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Kitabı oku: «Racconti politici», sayfa 21

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IV
La domenica a Ponte d'Albiate

Se mai vi prende la buona ispirazione di recarvi nei mesi di estate a villeggiare in qualche paesello della Brianza, io vi consiglio di arrestarvi a Ponte d'Albiate.

Giunti colà, cercate prendere alloggio all'albergo del fornaio Giuseppe Galbiati. Avrete una buona camera, biancheria pulita, servizio pronto, tuttochè può formare il confortabile della vita – e per giunta vino squisito e certi intingoletti solleticanti, di cui la signora Felicita moglie dell'albergatore possiede il segreto.

Teobaldo Brentoni, procedendo nel suo viaggio, pervenne all'albergo del signor Galbiati verso mezzanotte.

Tutti erano coricati, e dormivano del sonno più profondo.

Teobaldo, a forza di gridare, e gettar sassi alle finestre, riusci a destare Sciaballino il cane guardiano; questo svegliò i tacchini, i tacchini svegliarono le oche, e quello chiarivari di voci animalesche riscosse in breve tutti gli abitanti del paese, l'oste compreso.

L'arrivo del terribile rivoluzionario produsse la più viva sensazione.

All'indomani – era giorno di domenica – nel cortile dell'albergo tutti parlavano del giovane sconosciuto, che nel cuore della notte avea con tanta insistenza disturbata la pubblica quiete.

– Chi sarà? Donde venne? Fin quando si trattiene?

– Io non gli ho chiesto nulla, risponde l'oste. L'ho condotto nella sua camera, gli ho dato la buona notte, e finora non è ricomparso…

Frattanto il cortile sempre più va riempiendosi di curiosi. I villeggianti, uomini e donne, vengono a chieder novelle dell'insolito chiasso avvenuto la notte.

Ma un suono di tromba ha richiamato l'attenzione di tutti. Un contadino di circa trent'anni, con due grossi tacchini in sulle spalle, si fa in mezzo alla brigata, e saluta rispettosamente gli astanti.

I fanciulli battono le mani – Viva il Malo Amen! si grida da ogni parte – Presto! in giro le cartelle!.. Vediamo chi sarà il fortunato!

Il contadino depone le due vittime nel mezzo della tavola, e si prepara a far l'estrazione di una tombola, gridando a tutta voce:

– Avanti, signori!.. non vi sono che dieci cartelle disponibili!.. Chi non risica non rosica!.. Da bravi!.. Ma ecco un signore, che senza dubbio vorrà favorirmi… Se non erro, è quello istesso, che ieri a sera cenava all'albergo di Canonica, e a cui ebbi l'onore di indicare il cammino per Albiate…

Infatto Teobaldo Brentoni, svegliato dal suono della tromba, era balzato dal letto, e veduta tanta gente nel cortile, era disceso colla speranza di poter sfoggiare qualche arringa rivoluzionaria.

Alla vista delle cartelle e dei tacchini, la fronte dell'apostolo divenne crespa…

– Ecco di qual modo si educa il popolo, mormorò Teobaldo… Coi giuochi d'azzardo!.. colle lotterie!.. E dire, che non si è ancora pensato dal governo a togliere di mezzo questa immoralità legalizzata che si chiama il giuoco del lotto!.. Povera Italia!

Malo Amen, non potendo immaginare quale profonda indignazione fremesse nell'anima del giovane repubblicano, lo salutò del più amabile sorriso, offrendogli due delle cartelle rimaste vacanti.

– Eh! non hai capito ch'io non so che farne delle tue cartelle! disse il Brentoni volgendo le spalle. – Abbiamo ben altro per la mente, noi uomini d'azione, che questi inutili spassi inventati dalla malvacea fantasia di chi vuole l'Italia eternamente schiava ed oppressa!

– Ma che s'ha dunque a fare qui in campagna per passare il tempo? chiede una giovanetta, la quale divenne rossa come brage in udire le parole del Brentoni. – Le giornate sono tanto lunghe… e il divertimento della tombola sì breve…

Malo Amen colle sue cartelle nella mano è rimasto immobile come don Bartolo.

– E siete voi, bella giovanetta dalle guancie di rosa, siete voi che mi chiedete come dobbiate impiegare utilmente i vostri giorni! Aprite i sacri volumi della istoria greca e romana, e vedrete di qual modo utilizzassero il tempo quelle fiere indomabili eroine dei tempi vetusti, allorquando la patria era in pericolo!.. Parlate colle figlie dei Focioni e degli Epaminonda! Interrogate le spose dei Gracchi e dei Scipioni. Le nipoti dei Leonida, dei Milziadi, dei Cocliti, dei Bruti, dei Ligarii!..

– Tutti questi signori villeggiano forse nelle vicinanze? chiede ingenuamente la padrona dell'albergo.

– Eh! non v'è pericolo! Sono gente di cui oggimai si è perduta la stampa! Io vi assicuro che quelli non erano uomini che perdessero il loro tempo a far delle tombole.

La madre della giovinetta, cui il Teobaldo ha rivolto più direttamente la parola, vedendo che la figlia non osa rispondere, balza in piedi come una vipera schiacciata nella coda, e lanciando all'oratore uno sguardo iniettato di veleno:

– Signore! esclama; quanto alle nostre figlie, noi possiamo vantarci ch'esse non mancarono mai nelle grandi occasioni ai loro doveri di cittadine e di buone italiane… Nel 1848 la Gigietta lavorava a preparare le bandiere tricolori e a sfilare i tovagliuoli per medicare i feriti… La Teresina sa fare tutti gli esercizi militari come un veterano… La Bersabea, due anni fa, quando vennero i Francesi e i Piemontesi, passò le intere notti presso il letto dei feriti… Ella ha guarito dieci zuavi, sette bersaglieri, ed un turcos – questo ultimo fu tanto contento dell'assistenza ricevuta, che non ha mai cessato di scriverle… Lettere che fan piangere i sassi!.. Ella vede, mio bel signore, che a tempo debito non siamo state colle mani alla cintola. Se oggi siamo qui a rischiare una cartella alla tombola, domani, ove il caso si presentasse, tanto io che le mie figliuole sapremmo maneggiare altri strumenti!

– Brava!

– Bene!

– Viva la signora Carlotta! gridano i circostanti. Il Malo Amen, che più degli altri si tiene offeso dalle marziali declamazioni di Teobaldo, sendo egli l'iniziatore e il promotore della lotteria, prende coraggio dall'esempio, e prosegue con calore:

– La signora Carlotta ha detto benissimo… Oggi la tombola, domani le palle di piombo!.. Anche io non ho mancato al mio dovere quando si trattava di combattere per la patria, e di cacciar via quei maledetti tedeschi! Ho ancora in tasca la ricevuta del denaro, che portai al Comitato di Milano per un milione di fucili richiesti dal conte Giuseppe Garibaldi!.. Due franchi, capisce, mio bel signore! Io, povero contadino di Albiate, ho dato due franchi! E conosco tanti conti, marchesi, baroni e cavalieri, i quali hanno avuto paura a cavar di tasca un quattrino…

– Ed io mi sono battuto a fianco di Garibaldi, a Varese e a San Fermo! salta su un giovinetto – e se il papà non mi avesse trattenuto, avrei preso parte alla spedizione di Sicilia! Ma ecco qui altri due, i quali si sono battuti!.. Il Peppino ha avuto anche la fortuna di essere fra i mille che sbarcarono a Marsala… Il Giovacchino partì colla seconda brigata, ed ebbe parte al combattimento di Milazzo!.. Se il signore ha fatto parte di quella spedizione, certo deve averli conosciuti… Il Peppino fu creato sergente sul campo di battaglia… L'altro era tamburino nella brigata Medici, ed ha riportato il tamburo crivellato di palle!.. Non si ricorda ella, di averli veduti, questi due biricchini?

Teobaldo Brentoni – avrei dovuto prevenirne il lettore – avea molta energia di carattere, era un'anima ardente di patriotismo e di liberali aspirazioni, ma fatalmente aveva sortito dalla natura una istintiva ripugnanza per le armi da fuoco e da taglio. Adoratore fino all'esagerazione dell'altrui eroismo, invano egli avea lottato contro la propria natura per diventare un eroe. La vista di un fucile gli paralizzava la favella – il suono di un tamburo gli metteva il capogiro – il bagliore di una baionetta lo arrestava istupidito come occhiata di basilisco. Questo orrore istintivo per gli istrumenti di distruzione più volte lo avea compromesso nell'opinione de' suoi correligionarii politici. Nel 1859, quando il fiore della gioventù lombarda varcava furtivamente il Ticino per ripassarlo coll'esercito trionfatore, Teobaldo si adoperò ne' circoli segreti ad infiammare l'ardore dei giovani, a favorirne l'emigrazione. Ma giunse l'ora fatale del combattimento… Teobaldo avrebbe dovuto emigrare… seguire la sorte degli amici… arruolarsi… prender le armi. A quell'epoca il giovane rivoluzionario scomparve… Lo si cercò a Torino, lo si cercò a Milano… Nessuno ebbe nuova di lui fino dopo la battaglia di Magenta. A quell'epoca ricomparve sul corso di porta Renza con cappello alla calabrese e camicia rossa… e pochi giorni dopo instituì in Milano la Società della morte eleggendosi egli stesso a presidente. In breve tempo, a forza di predicare, gridare, inveire contro il ministro Cavour; a forza di redarguire la politica piemontese e le iniquità del governo, a forza di compiangere il povero popolo, promettendo agli operai un beato avvenire d'ozio, di vagabondaggio e di ricchezza, Teobaldo era riuscito a guadagnarsi la simpatia di tutti i malcontenti. La spedizione di Sicilia venne in mal punto a creargli nuovi imbarazzi. La gioventù animosa, i veri uomini di azione di nuovo correvano alle armi… Garibaldi era già partito e sbarcato a Marsala coi Mille… Medici lo avea raggiunto a Milazzo… La parte più eletta della Società della morte aveva disertato dal club per correre sul teatro della guerra. Il presidente nell'enfasi delle sue arringhe più volte avea dichiarato vili e traditori della patria tutti coloro, che essendo in grado di maneggiare un fucile, non correvano ad ingrossare le file dell'esercito rivoluzionario. Ma anche sta volta l'orrore delle armi da fuoco e da taglio esercitò sull'anima di Teobaldo un influsso fatale. Il presidente della Società della morte un bel giorno disparve da Milano, e mentre buona parte de' suoi conoscenti ed amici spendevano generosi la vita per redimere dalla tirannia borbonica le più belle provincie d'Italia, egli rifugiossi a Tartavalle per far la cura delle acque ferruginose. – Queste istorie eran note a Milano – molti le ripetevano sommessamente – i più arditi si erano anche permessi di fare dinanzi a lui delle allusioni poco favorevoli… Fatto è che Teobaldo, sebbene avesse riconquistato dopo la guerra il suo posto di presidente, sebbene fosse riuscito a giustificare la sua condotta mostrando le migliori disposizioni di prender parte a tutte le guerre avvenire, ogni qualvolta gli accadeva di trovarsi in mezzo ai veri soldati dell'indipendenza e della libertà, smarriva il coraggio, si turbava, perdeva la parola, e stava nell'attitudine di un reo convinto.

Tal rimase appunto il nostro apostolo rivoluzionario quando si accorse che buona parte dei giuocatori di tombola avevano contribuito assai meglio di lui alla indipendenza ed alla libertà d'Italia.

E poichè il Malo Amen esitava a cominciare l'estrazione dei numeri, come chi attenda; e dall'altra parte il Brentoni, da quel sincero cittadino che egli era, non osava mentire innanzi alla numerosa brigata; questi prese il partito di chiedere il conto all'oste e di uscire dall'albergo gesticolando come un invasato. Egli marciava a gran passi imprecando contro la natura matrigna, che donandogli tante belle disposizioni per divenire un eccellente patriota, gli avea messo nel sangue quel maledetto istinto di ripugnanza per le armi da fuoco e da taglio.

V
Una festa popolare a Besana

Quella domenica c'era gran festa a Besana.

Sul magnifico piazzale, donde l'occhio si stende ai più ridenti paesi della Brianza, una folla immensa di popolo attende l'arrivo delle Guardie Nazionali di Desio e di Camnago.

I villeggianti delle terre vicine sono accorsi a godere dello spettacolo. Nelle vie si arrestano superbi equipaggi – dai poggi e dai giardini sovrastanti alla piazza le belle milanesi sfoggiano pittoreschi abbigliamenti. Tutti i volti spirano allegrezza. Queste fratellevoli dimostrazioni, queste solennità marziali, mentre giovano a stringere gli animi in salda concordia, esaltano la fantasia nel popolo, gli ispirano il gusto della libertà.

I militi di Besana sono andati incontro ai loro ospiti… Da lontano eccheggiano le trombe… Le donne sporgono il braccio, agitando i fazzoletti – gli uomini battono le mani – dalla folla escono frequenti viva al Re, a Garibaldi, all'Italia…! Ed ecco le schiere, precedute dalle bande musicali, entrano trionfalmente nella piazza…

Non temete, o lettori… Io non descriverò le evoluzioni marziali e le gloriose manovre del popolo armato… Voi forse ci prendereste molto interesse… ma pazienza per questa volta!.. Io non debbo perder di vista l'eroe della mia storia, tanto più che egli è giunto in Besana da due ore, ed ha già suscitato qualche lieve disordine…

Non precipitiamo la narrazione… Teobaldo, venendo da Ponte di Albiate a Besana, avea trovato i suoi due colleghi, lo Zammarini e il Quinetti, i quali, sapendo della festa, muovevano per lo stesso cammino. Sì l'uno che l'altro avean passata la notte a Canonica, una notte poetica, dicevan essi… La famiglia Regola era stata in combustione per causa del torbolino… Le figlie del regio impiegato erano uscite più volte dalla loro stanza per… prender aria… I due giovani, attraversando l'anticamera, non avean potuto evitare degli scontri pericolosi… Infine, sui gradini della scala, all'oscuro, c'era stato uno scambio poco diplomatico di trattative, sicchè le parti contraenti avean giurato riavvicinarsi in Besana il giorno successivo.

Il Quinetti e lo Zammarini, narrando cotali istorie coll'enfasi che è propria dei millantatori, credevano interessare l'attenzione di Teobaldo e conciliarsi la di lui simpatia; ma appena giunti all'ingresso di Besana, il feroce repubblicano proruppe in una catilinaria di nuovo genere, e dopo aver esaltato le virtù delle donne, e inveito contro gli infami che osano profanarla con indegni attentati, abbandonò i suoi due compagni di viaggio, i quali confusi e storditi si diressero verso la piazza.

Nel punto in cui le bande musicali davan principio al concerto, il Quinetti e lo Zammarini riuscirono ad introdursi nel giardino del preposto, dove la famiglia Regola li aveva preceduti. È inutile aggiungere che i figli dell'impiegato regio avean ridotte le aiuole e le piante fruttifere come se vi fosse passata la gragnuola.

Che è? che non è?.. Un attruppamento in sulla piazza… Voci che gridano: morte! Pugni levati… gesti minacciosi… gente che accorre da ogni parte. – Questi interroga – quell'altro narra – poi tutti a parlare in una volta… E di tratto in tratto urli spaventosi dalle masse…

1 concerti della banda sono cessati… i militi si disperdono in varii gruppi. – Tutti voglion conoscere la causa dell'improvviso disordine…

Il Quinetti e lo Zammarini, malgrado l'opposizione delle sorelle Regola, scendono dal poggio nella piazza, e a forza di spintoni si aprono il passaggio fino al centro della folla, ove cinque o sei villani parlano con voce animatissima.

– Sapete voi che cosa ebbe il coraggio di dire quel mostro! Ha detto che i nostri della Civica sono tanti buffoni! grida l'un dei villani.

– Che!.. noi buffoni?.. noi della Guardia Civica! Ma dov'è quel birbone…?

– Ha detto che noi di Besana siamo tutti pagliacci, perchè perdiamo il tempo a far delle parate militari, invece di… prendere le zappe e le forche, e andare con quelle ad assaltare Verona…!

– Noi… pagliacci! noi di… Besana!.. Ma perdio!.. Datemelo nelle mani quella… carogna!..

– Chi è? dov'è?.. Bisogna farlo in pezzi!..

– Egli era laggiù che predicava poco fa all'osteria della Sposa bella.

– No!.. dall'osteria è venuto fuori… e si è fermato sull'angolo dell'oratorio, dove io l'ho udito dire ad alta voce che la nostra civica gli fa orrore.

– Morte! morte! si urla dal centro… E questo grido si ripete dall'una all'altra estremità della piazza.

Lo Zammarini e il Quinetti non hanno bisogno di udire altri discorsi per comprendere che l'uomo in quistione dev'essere il loro compagno di viaggio.

– Che si fa? – bisogna salvarlo, dice il Quinetti. – Infin dei conti egli è nostro patriota…

I due giovani, manovrando di destrezza, escono dalla folla… Ma allo svolto della contrada, una mano robusta li ghermisce improvvisamente pel collare e li solleva da terra… L'autore di questo colpo di sorpresa è un contadino di Besana, il quale due ore innanzi aveva veduto il Quinetti e lo Zammarini in compagnia dell'apostolo rivoluzionario.

– Aiuto! misericordia! gridano i due sospesi, dibattendo le gambe e le braccia come gatti.

– Voi ci insegnerete dove si è rifugiato colui, signori moscardini!.. Voi dovete conoscerlo molto bene… In ogni caso sapremo da voi nome, cognome e patria di quel bel mobile…

– Diremo tutto!.. metteteci a terra!.. gridano i due martiri con voce strozzata…

I fischi e gli urli della folla ingrossano minacciosi. Le due sorelle Regola, vedendo dall'alto del poggio due partiti di matrimonio sì gravemente compromessi, svengono fra le braccia della madre…

I contadini di Besana e di Desio, offesi nella loro Guardia Civica, inseguirono e cercarono Teobaldo Brentoni per tutto quel giorno. – Ogni strada, ogni sentiero furon perlustrati da grosse pattuglie… Come avviene in tali confusioni, i militi, non potendo agguantare il vero colpevole, per dar prova d'attività e di zelo, arrestarono il contino Bisciolla e il suo degno professore. Sì l'uno che l'altro furono sorpresi da una pattuglia mentre stavano discutendo se le iniziali S. C. scolpite in una lapide moderna, significassero Strada Comunale, o non piuttosto Senatus Consulto. Vennero legalmente arrestati come figure sospette.

E frattanto dov'era Teobaldo? – Teobaldo, dopo aver predicato due buone ore all'osteria della Sposa bella contro i Piemontesi, contro le Guardie Nazionali, contro i preti, contro i sindaci, contro i carabinieri, contro la Costituzione, contro il Parlamento, contro tutti; ai primi sintomi di procella erasi ricoverato in una botte.

All'indomani, un contadino tenero di cuore, il Malo Amen di Albiate, trasportava a Monza col suo carretto la botte misteriosa.

Ci viene assicurato che il Brentoni dietro l'esito di quella prima spedizione, abbia rinunziato alla dignità di presidente della Società della morte, dichiarando in pari tempo a' suoi colleghi che il popolo delle campagne non è maturo.

FINE

Storia di Milano dal 1836 al 1848

Sotto l'oppressura di una indigestione solennemente cattolica, io mi accingo ad un lavoro altrettanto grave che proficuo: a scrivere la Storia di Milano dall'anno 1836 al 1848. Voi tosto comprenderete che io scrivo dietro incarico di un editore, al quale preme, se non mi inganno, di aggiungere due nuovi volumi alle opere del Verri e del De-Magri, omai screditate completamente. Conviene adunque che io raccolga i pensieri a capitolo – l'impresa è molto arrischiata, ma io solo conosco l'alta mercede che mi attende.

Raduniamo i materiali. Io detesto gli sgobboni che fabbricano la Storia sui libri altrui, sulle testimonianze poco attendibili dei giornali, e sulle codarde adulazioni delle medaglie e dei marmi sepolcrali. – D'altronde, non l'ho io veduta coi miei propri occhi la Storia di Milano dal 1836 al 1848? – Questa riflessione mi fa incanutire venti peli della barba, ma in ogni modo mi conforta, e mi infonde lena al lavoro.

Aduniamo le nostre reminiscenze – senza ordine – senza legge – come vengono. – Cosa era Milano dal 1836 al 1848? – piuttosto: qual era Milano? – A tale interpellanza, mi si affaccia il caos… Dodici anni mi si affollano intorno, urtandosi, sospingendosi, assordandomi l'orecchio di grida diverse. L'immortale questurino di Siviglia non si trovò a peggior condizione della mia, allorquando salì in casa di don Bartolo per rimettervi l'ordine. A suo tempo verificheremo le date, riordineremo i fatti, se ci sarà bisogno.

Se non m'inganno, fu nell'anno 1838 che S. M. Apostolica l'imperatore Ferdinando d'Austria venne a Milano per farsi incoronare Re d'Italia. A quell'epoca, per ricordare l'augusto, si diceva generalmente: il nostro imperatore, taluni, più ingenui: il nostro buon imperatore – Molti nobili lombardi si recavano ad onore di vestire la divisa di uffiziali tedeschi… C'erano, all'entrata di S. M., delle guardie italiane sfolgoranti d'oro e di perle… una meraviglia di splendore, di pompa, di beatitudine generale. Non ricordo se il cholera ci abbia fatto la sua prima visita, innanzi, o dopo l'incoronazione di Ferdinando. Il perfido morbo si diè a conoscere verso quell'epoca, ed anche allora si rinnovarono scene atroci e balorde, non molto dissimili da quelle che il Manzoni descrisse nel suo sublime romanzo. Il popolaccio è sempre uguale in ogni tempo – è sempre la gran bestia.

Di politica nessuno fiatava. – Le contrade erano illuminate da lampade ad olio, e i riverberi delle fiamme acciecavano affatto il passeggiero. – I Milanesi menavano gran vanto della loro pulitezza; e i marciapiedi, frattanto, erano attraversati da rigagnoli che non sentivano di muschio. La cattedrale, ammirata dagli stranieri, serviva da pisciatoio ai più civilizzati, i quali, per maggior vilipendio dell'edificio, erano in buon numero. – La città si svegliava verso le undici del mattino; i veri lions non apparivano in pubblico che alla una dopo mezzodì. – Si incontravano al Corso dei giovanotti di sedici ed anco di diciotto anni, vestiti colla giacchettina corta, profilata alle natiche, accompagnati dal tutore o dal pedagogo, il quale ordinariamente era prete. Il cappello a cilindro torreggiava sulla testa degli eleganti a porta Renza ed ai pubblici giardini; ma c'era pericolo ad affrontare, con quel simbolo in testa, i terraggi di porta Ticinese e i rioni di porta Comasina. – Quando al Corso passavano in cocchio l'arcivescovo o il vicerè, non c'era alcuno che non levasse il cappello. L'arcivescovo era tedesco e si chiamava Carlo Gaetano conte di Gaisruk; il vicerè si firmava Rainieri. Nel 1840, i figli di quest'ultimo, due figuri lunghi e rasi sotto la nuca, venivano salutati al corso con qualche affettazione di rispetto e berteggiati dietro le spalle a voce bassa. – Gli uffiziali austriaci portavano l'abito borghese. – Il governatore, il conte Pachta, il Torresani, il Bolza, godevano di una autorità illimitata. – C'era un casino di Nobili e un casino di Negozianti, rivaleggianti di supremazia.

L'aristocrazia e il commercio si guardavano biecamente. I giovanotti di buon genere si ubbriacavano di Porto e di Madera, e da ultimo si suicidavano coll'absinzio. Questa atroce bevanda si introdusse a Milano verso il 1840. – La moda dei mustacchi e della barba completa incontrava degli oppositori pertinaci e accaniti. Molti padri di famiglia tenevano il broncio ai figliuoli od ai nipoti per una leggiera insubordinazione di peli. Due fratelli Clerici rappresentavano le più belle e più complete barbe di Milano. I vecchi, gl'impiegati, e in generale, tutti i così detti uomini seri, si radevano scrupolosamente dal naso al gozzo. Gli studenti che portassero barba o mustacchi rischiavano compromettere il loro avvenire; ordinariamente venivano rinviati dall'esame, od anche eliminati dalla scuola.

Tre quarti della popolazione non conosceva altro mondo, fuori di quello rinchiuso entro il circuito dei bastioni. La attivazione della ferrovia fra Monza e Milano fu un avvenimento colossale, che parve prodigio. Si udivano dei vecchi esclamare: Ora che ho veduto questa meraviglia, sono contento di morire! e parecchi morirono infatti. L'apertura del caffè Gnocchi in Galleria De Cristoforis inspirava due lunghi articoli alla Gazzetta di Milano; quasi altrettanto rumore levò l'apertura del caffè dei Servi, e più tardi l'inaugurazione della bottiglieria di San Carlo.

I Café-restaurants non esistevano prima del 1840 – nel 1847 si contavano sulle dita. La colazione di lusso consisteva in un caffè e panera con due chiffer o pannini alla francese. – Questa lauta colazione costava otto soldi di Milano. Non era permesso fumare in alcun luogo pubblico, e, innanzi al 1844, erano guardati di mal occhio e tacciati di malcreanza i pochi scioperati che osavano inoltrarsi, collo zigaro in bocca, sui bastioni di porta Renza, o dentro i pubblici giardini durante il trattenimento della banda. Le signore, all'appressarsi di uno zigaro, fingevano il deliquio: alla vista di una pipa inorridivano del pari il gracile e il forte sesso.

In materia culinaria, l'istinto pubblico tendeva al grasso e al pesante.

Gli Ambrosiani non avevano ancora degenerato al punto da proscrivere il cervelaa dal risotto. Il buon vino, il vino corroborante e stomatico doveva innanzi tutto essere un liquido opaco. Si mangiava eccessivamente ad ogni ricorrenza di solennità ecclesiastica: nel resto dell'anno una parte del popolo digiunava per compenso. Questo popolo non aveva giornali, nè libri – la sua letteratura erano le bosinate – la sua politica si riassumeva nel motto: Viva nun e porchi i sciori! – Porta Comasina e porta Ticinese si detestavano: esistevano, dentro i bastioni, antagonismi feroci, come fuori, tra villaggio e villaggio. A porta Ticinese, verso l'imbrunire, una persona civilmente vestita rischiava la fine di santo Stefano.

La Gazzetta di Milano, il solo foglio che trattasse estesamente la politica, usciva in formato modestissimo, e il suo primo articolo verteva ordinariamente sulle questioni della China. Al compleanno ed al giorno onomastico di S. M. l'imperatore d'Austria, il foglio usciva stampato a caratteri d'oro e tutto ornato di rabeschi. In quelle ricorrenze, la boemia dei poetastri gracidava dalla Gazzetta i suoi inni pindarici. I poeti e i letterati, meno qualche eccezione, passavano per spie.

La calunnia non rispettava le grandi intelligenze, e imperversava sulla turba degli scribacchiatori. Qualunque letterato non avesse una posizione determinata, qualunque non fosse in grado di esporre al pubblico il bilancio attivo e passivo delle proprie finanze, cadeva in sospetto di agente dell'Austria. A Milano, come si vede, gli uomini di lettere furono in ogni tempo assai corteggiati dall'opinione pubblica.

Il Pirata, foglio teatrale del dottor Francesco Regli, era letto avidamente. Luigi Romani istituiva il Figaro; Pietro Cominazzi la Fama che esiste tuttora; il signor Pezzi dettava critiche letterarie e teatrali nel Glissons; c'era un Bazar diretto dal Boniotti. Da Torino giungeva fin qui il Messaggere torinese diretto dal Brofferio; Firenze, più tardi, ci mandava una Rivista redatta dal Montazio. In fatto di letteratura periodica non si andava più in là. – Erano, per la massima parte, fogli teatrali, ma in allora il teatro costituiva la massima preoccupazione della società colta; epperò il Pirata, il Figaro e la Fama erano aspettati avidamente e letti da quanti sapevano leggere.

Il caffè del Duomo, emporio di letteratura e di letterati, offriva anche il Politecnico e la Rivista europea, il Débats, la Rivista piemontese, l'Allgemeine ed altri pochi periodici provenienti dall'estero. Nei principali caffè di Milano, all'infuori della Gazzetta e del Pirata, nessun foglio stampato. I pedanti muovevano guerra al Manzoni, e stampavano libelli da fare raccapriccio. Tommaso Grossi, aggredito accanitamente dalla critica pe' suoi Lombardi, abbandonava iracondo il campo delle lettere per rifugiarsi nel notariato.

La satira inferociva coi grandi. Tutte le ire, le contumelie, le calunnie che oggidì si disfogano nella lotta politica, si addensavano allora sulle teste dei poeti e degli artisti, e su quelle andavano a rovesciarsi furiose e mortifere. E la storia del passato, sarà la storia dell'avvenire. Esisterà sempre una lega di inetti, di mediocri e di impotenti per combattere le intelligenze superiori, per contristare la esistenza di chi opera ed emerge.

Si mangiava a buon patto, e un vino detestabile si smaltiva dai brugnoni per otto, per sei soldi al boccale. All'osteria della Foppa, si pranzava al prezzo di una lira austriaca. Quel pranzo si componeva di tre piatti, minestra, vino, giardinetto. Nell'osteria ed anco negli alberghi di lusso, la mensa era rischiarata da candele di sego. Ad ogni mutamento di piatto, il piccolo andava in giro collo smoccolatoio – la fuliggine pioveva nelle zuppe.

I secchi dei lattivendoli giravano scoperti nelle vie, o solo coperti da uno strato di mosche. In ogni via aprivasi un macello; i suini e i vitelli, trascinati brutalmente sui carri, intronavano dei loro gemiti le vie. – I monsignori del Duomo si distinguevano per la rotondità dell'addome; gli altri ministri del culto, meno qualche professore damerino, facevano gara di collaretti bisunti. Della decenza pubblica si teneva poco conto. Mentre i fianchi del Duomo venivano liberamente usufruttati per sfogo di una secrezione meno pura; presso gli scalini, in sul far della notte, si davano convegno barattieri e ruffiani d'ogni specie, i quali, senza scrupolo di sorta, offrivano ai passanti la merce proibita. Nel centro della città, a poca distanza dalla cattedrale, esistevano case di vizio. A tutte le ore del giorno, le più sozze femminaccie scendevano in sulla porta, o affacciavansi alle finestre, e colla voce e con gesti laidissimi invitavano a salire. Ai veglioni della Canobbiana del Carcano, ebbrezza e dissolutezza inenarrabili. In una notte di sabbato grasso, al teatro Fiando, si dovette sospendere il veglione, e i poliziotti fecero sgombrare la sala, perchè i cavalieri danzanti s'erano spogliati infino alla camicia.

Risaliamo alle regioni elevate. Marchesi godeva fama di scultore eminentissimo; Havez dominava nella pittura storica: Canella e Bisi nel paesaggio; Sabbatelli era insuperabile negli affreschi, Molteni era chiamato l'imperatore dei ritrattisti, Sanquirico, scenografo della Scala e cavaliere di più ordini, riceveva, con alterezza principesca principi visitatori. Rossini, Bellini e Donizetti fornivano il repertorio musicale ai grandi e piccoli teatri. Piacevano due o tre opere di Mercadante. Pacini, già quasi obliato, nel 1842 riviveva glorioso colla Saffo. Alla Scala si rappresentavano con successo i Falsi Monetari del Rossi, lo Scaramuccia e la Chiara del Ricci, il Furioso di Donizetti, il Buontempone del Mandanici, tutte opere in oggi obliate o dannate al ludibrio dei piccoli teatri. La Malibran era morta, la Pasta abbandonava la scena; Rubini, Lablache, Tamburini, Galli e gli altri creatori illustri delle opere di Rossini e di Bellini, emigravano all'estero per cogliere paghe favolose nei teatri di Londra e di Parigi. Salvi, Moriani, Ronconi, la Tadolini, la Strepponi, la Schoberlechner, Poggi, la Frezzolini, Guasco, Debassini, Ferri, aprivano, con altri pochi valenti, l'epoca nuova. Fervide, accanite polemiche suscitavano la Cerrito e la Taglioni; una pantofola della Cerrito era pagata duecento franchi. La Elssler, apparsa più tardi, faceva obliare le due antagoniste avventurate; il pitale della Elssler fu comperato da un fanatico al prezzo di lire seicento. – Nella quaresima del 1842, coll'opera il Nabucco, si palesava un nuovo atleta dell'arte musicale, il maestro Giuseppe Verdi. Tutti i dotti si scatenarono atrocemente contro lui, ma il pubblico non tardava un istante a rendergli omaggio. Gustavo Modena recitava al Lentasio la Zaira, il Luigi XI, l'Oreste, il Filippo, e di là passava al Carcano ed al Re, dove la sua forte e poetica declamazione produceva insoliti effetti.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 eylül 2017
Hacim:
380 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain

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