coraggio che mostra il ladrone su la pubblica via, stringeva d’assedio Ancona. I Veneziani, separatisi dalla Lega Lombarda, si uniscono a Cristiano, e l’assaltano dal lato del mare. Gli Anconitani adesso si chiariscono veri eredi delle glorie passate, e degni figli di sangue latino: assaliti, tennero fermo; assalitori, respinsero. In una sortita ruppero il nemico con sì fatto impeto, che, fuggendo alla dirotta, lasciò in potere loro una torre: era questa macchina, quantunque di legno, fortissima, e tutta piena di armati, che facevano sembianza di volerla difendere fino all’ultimo sangue. Ognuno dubitava; quel pericolo certo atterriva tutti; la più parte diceva lasciarla stare. Stumara, valorosa gentildonna, vergognando della viltà loro, senza mettere tempo tramezzo, preso un tizzone, si scaglia a tutta corsa verso la torre: vi giunge, vi appicca il fuoco, nè prima si diparte, che, suscitato un altissimo incendio, conosce, di lì a poco sarà ridotta in cenere. Tanto valore fu per essere indarno, a cagione del difetto di vettovaglie: mancate le cose convenienti a cibarsi, mangiarono cuoio, schifosi animali, e sozzure: finalmente finirono anche queste. I buoni, che sono sempre i pochi, dimessa la faccia aspettano l’ultimo momento; i tristi, tenaci della vita quanto più meritano la morte, si sollevano, schiamazzano, e testa a cui si oppone: di súbito sorge un vecchio cieco, che, ringraziando il cielo per averlo privato della luce, onde non vedere questo giorno di avvilimento, e d’infamia, rimprovera chi parla di resa, li dispera del perdono nemico, dimostra loro potersi salvare la città; resistessero: a questo non avergli riserbati il Signore, conforto dei miseri, riparatore della sciagura; in lui confidassero, in lui che infrange i denti al lione, e toglie il veleno al serpente. La plebe taceva; i più prudenti prevalendosi del tempo ragunano quanto più possono danaro, ne caricano una barca, che, guidata da gente esperta ed ardita, passa a salvamento per le galere veneziane, giunge a Guglielmo Marchesella, capo dei Guelfi di Ferrara, e lo sollecita di affrettarsi al soccorso. Intanto la fame diventava incomportabile in Ancona. Usciva una nobile donna dalla casa di certa vicina, dove l’aveva condotta il bisogno a ricercare un po’ di pane per sostentarsi, e nudrire col latte un bambinello che si recava in braccio, – e non lo aveva trovato; – egli era rigoglioso e bello; stava assopito col capo mollemente appoggiato alla spalla della madre, che con pietà lo sogguardava. Si sveglierà quell’innocente, nè troverà nel suo seno alimento che valga a nudrirlo! – I passi della madre sono tardi e mal sicuri; all’improvviso inciampa in qualche cosa, che le si pone tra i piedi:… era un soldato che giaceva sfinito dalla fame; ella lo scuote, e gli dice: «Da molti giorni io mangio cuoio bollito, e il latte è presso a mancare al mio fantolino; àlzati nonpertanto, e se nelle mie poppe trovi di che sollevarti, confortati per la difesa della patria.» Innalza i pesanti occhi il soldato. vede la gentildonna, la vergogna gli riconduce il vermiglio sul volto, e sostiene quel corpo estenuato; sorge, si lancia contro i nemici, alquanti ne uccide, e cade trafitto sul campo.
Guglielmo Marchesella, co’ danari di Ancona ragunate genti e vettovaglie, arriva a Falcognara, quattro miglia distante dalla città assediata. Si ferma, e sopraggiunta la notte, ordina ai soldati sospendano uno o più lumi alle lance, e si fa oltre gridando; gli Anconitani rispondono: Cristiano atterrito fugge su le montagne picene, poi pel Ducato di Spoleti. I Veneziani a lor posta si ritirano. Ancona è liberata.
Federigo nell’ottobre del 1174, abbandonata Lamagna, per la parte del monte Cenisio raggiunge il suo Vicario Cristiano; in passando arde Susa, occupa Asti, e viene ad assediare Alessandria. La difesa di questa città meriterebbe descrizione ben lunga: e’ fu un fatto di arme da celebrarsi quanto qualunque altro antico, o moderno; perchè, a dire vero, sebbene gl’Italiani di que’ tempi apparissero scellerati, pure era loro più facile mostrarsi magnanimi, che a quei di oggi mostrarsi non vili. Alessandria, difesa da un argine di terra male assodata, ributtando l’Imperatore, chiarì nuovamente che il petto di cittadini disposti a morire sia il miglior baluardo per la tutela di un popolo. Federigo ricorse al tradimento, ma non ne ricavò altro che infamia. Sempre ributtato, scioglie dopo quattro mesi l’assedio, e si ritira a Pavia. Nel nuovo anno 1176 Wiemanno Arcivescovo di Maddeburgo, Filippo Arcivescovo di Colonia, e molti altri prelati vengono con numerosissimi eserciti pei Grigioni e per Chiavenna in soccorso dell’Imperatore. Nel 29 maggio si combatte la battaglia di Legnano. Questa terra, posta tra l’Olona e il Ticino, lungo la via che mena al Lago Maggiore, occuparono i Milanesi, come quella che offre ottime situazioni per la difesa, e per offendere ha non lontane vastissime pianure dove si possono spiegare numerose milizie. Federigo si attendò a Cariate, piccolo borgo, lontano circa mezzo miglio da Fagnano, nel quale sorgeva un antico monastero, fabbricato dalla Regina Teodolinda di santa memoria. Combattevano co’ Milanesi. Bresciani, Piacentini, Novaresi, Lodigiani e Vercellesi: coi Tedeschi i Comaschi, i Pavesi e il Marchese di Monferrato. Sul far del giorno settecento cavalieri lombardi mossero contro Federigo: questi manda a incontrarli cinquecento dei suoi; si comincia la battaglia: combattevasi francamente per ambedue le parti, chè i Tedeschi erano in quel tempo i migliori cavalieri del mondo, e gl’Italiani pieni di ardire per la causa difesa. Nondimeno i Tedeschi, per nuovi rinforzi, sempre crescenti, rompono gl’Italiani, e gli mettono in fuga. Ora i vittoriosi, invece di starsi rannodati ad aspettare le rimanenti forze nemiche, si danno ad inseguire i vinti, ed incontrate per via alcune schiere bresciane, quelle parimente percuotono e disperdono. L’Imperatore sebbene biasimasse cotesto intempestivo inseguire, volendosi nondimeno prevalere dello sgomento che le prime mosse avevano gettato nelle file lombarde, carica col grosso dei fanti la compagnia del Carroccio; questa al primo impeto scompigliata si piega, quasi fuggendo; Federigo incalza, e già sta presso ad impadronirsi del gonfalone. Allora la compagnia della Morte, composta di novecento giovani e nobili cavalieri, tutti legati col giuramento di vincere o morire, che formava la schiera di riscossa, visto quell’estremo caso, si getta da cavallo, si prostra, invoca il nome di Dio, dei Santi Pietro ed Ambrogio, ripete ad alta voce il giuramento, e si precipita nella zuffa. Federigo, respinto da quella dura carica, torna all’assalto; nuovamente ributtato, si volge ai suoi per inanimirli: ma questi scorati, esitano, e si perdono; la furia dei rovinanti nemici gli sfonda; Federigo stesso rovesciato da cavallo viene con pericolo di vita travolto nella fuga. La battaglia è convertita in miserabile strage di gente sbandata. Molti furono i morti sul campo, moltissimi i sommersi nel Ticino. Ai Comaschi, siccome traditori, non si dettero i quartieri, e mala pena ai Tedeschi. Venne in potere dei Lombardi il tesoro imperiale, lo scudo, il vessillo, la croce e la lancia di Federigo medesimo; per più giorni non si ebbe nuova di lui. La Imperatrice rimasta a Como lo pianse per morto, e si vestì a lutto.
Federigo non pertanto viveva: fatto prigioniero dai Bresciani, si traveste da mendico, e ricompare a Pavia con l’onta di una disfatta sul volto. Fremeva il superbo nel doversi dir vinto: ma i casi più potenti di lui lo costringevano a mandare a Roma ambasciatori per la pace, tanto adesso da lui lealmente domandata, quanto poc’anzi perfidamente conclusa con Ezzelino padre del feroce Ezzelino da Romano, ed Anselmo padre di Buoso da Doara, a nome della Lega Lombarda. Convennero di un Congresso in Bologna; poi mutarono in Venezia, a patto che non c’intervenisse lo Imperatore se non a pace fermata. I Ministri non si accordavano; invece di pace proponevano tregua di quindici anni pel Papa e pel Re di Sicilia, di sei per la Lega Lombarda. Federigo domanda avvicinarsi al luogo del Congresso, e al punto stesso, senza nessuna risposta aspettare, lasciata Pomposa, villa nel contado di Ravenna, giunge a Chiozza. Parte dei Veneziani tumultuando chiede che sia ammesso in città; il Papa, e i Legati Siciliani sostengono doversi stare ai patti: accetti la tregua, e la ratifichi, altrimenti si allontani; se ai cittadini piacesse riceverlo, lo ricevessero, ma essi partirebbero nel punto stesso, protestando contro la manifesta infrazione del diritto delle genti. Alla fine Federigo per mezzo del Conte Enrico Dessau accetta la tregua il 6 luglio 1177. Allora mandato a prendere a Chiozza dal Senato veneziano, fu dal Doge Sebastiano Ziani condotto a grande onoranza sopra la piazza di San Marco, dove incontrato il Pontefice, secondo quello che narrano gli antichi cronisti, toltasi la porpora imperiale dalle spalle la stese per terra, e quindi prostratosi si curvò in atto di baciare il piede al Papa Alessandro, che ponendoglielo in vece sul collo esclamò: Super aspidem et basiliscum ambulavi etc. Alle quali parole Federigo rispose: Non tibi, sed Petro: – e il Papa di nuovo: Ego sum vicarius Petri. Questa istoria, comunque si veda tuttora con bellissime pitture effigiata su le pareti della Sala grande del Consiglio di Venezia, reputasi dai moderni storiografi una favola, senza però che ne abbiano esposto le cagioni, almeno per quanto mi riuscisse di poter ricercare. Passarono gli anni della tregua senza che accadesse azione degna di memoria; e già si avvicinava il tempo di riassumere le offese, allorchè Federigo, ormai disperato di fare buon frutto in Italia, e indotto dalle istanze del figlio Enrico VII a convertire la tregua in pace durevole, mandò al Congresso di Piacenza Guglielmo Vescovo di Asti, Enrico, Teodorico e Rodolfo, per trattare l’accordo. Questi convennero dei preliminari, e invitarono i deputati delle Repubbliche lombarde alla Dieta di Gostanza. Conservasi il libro della Pace di Gostanza su la fine del Codice dell’Imperatore Giustiniano, come monumento importantissimo, non pure per avere lungo tempo regolato i diritti delle genti in Italia, quanto per dimostrare la indole del Barbarossa. Costretto a cedere, vuol far sembianza di donare; e con orgoglio, che disdirebbe alla vittoria, concede cose, che appena si ricercano dai vinti. La prudenza dei Lombardi chiaramente si manifesta in questa occasione, imperciocchè, poco curando la petulanza dello stile ampolloso, guardarono ai loro interessi, e lasciarono ch’ei si sfogasse. Il proemio della Pace di Gostanza litteralmente volgarizzato dice: «La benigna ed infinita serenità della imperiale clemenza ebbe sempre in costume di reggere i popoli con larghezza di favore e di grazia, per modo, che sebbene debba, e possa con rigida severità punire i delitti, pure ama piuttosto governare l’Impero Romano con la propizia tranquillità della pace, e con pietosi affetti di misericordia chiamare la insolenza dei ribelli alla dovuta fede, ed all’ossequio di debita lealtà ec.» Dopo tanto pomposo cominciamento l’Imperatore cede tutte le Regalie, i contadi, i diritti acquistati per prescrizione, quelli di levare eserciti, afforzare le mura, rendere giustizia; annulla le confische dei beni, e le Infeudazioni in danno delle città; approva che sollevandosi qualche disputa tra lui e un popolo, il Vescovo decida; promette non dimorare tanto lungamente in una città da farle guasto. I Lombardi convengono di ricorrere ad un suo Vicario, o Podestà, per l’appello delle cause maggiori di venticinque lire; si obbligano a corrispondere del Fodero, del Mansionatico, e della Parata; patteggiano rinnuovare ogni dieci anni il giuramento di fedeltà.
Così, dopo il sagrifizio di oltre un milione di uomini in sette diverse imprese, finivano i disegni ambiziosi di Federigo in Italia. Ma quel suo spirito non poteva durare in riposo: nulla curando gli anni, ormai divenuti molti, nulla i disagi e i pericoli, appena giunse novella in Occidente che Saladino aveva preso Gerusalemme, tolta la croce, con novantamila combattenti traversò l’Ungheria, la Bulgaria, la Grecia, e giunto in Soria, mentre intende a conquistare le terre soggette al Saladino, bagnandosi nel fiume Salef ossivvero Cidno, dove anche Alessandro stette per perder la vita, miseramente annegava. Altri scrisse, che fu fatto annegare: ma la prova del delitto sta in mano di colui che può sempre punirlo. Questa è la Crociata, ch’espugnò Tolemaide, nella quale intervennero Filippo il Bornio Re di Francia, e Riccardo Plantageneto Re d’Inghilterra, insieme a moltissimi Baroni di tutta Cristianità, ed esposta con tanta sapienza di storia dal chiarissimo Gualtiero Scoti.