Kitabı oku: «Racconti politici», sayfa 23
Due Preti
I
Nell'anno 1839 io compieva, per volere dei parenti, il mio corso di umanità nel Seminario della Diocesi Ambrosiana.
Una sera, nell'ultima ora destinata alla ricreazione, io passeggiava sotto i portici in compagnia di un amico dilettissimo.
Sì all'uno che all'altro la disciplina di san Carlo era grave. Ci legava simpatia di carattere e comunanza di dolori. Perseguitati dai superiori, reietti dai colleghi, l'amicizia era per noi una necessità, più che un bisogno del cuore.
I nostri colloqui, mestissimi sempre, di giorno in giorno erano divenuti più famigliari ed espansivi; in breve, l'uno per l'altro non avemmo più segreti. Le angoscie del presente e le aspirazioni dell'avvenire si traducevano negli intimi sfoghi delle anime, con quel linguaggio che negli anni della prima giovinezza dà all'amicizia i caratteri dell'amore.
Quella sera entrambi eravamo più mesti che mai.
Due volte compimmo il giro de' portici senza dir motto; poi l'amico aprì la conversazione con parole che mi trafissero l'anima.
– Oh! io sono stanco della vita.
– Stanco della vita? – risposi tosto, guardando in viso il collega, nella cui voce era l'accento della disperazione. – A quindici anni stanco della vita! Tu vuoi parlare senza dubbio della vita seminaristica; ma fuori di queste mura avvi un mondo per noi sconosciuto, avvi una esistenza piena di seduzioni, feconda di affetti; noi incomincieremo a vivere davvero, appena Iddio ci avrà concesso di uscire da questa tomba.
– Te fortunato! – riprese l'amico; e la sua voce divenne più fioca; – te fortunato che puoi dire con certezza: io gusterò un giorno quest'altra vita di libertà e di piaceri! io, al contrario, non ho neppure la speranza…!
Per qualche minuto rimanemmo silenziosi; poi con voce sommessa e ad arte interrotta, l'amico mi parlò di tal guisa: – Mia madre è povera assai… Io fui posto in seminario a spese d'uno zio sacerdote, che mi ama di cuore, ma non crede vi sia altro mezzo per assicurare il mio benessere in questo mondo e nell'altro, fuor di quello di farmi percorrere la carriera ecclesiastica. Privo di padre e di fratelli, io non ho sulla terra chi pensi a me, tranne una madre, ingenua e pia donna, e il vecchio zio che dalle tenui rendite della parrocchia sottrae ogni anno la pensione per mantenermi in seminario. Io non ignoro quanto sia grave al buon parente un tal sacrifizio; sento quali obblighi di riconoscenza mi stringano a lui, e il beneficio m'ha imposto una catena ch'io non potrei infrangere senza spezzare al tempo stesso il cuore del benefattore, senza portare un terribile colpo all'anima della mia povera madre. Ogni qual volta, all'epoca delle vacanze, io torno nel grembo della piccola famiglia, il buon prete e mia madre mi parlano del mio avvenire con tanta fiducia, ch'io crederei delitto il turbare del menomo dubbio le loro felici illusioni. «Fra sei anni celebrerai la prima messa – mi ripete sovente l'ottimo zio. – Oh! se Iddio mi concede di vivere fino a quel giorno, voglio la sia una solennità non mai veduta! E mia madre, in udirlo, piange di tenerezza e mi bacia, implorando sul mio capo la benedizione di Dio. Fino a quando potei dividere quegli ingenui trasporti, fino a quando i miei desideri e i miei voti non ebbero altra meta che il sacerdozio e l'altare, io vissi felice; le parole dell'ottimo zio, le carezze di mia madre erano il conforto, il balsamo della mia giovinezza. Lo scorso anno…
Qui l'amico interruppe il racconto, e fu d'uopo ch'io lo esortassi ripetutamente a proseguire.
– L'anno scorso, uno strano cangiamento si operò di improvviso nel mio spirito; il santo edificio che i miei parenti con tanta sollecitudine avevano costruito, fu distrutto da un soffio, da uno sguardo, da una parola… La chiesa, l'altare, il paradiso che mia madre mi additava, che io vagheggiava fino dall'infanzia, perdettero ogni attrattiva per me. Poichè tutto vuoi sapere, ti dirò tutto; e giudicherai se la mia posizione non sia terribilmente dolorosa, se io non m'abbia ragione d'essere stanco della vita!
Io non dirò di qual lunga circonlocuzione si giovasse l'amico onde rivelarmi il penoso segreto, e come le parole gli uscissero tronche dal labbro, e quale il rossore delle guance e il tremito convulso della persona. Egli di poco oltrepassava i quindici anni; pallido nel volto, gracile delle membra, ma pieno di vitalità e di fuoco, il giovinetto aveva sortito dalla natura quel temperamento misto di bilioso e di sanguigno che suol essere il più irritabile, il più appassionato: con tali disposizioni era più facile far di lui un eccellente poeta, anzichè un buono e modesto sacerdote…
… Una ragazza!.. esclamai con vivacità, appena fra il buio delle frasi sconnesse potei distinguere il vero. La iniqua parola mi uscì dal labbro, e subito volsi d'intorno lo sguardo, come se in quel punto avessi consumato un delitto.
– Dunque hai esperimentato che cosa sia questo amore di cui cantano i poeti con tanta dolcezza…! Oh narrami… spiegami le nuove sensazioni che tu hai provate!
Ed io insisteva nelle inchieste, coll'avidità di chi anela la prima volta al frutto proibito.
– Ignoro se ciò che ho provato e provo tuttavia possa davvero chiamarsi amore… ma è bensì certo che le parole di una fanciulla hanno prodotto nel mio cuore una rivoluzione, hanno alterato il corso tranquillo dei miei pensieri, confuso nella mia fantasia il bene ed il male, la virtù e la colpa.
«Erano gli ultimi di ottobre, le vacanze prossime a finire… Venne a R… e prese alloggio nella casa di mio zio un nostro parente di Milano, ed una figliuola di quattordici anni in circa… un ideale di cherubino. Non saprei ridirti la commozione che io provai nel vederla, e che ora mi assale nuovamente al sovvenirmi di lei. Chinai gli occhi arrossendo, sentii mancarmi la voce… Per due giorni non osai guardarla in volto nè dirigerle parole, sebbene alla mensa ella sempre mi sedesse rimpetto, e ad ogni tratto la incontrassi nel giardino e in sulle scale e in ogni angolo della casa. Pareva ch'ella mi perseguitasse come l'angelo tentatore… Mio zio e mia madre attribuivano la mia riserbatezza ad eccesso di timidità, a scrupolo religioso. Nulladimeno di tratto in tratto mi ammonivano: «non istà bene essere così selvatico! i preti devono pur vivere in mezzo alla società! via! non è peccato scambiar qualche parola con parenti di altro sesso!» E ciò dicevano in presenza di lei… Io tentava balbettare qualche frase… ma sempre invano. Convien credere che le ragazze sieno per natura più audaci di noi… Fatto è che in pochi giorni la cugina seppe di tal guisa assediarmi colle sue apparizioni inaspettate, co' suoi sorrisi, col suo franco e cordiale linguaggio, che a poco a poco io mi abituai a fissarle gli occhi in volto e ad intrattenermi con lei in famigliari colloqui. Mio zio e mia madre, vedendomi folleggiare nel giardino in compagnia della vivace fanciulla, non si avvedevano del pericolo. Noi coglievamo dei fiori, noi intrecciavamo delle corone per ornarne l'altare della Madonna… E mio zio ingenuamente esclamava: «quel dabben figliuolo, col suo esempio, ha già temperata la vivacità della Emilia… e l'ha indotta al bene… Eccoli là… sempre in giardino ad intrecciar corone per far omaggio a Maria! E parleranno senza dubbio di religione… e di pratiche di pietà… Mio nipote non saprebbe parlar d'altro.» Infatti, i miei colloqui colla fanciulla erano innocentissimi; ella mi narrava del suo collegio, delle sue maestre, dei suoi studi, dei suoi ricami; io le parlavo del seminario e delle nostre discipline… Mi pareva che d'altro non si potesse ragionare fra noi… sebbene di tratto in tratto in quegli ingenui colloqui io sentissi una vampa di fuoco salirmi al volto… Io non mi accorsi della strana rivoluzione che già si era operata in me stesso, se non quando fui costretto a rientrare nel seminario. Ricevetti da mia madre la benedizione di congedo, e mi volsi per dire addio alla fanciulla… Le sue guance vermiglie e scintillanti di perenne sorriso erano coperte di un leggiero pallore… Ella mi accompagnò fino all'estremità del villaggio, e cogliendo il punto in cui mia madre e mio zio s'erano alquanto discostati da noi «Chi sa se ci rivedremo più mai! – disse amaramente; – gli è proprio un peccato che voi dobbiate andar prete!» Io non seppi rispondere; salii in carrozza con mio zio, indi mi volsi per salutare le due donne… ma questa volta gli sguardi più affettuosi non furono per mia madre…
La campanella che ci invitava allo studio pose fine quella sera al colloquio. Ma il giovine amico mi riparlò più volte della fanciulla, spiegandomi i dolorosi segreti della sua anima ardente e chiedendomi consiglio.
– Tu non puoi, tu non devi proseguire nella carriera ecclesiastica – io gli diceva. – Ed egli, con accento disperato: – E mio zio! e mia madre! essi moriranno di dolore… Posso io farmi carnefice di chi tanto mi ha amato e beneficato?.. Oh! credilo, amico, io desidero morire!
II
Un altro, e amico non era, ma compagno talvolta al passeggio de' portici, non eletto ma subìto, dicevasi chiamato al sacerdozio, e mi provava la propria vocazione con una logica che in altri men ingenuo di lui avrei riputata satanica.
– Per me, volontieri mi faccio prete, diceva il buon gaglioffo; nè credo vi abbia al mondo mestiere più agiato di questo. Noi abbiamo un benefizio di famiglia, e grosso benefizio, con obbligo di messa quotidiana, e libera di poi l'intera giornata. Io amo la vita campestre, amo la caccia, amo le allegre brigate; se riesco a compiere il corso degli studi, dopo, come dice mio padre, comincierà la cuccagna. Tutto sta a passare gli esami: ho ancora sette anni da combattere, ancora sette anni da sgobbare sui libri; poi addio latino! addio greco! addio arte oratoria e prosodia! per dir la messa non c'è bisogno di tanta scienza… basta saper leggere il messale. Io non so perchè questi nostri professori pretendano infonderci tanta dottrina!
«Si dovrebbe distinguere tra chierico e chierico: non tutti aspirano a diventare predicatori o teologi, od arcivescovi.
«La scienza, per noi che dobbiamo vivere in campagna, è un ornamento superfluo. L'anno scorso, quando il professore mi regalò una seconda in litteris, mio padre gliela ha cantata chiara, e gli ha detto senza preamboli quel che gli andava detto: cioè, che per essere buon prete, non è mestieri saper distinguere gli esametri dai pentametri, le vocali lunghe delle brevi. Oh che? dovrà egli, mio figlio, scandere i versi ai paesani? o battezzare i bambini con degli endecasillabi? Non basta, per intendersela con Domeneddio, saper leggere il latino del breviario? Dai pulpiti si fanno dei commenti alla Divina Commedia, o non piuttosto si spiega ai fedeli il Catechismo? Il professore tentò resistere alla eloquenza di mio padre; ma il padre confessore si interpose, e disse che io m'era un bravo figliuolo, e che avendo ottenuto la eminenza in moribus, non era giusto ch'io fossi condannato a ripeter l'anno per qualche fallo di latino. Fatto è che, entrando quest'anno in seminario, fui avanzato alla classe di rettorica maggiore, e spero tirar via dritto anche in questi sette anni di purgatorio… e poi… poi il paradiso promesso da mio padre.»
– Vorrei un po' sapere di codesto paradiso, – gli chiesi una volta; io credeva che la vita del prete dovesse essere un continuo sacrifizio, una lotta terribile contro le tentazioni del mondo, del demonio e della carne.
– La lotta finisce quando tu sia riuscito a farti prete, – rispose l'ingenuo seminarista; – mio padre dal dì che mi condusse al seminario, non cessò mai dal ripetermi: «Procura di essere paziente in questi anni di prova; non lasciarti atterrire dagli ostacoli, fa di cavartela alla meglio co' tuoi superiori e co' tuoi colleghi: quando una volta tu sia riuscito a dir la messa, eccoti sicuro del fatto tuo! Con sei lire al giorno in campagna si vive comodamente; nei due mesi di settembre e ottobre, qualche volta anche nel maggio, i conti D… vengono fuori nel paesello, e allora pranzerai tutti i giorni alla lor tavola…» Ed anche adesso, al tempo delle vacanze, la bazza è incominciata, e ti so dire che in que' due mesi io pregusto tutte le delizie che mi attendono nell'avvenire. Mio padre mi ha presentato al conte ed alla contessa, i quali mi accolsero con molta affabilità… La contessa, appena io le comparvi dinanzi, mi squadrò dal capo ai piedi coll'occhialino, poi volgendosi a mio padre: «Il nostro giovanotto, – esclamò ridendo, – promette assai… – Ai servigi di vostra eccellenza! – soggiunse mio padre.»
– È ella giovane, la signora contessa? – domandai io senza malizia.
– Avrà trent'anni circa.
– E tu ti sei trattenuto più volte con lei nelle scorse vacanze?
– Dacchè mio padre me la fece conoscere, ho cercato di vederla ogni giorno.
– Scommetto che hai giuocato con lei a tarocco.
– A tarocco non mai, perchè il quartetto era sempre completo; ma un giorno che io mi trovava solo con lei, le prese il capriccio di insegnarmi il giuoco degli scacchi… Oh, quella sera poco mancò ch'io commettessi un grande sproposito e, come diceva mio padre, compromettessi il mio avvenire!.. Per giuocare agli scacchi, io e la signora contessa stavano seduti ad un tavolino magro, leggiero, che pareva lì lì per volarsene via. La contessa colle dita sullo scacchiere mi iniziava ai segreti del giuoco, mi apprendeva le teorie del combattimento. Ella fece avanzare un pedone… Io non so che diavolo di paura mi avessi addosso;… fatto è che io sudava per tutte le membra, e le mie mani erano divenute paralitiche. «A voi, bell'abatino, disse la contessa». Io, con moto convulso levai la mano, e nello spingere il cavallo ad un salto non permesso dalle regole, colle maniche del ruvido soprabito lanciai il tavolo e la scacchiera nel mezzo della sala. «Misericordia! – gridò la contessa – Io doveva prevederlo, che con quelle vostre manaccie mi avreste rovinato ogni cosa!.. Tutti ad uno stampo questi preti!.. Vengono fuori dal seminario che paiono tanti bifolchi!..» Io mi sentii ferito nell'amor proprio; il sangue mi salì al cervello, fui sul punto di proferire un'insolenza; ma vedendo mio padre entrare nella sala, fuggii come un colpevole.
– Oh! davvero l'ingiuria della signora contessa fu grave, e credo che da quel giorno non sarai più tornato da lei.
– Tale era appunto la mia risoluzione; ma mio padre mi fece persuaso ch'io era ben sciocco a prender sul serio le facezie di una signora. «I preti devono sempre andar d'accordo co' signori, e sopratutto colle signore, – mi ripeteva mio padre – e quando questi invitano a pranzo, bisogna lasciarli dire… non irritarli… far di tutto perchè la tua compagnia riesca loro gradita; e se qualche volta si compiacciono di ridere alle tue spalle, lasciarli ridere, e fingere di non vedere… di non udire… Di tal modo sarai sempre ben accetto dai ricchi, ed otterrai da loro tutto che desideri».
– E rientrasti in casa della contessa?
– Oh! sì… certo..! mio padre lo volle.
– E giuocasti ancora agli scacchi?
– Non più, perchè non mi avvenne mai di trovarmi da solo a sola colla contessa; ma quand'io mi recai da lei per la visita di congedo: «Signor cappellano in erba, – mi disse ridendo, – vi raccomandiamo di studiar bene il vostro latinorum; poi, se avremo buone informazioni sul vostro conto, se infine saremo contenti di voi, penseremo nelle prossime vacanze a compir la vostra educazione civile, come abbiam già fatto col vostro antecessore il fu D. Casimiro e con questi altri collaroni sudici che circondano tutti i lunedì e giovedì la nostra mensa».
La logica dell'egoismo paterno avea singolarmente viziato il carattere di quel mio collega di seminario. In sì giovane età egli toccava dappresso l'ateismo senza tampoco avvedersene. E perchè io lo vedeva zelantissimo nelle pratiche di pietà, protetto dal rettore, fedele ai sacramenti, un giorno lo richiesi se della sua vocazione avesse parlato mai al confessore e chiestigli consigli.
Colla usata ingenuità mi rispose:
– Ti paion storie codeste da narrarsi al confessore? S'io non mi tenessi sicuro della vocazione, ti giuro che io non rimarrei nel seminario ad usurpare l'altrui posto.
Di tal guisa ragionava il buon figliuolo, e nella sua testa, grossa anzichè no ed altrettanto dura ed inaccessibile ad ogni scienza, tutti i voti del presente, tutte le aspirazioni dell'avvenire si riepilogavano nell'idea: bisogna cercar di cavarsela alla meglio nel seminario, per aver nelle mani un buon mestiere. Nella scuola egli sedeva costantemente all'ultimo posto, ma con rassegnazione dignitosa, la testa raccolta nelle mani e gli occhi fissi al libro, con quella tensione violenta che è propria dei grandi pensatori e dei grandi cretini. I maestri protestavano ogni anno non potersi nè doversi permettere a un tal gaglioffo di proseguire nella via ecclesiastica; ma il confessore a proteggerlo, il padre a perorare in favore delle sue viscere, il conte e la contessa a intercedere. E all'età di ventiquattro anni circa, dopo varie peripezie scientifiche, il levita accostossi all'altare, e provò a' suoi persecutori maestri, a' suoi condiscepoli derisori, non meno che ai benevoli suoi mecenati, saper egli cantare la messa ed intonar l'alleluja al pari e forse meglio de' più sapienti teologi. La contessa, in vederlo funzionare la prima volta nell'oratorio, disse all'orecchio del marito: – ecco un cappellano che ci farà onore; io te l'ho sempre detto ch'egli aveva dell'ingegno, e che sarebbe riuscito come gli altri!..
III
Or volgono sei anni, passando nelle vicinanze di X… mi sovvenni dei due colleghi seminaristi; del primo, che io sapevo abitare in que' dintorni, chiesi novella alla padrona della piccola osteria ov'io mi era soffermato. – Il nostro curato! – sclamò la donna – oh! quello sì che è proprio un santo! peccato ch'egli sia così malaticcio! Egli andrà ritto ritto al paradiso, ma pel nostro paese sarà una grande sciagura. L'albergatrice proferì quelle parole con tal accento di compunzione che io ne fui tocco nel cuore. L'immagine dell'amico mi si ravvivò nel pensiero; rammentai i colloqui furtivi, le ingenue confidenze che fanciulli ci avevano collegati di tenera simpatia; nè potei risolvermi a lasciare il paesello senza prima rivedere colui ch'io aveva sconsigliato dal proseguire nella carriera ecclesiastica, e che ora la buona ostessa mi dipingeva quale un santo.
Coll'animo commosso mi avviai alla casa parrocchiale. «Di qual modo verrà accolta la mia visita? – pensavo io; – sarà egli turbato o contento nel rivedermi?» E ristetti esitante.
Superata la soglia, una fanticella mi introdusse nel giardino, e mi additò due preti seduti all'ombra del pergolato. Ambedue si levarono in piedi, e il loro saluto più cortese che amico, mi disse che nè l'uno nè l'altro si ricordavano d'avermi prima d'allora veduto. Ma, appena ebbi proferito il mio nome, il curato arrossì leggermente, mi stese la mano e mostrossi tutto lieto della mia visita; l'altro parve cercare affannosamente nel proprio cervello una rimembranza quasi smarrita.
– Non ti sovvieni ch'egli era con noi in seminario? – disse il curato al collega.
Lo smemorato spalancò gli occhi e la bocca; e, dopo un oh di sorpresa, mi fece tal festa da non potersi descrivere.
Perchè mai nel cappellano della contessa tanta esplosione di affetto? Non tardai a comprenderlo. La mia visita gli procurava la buona ventura di poter vuotare un paio di bottiglie di vino eccellente. Infatti il rubicondo cappellano, prevenendo la cortesia dell'ospite amico, propose un brindisi in onor mio, e avviossi alla cantina per procacciarsi le munizioni.
– Sempre lo stesso! – esclamò il curato sorridendo; non ti par di vederlo, quand'era in seminario?
– Oh sì certo!.. se non che a quell'epoca il grosso testone era sempre curvato, mentre ora sta ritto in grazia dell'addome solidissimo!
Levai gli occhi nel volto del curato; la mia facezia non lo aveva commosso; il sorriso era già dileguato. Povero amico! Io non poteva staccare lo sguardo da quella pallida e nobile fisionomia. Nelle rughe precoci, nei lividi solchi, nella mestizia del labbro, lessi le lotte crudeli, gli angosciosi sacrifizi di un'anima che per farsi santa aveva dovuto logorare la carne, uccidere la materia. Il giardino era vivificato dai tepori primaverili; le piante rigogliose, le aiuole olezzanti di fiori; gli angeli, gli insetti agitavansi inquieti fra le pompe della nuova vegetazione. Il creato che ogni anno ringiovanisce sembra ripetere all'uomo: oh! la tua giovinezza non trascorra senza amore, perocchè dall'infimo insetto al leone, dal granello di silice sino all'astro più luminoso del firmamento, le creature tutte animate ed inanimate si alimentano di amore.
Io non sapevo di qual modo riaprire la conversazione. Il buon curato si accorse del mio imbarazzo e più ancora della pietà ch'io sentiva nel vederlo sì gramo di salute.
– Son ben malato! – diss'egli – e spero… che quest'anno al cader delle foglie andrò a raggiungere mia madre e mio zio… nel campo santo!
– Poi, dopo breve pausa: – non puoi credere quanta consolazione mi rechi il vederti; nulla ho dimenticato dei nostri colloqui fanciulleschi; in quell'epoca io mi era un ragazzaccio senza testa, io dubitava della religione, disperava della grazia. Credilo, amico (e queste parole scemino il danno che per avventura io ho potuto recare alla tua fede) col soccorso della Provvidenza, l'uomo può vincere ogni istinto perverso.
– Lo credo, – risposi; e il buon prete parve lietissimo della risposta, e mi ringraziò col sorriso. Ma nel fondo del cuore io diceva a me stesso; «Qual miracolo che costui abbia domati gli istinti? Non si è egli suicidato? Io mi veggo dinanzi la larva di un uomo.
Il cappellano mi distrasse dalle serie considerazioni. Egli depose in su la tavola tre bottiglie ed affrettossi a sturarle. In quel punto il sagrestano annunziò al curato che una povera vecchia era prossima a spirare, e conveniva recarle gli estremi conforti della religione.
– Vengo subito, – disse il curato, e prese commiato da me, raccomandandomi rimanessi, che dopo la cerimonia sarebbe tornato.
Poco dopo, la campana della chiesa squillò d'agonia, e dall'interno del coro si partirono le voci dei campagnuoli accorsi al mestissimo ufficio.
– Beviamo! – disse il cappellano stendendomi il bicchiere; – lo troverete eccellente! Don C… se altro non ha di buono, di ciò va lodato ch'ei tiene la cantina ben guarnita, ed ha anche la delicatezza di non bevere il proprio vino, e di serbarlo per gli amici… Dunque… beviamo.
Bevvi di mala voglia, perocchè l'epigramma del cappellano mi suonasse come nota disarmonica nel cuore compreso da religiosa mestizia. Si avvide egli del mio turbamento, e mi uscì fuori col detto: a medici e a preti è spettacolo quotidiano la morte; la nostra sensibilità, laddio grazia, incallisce!
La pallida larva dell'amico mi stava fissa nella mente. – Gli è dunque ben malato il povero don C…? – Oh, malato assai! – disse il cappellano vuotando il bicchiere; – egli si è lasciato prendere dagli scrupoli; la è malattia incurabile; io ne veduti ben altri consumarsi lentamente per tali eccessi di pietà… Ma costui ha proprio fatto di tutto per abbreviarsi la vita!
Il cappellano già si faceva a spiegarmi l'origine e lo sviluppo della malattia, quando un lacchè gallonato entrò nel giardino e pose fine al colloquio.
– La carrozza della signora contessa è là fuori, – dirigo il servitore; – la signora contessa lo invita a fare una trottata sino a M…
Il cappellano balzò in piedi, vuotò d'un sorso un altro bicchiere, mi disse addio, e corse fuori in sulla piazzetta.
Io, per impulso di curiosità, gli tenni dietro, e stetti a poca distanza dalla carrozza.
La signora contessa, sdraiata sui cuscini come una sultana, lasciava penzolare la mano nella mano di un elegante giovinotto che in quel punto le si era avvicinato. – Ignoro qual fosse il nuovo personaggio, nè compresi il senso del sommesso cicalio; ma nel mentre il cappellano giungeva tutto ansante presso la carrozza, il giovane aperse lo sportello, balzò sui cuscini e sdraiossi beatamente a lato della contessa.
– Voi giungete un po' tardi, don Calimero, – disse la signora al cappellano; – ad ogni modo vogliam essere indulgenti! se non temete compromettere la vostra dignità sacerdotale, montate in serpa con Giuseppe.
– Oh troppo onore, signora contessa!
Il cappellano montò sul seggio indicatogli, e i cavalli partirono di galoppo.
Frattanto il buon curato aveva compiuti i suoi uffizii. Lo pregai mi accompagnasse fino alla estremità del paese: durante la breve passeggiata egli depose in me con ingenuità fanciullesca i segreti dell'anima ardente.
– Tu sei un santo! – esclamai nell'entusiasmo dell'affetto e del dolore.
– Santo! non ancora; ma spero di esserlo fra breve; a ragione quel luogo (e additava il non lontano cimitero) a ragione quel luogo è chiamato il campo-santo: là dentro si estinguono del tutto le umane passioni – fuor di là nessuno è santo.
Mi strinse la mano e allontanossi. Volgendo gli occhi lo vidi prender la via del cimitero, e dileguarsi fra le croci.
Mentre io saldavo il conto coll'albergatrice, sentii dietro le spalle ruggire il cappellano: – Al diavolo la etichetta e la aristocrazia! Vedete, amabile Caterina, se io rendo giustizia ai vostri meriti! per amore di voi e del vostro buon vino son balzato da una nobile carrozza a rischio di rompermi l'osso del collo: presto, un boccaletto del migliore!
– Che!.. voi bevete ancora, cappellano?
– Poco dianzi in casa del curato ho bevuto per ammorzare la sete, ora mi convien bere per diluire la polvere!
Il curato di R… è morto da cinque anni. Il cappellano vegeta e ingagliardisce ogni giorno; anzi, in questi ultimi tempi, nel paesello di R… egli predicò nelle osterie la guerra allo straniero, ed ora vien citato come modello dei sacerdoti liberali.
Si vuol anche (ma questa potrebb'essere una calunnia dei nemici della chiesa) che l'intervento di don Calimero abbia prodotto un sensibile aumento nella popolazione di R… e si citano i nomi di quattro o cinque marmocchi, sulla cui testa, appena nati, si vide disegnata una chierica.
Ed io ho narrata la istoria di questi due preti, per fornire un tema di meditazione a quei dotti che si occupano di studiare le gravi questioni della vocazione religiosa e del celibato ecclesiastico.