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Kitabı oku: «Racconti politici», sayfa 6

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VI

Vi è qualche cosa di magnetico nel nome di Garibaldi, come nella sua figura e nel suono della sua voce. La sua biografia si smarrisce nell'ideale come quella di tutti i profeti, di tutti i martiri della umanità. Delle sue gesta di Montevideo il popolo ignora i particolari, ma appunto da questo mistero che le involge quelle gesta assumono un carattere sovrumano. È accreditata la voce che Garibaldi in quelle remote regioni venisse orribilmente torturato dai nemici della libertà. Nelle tradizioni misteriose del popolo, Garibaldi apparisce vincolato all'albero di una nave come il Cristo alla colonna. Quando l'uomo delle Americhe apparve per la prima volta a Milano nel 1848, colla sua chioma raffaellesca, col suo sguardo fiammeggiante e soave, colla sua barba rossigna e flessibile, col prestigio di una virilità fiorente, colla sua tunica rossa e il fazzoletto a tracolla, egli parve il Nazareno risorto, il Cristo delle battaglie. L'apparizione fu breve, ma i tratti di quell'uomo si stamparono in tutti i cuori. Dopo i disastri d'Italia, Garibaldi dovette eclissarsi – pure le sue nobili sembianze rimasero scolpite nella mente del popolo come un simbolo di riscossa e di libero avvenire.

Che avvenne di Garibaldi dopo la sua ritirata da Roma? Dove si è recato? Quali furono le sue gesta?

Per circa dieci anni, l'eroe leggendario fu ancora travolto dal mistero. Un episodio lugubre, la morte di Anita, fu ripetuto sommessamente nei crocchi del popolo, il quale, tutto in massa, condivise i dolori del suo idolo. Milioni di cuori portarono il lutto per una donna, milioni di cuori giurarono vendicare una morte. – Di Garibaldi si disse: egli va errando sull'oceano, egli spazia fra le libere onde, aspettando il gran giorno della rivincita. Per dieci anni alla fantasia degli italiani umiliati ed oppressi l'intrepido difensore di Roma si dipinse errabondo e pensoso sovra una piccola prora agitata dai flutti. – La prima bandiera tricolore che ebbe a sventolare sulle alture lombarde nel 1859 fu piantata da Garibaldi. Pei Lombardi egli fu il Cristo risorto che viene a portare la buona novella! Le vittorie di San Fermo e di Palermo fecero stupire l'Europa – la disfatta di Aspromonte rattristò tutti i cuori liberali – l'eroe ferito al tallone ricordò l'Achille fatato, e il sangue che grondò dalla piaga rese venerabile l'ignorato promontorio siccome un nuovo Calvario. Tutti i partiti politici guardano riverenti a quella sublime figura. I despoti lo rispettano ed ammirano – i potenti gli invidiano la popolarità – i deboli e gli oppressi sentono che, lui vivo, la loro causa non è perduta. Dovremo noi aggiungere che le donne adorano in lui l'ideale della energia e della dolcezza, che le madri gli affidano la vita dei loro più cari con uno slancio di fiducia che tocca la passione? – Divinizzare una creatura umana è peccato di fanatismo, un peccato che molto spesso viene a scontarsi con amare delusioni. Ma quando il fanatismo si estende all'universo, quando un uomo diviene il simbolo di una idea, e come tale può rendersi adorato da tutti i suoi contemporanei, convien credere che questo uomo riunisca in sè medesimo tali doti da apparire colossale e quasi sovraumano. Se Garibaldi non è un colosso, è d'uopo confessare che a di lui confronto la società attuale è pigmea.

VII

La notizia era vera. Garibaldi, partito il giorno innanzi da Caprera, si recava nelle provincie lombarde ad ispezionare i suoi volontari e ad assumerne il comando.

All'indomani, verso le ore due, una folla considerevole traeva alla stazione della ferrovia. Quella popolazione scettica e letargica si era improvvisamente scossa. Nelle fisonomie brillava la luce. I fanciulli e le donne – questa eletta porzione della società che è la più ingenua e la più impressionabile – rivelavano nell'incesso, nel movimento concitato della persona, un immenso tripudio. Il popolo scamiciato, il popolo vestito di velluto si arrampicava sulle muraglie, invadeva i capitelli delle colonne. C'erano dei nani che parevano giganti, dei giganti che parevano pigmei. Quella moltitudine che si era precipitata nella sala di aspetto, che si era distesa per oltre mezzo miglio lungo il margine della ferrovia, all'approssimarsi dell'ora desiderata divenne immobile e muta. Quegli ultimi minuti di aspettazione parvero secoli.

Non mai il fischio di una locomotiva parlò più eloquente alla folla. Tutti i volti impallidirono. I fanciulli giunsero le mani – qualcuno cadde in ginocchio e fece il segno della croce.

Al silenzio, all'immobilità successe un uragano di grida, una agitazione indescrivibile. Il convoglio aveva rallentata la corsa, e tutti gli sguardi si erano pasciuti di una sublime visione. Garibaldi avea reso il saluto alla folla e ciascuno si era vivificato.

Prima ancora che il convoglio si arrestasse, i più enfatici erano saliti sui gradini e sui tetti delle carrozze. Il vagone occupato da Garibaldi e da' suoi intimi fu preso d'assalto con impeto formidabile.

– Silenzio! gridavano mille voci; lasciatelo parlar lui!.. Sentiamo cosa dice lui… Ma altre migliaia di voci non cessavano di urlare a tutta possa: «viva Garibaldi! viva l'Italia! viva la guerra!»

A un tratto la fisonomia di Garibaldi da ilare e benigna divenne radiante. I suoi occhi parevano salutare al di là della folla qualche persona amica e desiderata.

In un lampo tutte le teste si volsero.

– Fate largo! fate largo! tuonò il generale levandosi in piedi – ecco qualcuno che non perde il suo tempo in vane dimostrazioni… No: non è tempo di parole codesto!.. l'Italia domanda soldati e carabine!

Tre giovani in camicia rossa si apersero il varco attraverso a quella immensa barricata di popolo, e animati dal sorriso e dalla voce del generale che loro stendeva le braccia come a fratelli, si lanciarono nella sua carrozza.

Quasi al medesimo punto la campanella diede il segnale della partenza e il convoglio fra un uragano di viva uscì trionfalmente dalla stazione ed indi a poco disparve.

Quei tre giovani, apparsi inaspettatamente a completare la solennità e l'entusiasmo di un istante, divennero il soggetto di tutti i discorsi.

Chi erano? Nessuno li aveva riconosciuti. La camicia rossa aveva abbagliato gli sguardi. I meglio informati sostenevano che erano tre faccie forestiere; altri invece, affidandosi alle ipotesi, profferivano dei nomi e inventavano delle favole assurde; ma l'episodio dei tre garibaldini non cessava per questo di rappresentare un enigma.

VIII

Com'era da prevedersi, quella straordinaria effervescenza di popolo tornò propizia alla attrice che in quella sera dava in teatro la sua serata di benefizio. Il nuovo dramma La partenza dei volontarii, ritraeva dagli avvenimenti del giorno un'interesse di attualità quale l'autore ed i comici erano lungi dall'aspettarsi.

Allo schiudersi delle porte il teatro fu invaso dalla folla. La platea, le gallerie, il loggione traboccarono di spettatori. L'intera città si era travasata in quell'angusto recinto.

Eugenio Lanfranchi, l'autore della commedia, passeggiava fra le quinte collo sgomento nell'anima. S'egli avesse preveduto quel formidabile concorso di spettatori e di giudici, non avrebbe osato sfidarlo.

Gli pareva che in paragone degli avvenimenti reali il suo dramma fosse una frivola e sbiadita parodia. Le forti commozioni da lui provate al cospetto di Garibaldi, alla vista dei tre sconosciuti che si erano slanciati nella carrozza dell'eroe per seguirlo sui campi di battaglia, gli rinfacciavano la pochezza delle sue espansioni drammatiche. Due giorni innanzi egli temeva di aver esagerato le tinte; ed ora vedeva impallidire i colori e smarrirsi i contorni de' suoi personaggi. – Quale orribile fiasco! pensava egli misurando la scena a passo concitato – darei due anni del mio stipendio, perchè la rappresentazione non avesse luogo!

Frattanto gli attori attraversavano il palco scenico per recarsi ai loro camerini. Al di là del sipario la platea muggiva sordamente siccome un oceano in tempesta.

Lo spettacolo doveva incominciare alle otto, e nondimeno alle ore sette e mezzo il pubblico imperversava di schiamazzi. Ciò accade quasi sempre nei teatri eccessivamente affollati. La insolita agitazione degli animi questa volta irritava le impazienze, produceva un parossismo.

Si accendono i lumi – i professori di orchestra seggono ai loro posti innanzi tempo, e tentano, accordando gli istrumenti, di ammansare la belva-pubblico. – L'ispettore della questura va sul palco scenico per ottenere si anticipi la rappresentazione. Il buttafuori fa osservare che mancano dieci minuti all'ora convenuta – nondimeno egli dà il segnale ai suonatori, e frattanto percorre i camerini per avvertire gli artisti che si tengano pronti.

Ai primi suoni dell'orchestra, – parecchie voci gridano: silenzio! – la platea si rimette in calma, non pochi sembrano disposti a prestare attenzione alla musica… – La sinfonia è troppo lunga… Basta! Avanti! Fuori! urlano ad un tratto diverse voci. – L'uffiziale di questura abbandona per la seconda volta la sua sedia e ritorna sul palco scenico per sollecitare gli attori.

L'orchestra, o bene o male, ha finito il suo pezzo, e i professori deponendo gli istrumenti, lanciano sotto voce mille imprecazioni sul rispettabile pubblico. Questi, che al cessare della musica non vede alzarsi il sipario, riprende con maggior veemenza le proteste. I piedi, le mani, i bastoni, gli ombrelli, tutto serve a far chiasso. Gli uomini d'ordine si provano a reprimere lo schiamazzo con dei sibili impotenti. Ma ogni pretesto di ritardo compatibile, viene a cessare… L'orologio ha segnato le otto ore… la sfera non si arresta… Uno… due… tre minuti… l'edifizio sta per crollare… Il sipario si agita… Che vorrà dire?.. Qualche accidente impreveduto? Qualche malattia?.. La curiosità, l'impazienza toccano il colmo… La benemerita arma dei carabinieri si prepara a sedare un tumulto…

Ecco finalmente qualcuno che potrà appagare la curiosità pubblica se non placare l'agitazione. – Un uomo di circa sessant'anni si è presentato al proscenio come una vittima che viene spontanea ad immolarsi. È il direttore della compagnia. I suoi capelli sono scomposti come la sua cravatta, gli occhi stralunati, le guancie coperte di pallore. Egli serra nella mano una lettera… si inchina a destra e a sinistra e accenna di voler parlare. «Abbasso!.. dentro!.. silenzio!» Prima che cessi il baccanale trascorrono parecchi minuti.

Ma alla fine il partito dell'ordine riesce a dominare la situazione. L'intrepido capocomico ottiene di far intendere la propria voce e comincia a parlare in tal guisa:

«Inclito pubblico… rispettabile guarnigione… cioè… mi inganno… io voleva dire il contrario… ma presso a poco è la medesima cosa… È avvenuto uno di quei fatti… uno di quei casi che fanno epoca nella storia del teatro e della civilizzazione europea… Nella mia lunga, e starei per dire, eterna carriera di capocomico non ricordo un avvenimento più deplorabile, e al tempo istesso più glorioso per l'arte… Io mi appello, o incliti abitatori di questa illustre… e commerciale città, mi appello al vostro specchiato buon senso come al vostro inalterabile patriotismo. Voi sapete che nel corso di queste brevi ma fortunate rappresentazioni per parte nostra, non vennero risparmiate spese e fatiche… onde appagare le legittime esigenze di un pubblico intelligente e benevolo. Noi toccavamo felicemente la riva… noi sbarcavamo gloriosamente in quel porto, donde un capocomico, simile al naufrago dell'immortale Alighieri,

 
Si volge all'acqua perigliosa e guata…
 

«Per chiudere le nostre rappresentazioni luminosamente, avevamo allestito un grandioso dramma di circostanza, scritto, come più volte fu ripetuto nei pubblici avvisi, da un attore troppo modesto per rivelare il proprio nome, ma troppo famoso in questa ed in altre città d'Italia per rimanere ignorato. – Voi siete accorsi al triplice appello dell'autore concittadino, dell'umile attrice benefiziata, e diremo anche del vostro illuminato patriotismo. Voi avete con urbane ma abbastanza sensibili dimostrazioni palesata la vostra impazienza. – Ed ora… che direte voi… nell'udire ciò che purtroppo io sono costretto ad annunziarvi? Quale sarà la vostra sorpresa… e fors'anche il vostro giusto risentimento allorquando mi udirete annunziare che la rappresentazione non può aver luogo, per questa semplice e durissima circostanza che i tre principali attori giovani della compagnia erano quegli stessi che oggi, vestiti della gloriosa camicia garibaldina, si sono slanciati nella carrozza del leone di Caprera per combattere con lui le supreme battaglie della indipendenza italiana…?..»

Il pubblico, che ascoltando diffidente ed iroso la lunga tirata del capocomico, più volte si era permesso di interromperla con grida poco benevoli, rimase profondamente colpito dalla inaspettata conclusione. Un silenzio solenne successe improvvisamente alla sorda agitazione. Le parole del capocomico non solo scioglievano l'enigma della giornata, ma proponevano un nobile esempio. I generosi istinti della moltitudine furono scossi da quell'annunzio. Tutti obliarono lo scopo pel quale erano venuti in teatro; tutte le aspirazioni si portarono sovra un altro campo.

I tre attori che avevano seguito Garibaldi erano un avvenimento reale, un avvenimento che sorpassava l'interesse di una rappresentazione drammatica, che trascinava le menti ed i cuori in un realismo più elevato e più poetico di qualsiasi finzione ideale.

Il capocomico indovinò immediatamente il pensiero del pubblico – e profittando di quel silenzio solenne, riprese a parlare con maggiore naturalezza di linguaggio.

«Per mostrarvi che non vi fu da parte nostra verun inganno o soperchieria, io vi leggerò, o signori, la lettera che ci venne recata pochi minuti sono – la lettera di quei disgraziati… e diciamolo pure… generosi figli dell'arte!»

Il capocomico spiegò il foglio e proseguì leggendo:

«Cari colleghi:

«Al momento in cui riceverete questo foglio, noi saremo a Como, sdraiati probabilmente sulla paglia della caserma. La persona a cui affidiamo la presente è incaricata di consegnarla alle ore otto precise, al punto in cui sarà per aver principio la rappresentazione. Abbiamo promesso La partenza dei volontari, e nessuno vorrà accusarci di aver mancato di parola. – Noi siamo partiti! – L'autore del nuovo dramma si era proposto di spronare i suoi concittadini ad accorrere sotto le bandiere di Garibaldi – orbene: noi crediamo che il nostro esempio gioverà meglio allo scopo. Noi abbiamo profittato delle camicie rosse che dovevano servire alla rappresentazione. Badate che c'è penuria di camicie rosse: quelle che ancora vi rimangono io vi consiglio di donarle ai giovani di buona volontà. Noi vi permettiamo di leggere in pubblico la nostra lettera. Dessa servirà a discolparvi. Noi conosciamo i cittadini di… Vedrete che gli spettatori, in luogo di esigere la restituzione del biglietto, proclameranno ad una voce di destinare l'introito della serata a benefizio della Commissione per le camicie rosse. Salute a voi, diletti colleghi, salute ai patriottici abitanti di… Viva l'Italia! Viva Garibaldi! Viva la camicia rossa!

«Vostri affezionatissimi fratelli
«Simonelli – Viscardini – Rizzi.»

All'ultime parole della lettera rispose un uragano di grida che fece impallidire il capocomico. – Gli spettatori della platea salirono sulle panche agitando i cappelli e i bastoni – tutti i fazzoletti sventolarono dai palchi e dalle gallerie – i professori dell'orchestra per impulso istintivo ripresero i loro stromenti, e si diedero a suonare con lena da invasati l'inno di Garibaldi.

Vi sono delle commozioni popolari che nessuna penna può descrivere – e noi, per parte nostra, rinunziamo ad esprimere quell'entusiasmo collettivo, del quale ogni singolo episodio fornirebbe un poema.

Il capocomico non trovava la via per andarsene dal proscenio. Egli si inchinava, piangeva, rideva, e da ultimo era rimasto impietrito colle mani in saccoccia.

IX

– Presto! una camicia rossa! – gridava un giovane pallido e scarno aggirandosi fra le quinte.

– Carlo!.. tu qui!.. esclamò Eugenio Lanfranchi, muovendo incontro all'amico.

– Non si perda un istante… Io ho contato sulla tua parola, e vengo a reclamare la mia camicia rossa prima che il palco scenico sia invaso.

La prima donna che era presente a quel breve dialogo, corse nel camerino e ne uscì poco dopo con due camicie rosse, che offerse ai due giovani.

– Andate! – disse l'attrice ad Eugenio Lanfranchi – è forse il primo caso in cui un autore drammatico debba supplire la prima donna… Io vi presto di cuore il mio vestiario – voi me lo renderete dopo la recita.

– Non oso promettervi di riportarvelo intatto, rispose Eugenio sorridendo.

E i due giovani si presero ciascuno una camicia rossa, e stretta la mano dell'attrice, uscirono dal teatro per la scala riservata agli artisti.

X

Qual mutamento di scena dopo quella giornata!

La città di… in proporzione de' suoi abitanti è forse quella che ha fornito a Garibaldi il maggiore contingente di volontari.

Un giorno, un'ora di entusiasmo basta talvolta a trasformare un'intera popolazione, a convertire un popolo scettico e sonnolento in una falange di eroi!

EPILOGO

I

Le vallate del Tirolo erano rigide e buie in quella notte. Delle nuvole opache pesavano sulle creste dei monti, immenso e cupo velario fra il cielo e la terra, fra i tripudii del firmamento e gli atroci conflitti degli uomini.

È una orribile cosa la guerra – ma pure, ove si consideri che la lotta è il principio che governa tutti gli atomi della creazione, bisogna credere che anche le battaglie e le carnificine della specie umana rappresentino una necessità dell'ordine universale. Chiniamo il capo alle leggi immutabili di chi ha creato questo immenso mistero che ci avvolge e ci trascina. È scritto nella Bibbia che Iddio si pentì una volta di aver creato l'uomo. Per quanto ripugni ammettere il pentimento in un Essere non soggetto a fallire, pure, al cospetto di un campo di battaglia, in faccia a questo sanguinoso risultato delle passioni e dei pregiudizii umani, non sembra del tutto inverosimile che Iddio debba inorridire di noi se non pentirsi di averci creati. Tutto ciò sia detto senza la menoma presunzione di indagare i segreti o di accusare gli intendimenti della Provvidenza.

Nulla uguaglia l'orrore di un campo, dove le belve umane si sono urtate a migliaia coi loro istromenti di eccidio. Lo splendore delle immagini e l'armoniosa cadenza del verso rendono accette le sublimi epopee di Omero, di Virgilio e del Tasso. Lo spirito umano sembra elevarsi nel percorrere le file dei combattenti colla scorta di un enfatico ed ispirato poeta. Quelle falangi, che si gettano l'una contro l'altra per sterminarsi, ci riempiono di ammirazione. Nel poema, nel libro, noi non vediamo che dei giganti e degli eroi. – Portatevi sul campo, nella notte che succede alla battaglia di San Martino o di Custoza – e urtando nei cadaveri, respirando il singulto dei morenti, palpando le viscere de' fratelli nuotanti nel sangue, la vostra esaltazione verrà meno. I vostri nervi si incresperanno, i capelli vi si drizzeranno sulla fronte. Inorridirete di appartenere alla razza umana; maledirete il giorno in cui, poeti, dettaste delle energiche rime per spingere alla morte tanta giovinezza di fratelli, il giorno in cui il vostro inno clamoroso e vivace fece accorrere tante nobili vite verso la tomba.

Patria – indipendenza – libertà! Sacri nomi e sacri doveri. Nomi che domandano delle vittime, doveri che impongono sacrifizii di sangue. Non è dato a noi di eliminare questa terribile necessità della lotta brutale, nè speriamo che in un avvenire prossimo o lontano i principii della ragione e del diritto abbiano a predominare nel mondo senza violenza e senza massacri. L'umanità segue le sue fasi di trasformazione, ma gli istinti dell'uomo non mutano. Pure, mentre riconosciamo necessario e provvidenziale questo istinto che ci obbliga alla vicendevole distruzione, permetteteci almeno di deplorarlo e di esecrarlo al cospetto di mille cadaveri squarciati che nuotano nel sangue.