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Kitabı oku: «La Carbonaria», sayfa 2

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SCENA IV

Pirino, Forca.

Pirino. Comporterai, o Forca, che tu e io siamo scherniti e vilipesi da un furfante ruffianello? Diménati, risvégliati, dimostra che sei vivo e non dormi: ove è l’ingegno, ove sono le tue grandezze, ove i tuoi gran fatti che fur tutti prigionieri delle tue astuzie?

Forca. Molte girandole mi vanno per la testa: mi stillo il cervello e ordisco gran matasse, ma non mi sono ancor rissoluto ad alcun partito.

Pirino. Aiutami.

Forca. Mi uccidete.

Pirino. Il breve termine che Mangone ha dato a Melitea di gir al dottore, è il termine della mia vita: intanto io sto nel mezzo delle fiamme ardenti. Rispondemi.

Forca. Io sono cosí internato ne’ pensieri, che sono fuora di me: il desidero piú di voi per vendicarmi di quel manigoldo. Penso e ripenso, e tuttavia non mi riesce nel cervello. Ma quel non aver danari mi fa venir il sudor della morte.

Pirino. Se avessimo danari, non sarebbono necessari gli inganni.

Forca. Io non dico cinquecento scudi, ma alcuni dinari maneschi per spendere e intricare. Ditemi, sète voi deliberato di averla?

Pirino. Sí.

Forca. Per ogni via?

Pirino. Sí.

Forca. E non lasciar l’impresa?

Pirino. Lascieranno piú tosto i cieli di muoversi, il sol di splendere, mancherá l’aria, si risolverá il mondo, che possa lasciar Melitea. L’amor nostro è invecchiato, non può scordarsi: ella è cosí tenacemente scolpita nel mio core, che tanto sarebbe levarmela dal core quanto svellerne l’istesso core.

Forca. Orsú, poiché il vostro cuore è fondato piú tosto in maturo consiglio che in leggiera volontá, che come fusse indebolita si risolverebbe in nulla, mano a’ fatti, animo da imperadore: risoluzione, animo e danari fanno tutte l’imprese e sono il nervo e l’anima de’ negozi.

Pirino. Se mai verrò al frutto dell’amor mio, beato te.

Forca. Almeno ne guadagnasse le scorze di quel frutto che sarebbe una veste.

Pirino. Altro che veste arai. Una buona somma di danari.

Forca. Pur che non si risolva in qualche buona somma di bastonate. Ma ditemi, come state in credito con li banchi?

Pirino. Benissimo: tutti credono che non ho un quatrino.

Forca. Bisogna dunque farvi una poliza falsa.

Pirino. Troppo pericolo: ci va la vita.

Forca. Non si può aver il mèle senza le mosche, né si ponno far le grandi imprese senza pericoli; e quando si vuol far un gran fatto, non bisogna nominar pericoli, perché l’animo si raffredda e si fa pauroso. Bisogna por mano a cambi, interessi, scrocchi, usure e rubberie.

Pirino. Chi me li dará, se non è sensal ne’ banchi che non m’abbia in lista; e quando mi sentono nominare: «O che ditta, o che mercadante da tor ad occhi chiusi!». Poi, non sai che è fatta una pragmatica, che non si dia robba in credito a figli di famiglia?

Forca. Dunque questa pragmatica vieta ancora a me, che non t’abbi credito di quella somma di danari che m’hai promessa. Cerchiamola in presto da alcun amico.

Pirino. Cercali tu da parte mia.

Forca. Se non han credito a voi, come l’aranno a me?

Pirino. Come cerchi danari in presto ad un amico, subito ti risponde che non gli ha e ti diventa inimico.

Forca. Pigliamoli ad usura.

Pirino. Non mi piace.

Forca. A chi vuol dormir con l’innamorata, bisogna trovar la pecunia, padrone.

Pirino. Non è giorno che non discorra col cervello per tutti i banchi del mondo. O che cosa infelice è il non aver danari!

Forca. Massime a voi, povero di danari e ricco d’appetito.

Pirino. Non so che fare.

Forca. Anzi bisogna disfare.

Pirino. Chi vogliamo disfare?

Forca. Tuo padre. Avemo il ben in casa e lo vogliamo cercare altrove.

Pirino. Lo caricheremo di troppo peso di dolore.

Forca. Lo scaricheremo di peso di argento.

Pirino. Non sará possibil mai, perché sta tanto sospetto di noi, che, nol facendo stima che lo facciamo; poi se lo saprá, che fia di noi?

Forca. Ti fo la sicurtá con le mie spalle.

Pirino. Tu sai che in casa non mancano legne, e quando ce ne fusse carestia, abbiamo la villa vicina.

Forca. Ho buone spalle per la villa e per la casa: tra le bastonate e le mie spalle ci è una antica amicizia, un invecchiato parentado: ci ho fatto il callo, non mi son cose nuove, mi son fatte naturali.

Pirino. Come faremo che non se ne accorga?

Forca. Aprimogli il scrittorio con il grimaldello; poi, quando gli aremo gli li restituiremo.

Pirino. Buon’arte m’insegni.

Forca. Non è usanza di servi forse?

Pirino. E quando lo saprá, che faremo?

Forca. Che so io? qualche mala cosa.

Pirino. E questo è l’amor e la riverenza paterna?

Forca. E voi coricatevi la notte con questa riverenza, abbracciatevela e baciatela, e lasciate star Melitea. Questo modo è precipitoso, questo non è buono; qua ci va la conscienza, qui la riverenza: voi quello che potete, non volete, e quello che non potete, volete. Ne avete poca voglia. A dio.

Pirino. Oh, come sei colerico! stammi allegro, che ad un ammalato è gran refrigerio aver un medico allegro.

Forca. Voi sète un ammalato troppo pusillanimo e disobediente; non volete sorbir le medicine.

Pirino. Queste tue medicine son troppo violenti per lo pericolo della vita, troppo nauseabonde per l’infamia e troppo amare per l’anima: e se ben la polvere del delitto mi accieca l’occhio della ragione, pur non son tanto cieco che non conoschi l’errore.

Forca. Perdo il tempo, mi vo’ partire.

Pirino. Aspetta, férmati un poco. Ahi, traditora fortuna, a che mi conduci? Eccomi in una grandissima lite tra il padre e l’amore: il padre mi cerca la riverenza, amor non ascolta ragioni, è giudice e parte, mi spaventa con le saette e col fuoco e con la morte. Padre mio, vorrei ubbidirvi, amor non lascia dispor di me: o anima mia, bilanciata da tanti mali e agitata da tante onde di tempeste, come determinerai questa lite? Padre mio caro, abbi pazienza per questa volta: amor che vince ogni cosa, vince ancor me: perda il tutto e acquisti Melitea. Forca, ti do in mano il freno d’ogni mia volontá.

Forca. Bisogna far un inganno a vostro padre.

Pirino. Se non basta a mio padre, fallo a mia madre, fallo a me ancora.

Forca. Conosco che sète un di quei che bisogna fargli ben per forza: bisogna aver animo per me e per voi. Vi vo’ far conoscere che vaglio tanto oro quanto peso: son rissoluto d’ingannarlo.

Pirino. Come? dove? dimmi.

Forca. Non so il come né il dove: levo di qua, pono di lá; sconcia di qua, poni di lá, andrò tanto girando col cervello, che qualche cosa sará. Ma ecco tuo padre, conosco negli occhi il fuoco della còlera: scostati da me, che non ci veggia insieme.

Pirino. Starò a veder quel che fará costui: alcuna solenne astuzia gli uscirá di mano.

SCENA V

Filigenio vecchio. Forca. Pirino.

Filigenio. Fu giudicata sempre la buona educazione il fonte e l’origine degli abiti virtuosi e il fondamento delle umane felicitá, e tanto necessaria al buon vivere quanto l’anima al vivere. Perché, introducendosi a poco a poco ne’ teneri intelletti il zelo della santa religione, con quella si viene a dar l’imperio alla ragione, freno agli affetti e termine alla volontá.

Forca. (Oh, gran pedagogo sarebbe stato il mio padrone!).

Filigenio. Cosí, al contrario, la cattiva educazione è la fucina dove si fabricano gli strumenti della ruina della misera gioventú; perché, mancando per l’immatura etá la virtú moderatrice dei temerari desidèri della strabocchevol concupiscenza, corre sfrenata ad ogni precipitoso consiglio, e le buone qualitá della natura vengono atterrate e tiranneggiate da’ vizi e difetti del tempo. Ecco l’essempio in Pirino mio figliuolo: ché bisognando per alcuni miei affari partirmi di Napoli, le mie occupazioni fur cagione del suo ozio, restando in tutela di un servo ribaldissimo, furfante della cappellina, capo de tutti i furbi del mondo.

Forca. (Giá è entrato nelle mie lodi, racconta il catalogo delle mie virtú).

Filigenio. Ma a che mi affatico a dir tanto? basta che è servo. Cosí tutte quelle virtú e buone qualitá che gli erano state largamente dotate dalla natura, da cosí cattiva educazione sono state spente e atterrate. Onde poco stima Dio, manco il padre, sprezza ogni buon ricordo; e fattosi idol quel suo servo, corre precipitoso dietro a quello che gli vien additato da costui. Onde appena sono in piazza, che le genti mi sono adosso, dicendomi che Pirino sta innamorato di una puttana; e che quelle ricchezze che con tanto risparmio e lunghe fatiche sono state raunate in casa mia, vanno in essilio in casa di un ruffiano e si consumano in un viver lussurioso; e che allettato dagli artefici di costei, cerca rubbarmi cinquecento ducati per riscattarla.

Forca. (Fa’ e di’ quanto sai, ché con i tuoi dinari la riscattaremo).

Filigenio. E se non fusse che veggio persone di maggior etá e condizione, anzi di quei che governano al mondo, inviluppati in simili materie, mi dispererei; ma con l’essempio di persone cosí degne allevio gli affanni miei. Ma eccolo: Forca, Forca; mi son accorto di te ben, sí!

Forca. Vengo, padrone.

Filigenio. Come serpe all’incanto. Giá sleghi lo sacco delle bugie per vomitarmele adosso. Fa’ che a quanto ti dimando mi risponda subito, accioché non abbi tempo a pensare e colorir menzogne.

Forca. Se stimate che quanto dico sia bugia, a voi soverchio il dimandare, a me il rispondere.

Filigenio. Ben, che si fa?

Forca. Si sta in piedi, con la beretta in mano, aspettando se mi comandate alcuna cosa.

Filigenio. Dove è Pirino?

Forca. Stando qua, non posso saper dove sia.

Filigenio. Dove l’hai condotto?

Forca. Egli conduce me dietro a lui, perché li son servo.

Filigenio. Dove l’hai lasciato?

Forca. Egli ha lasciato me.

Filigenio. Parli cosí poco, come avessi a pagar la gabella delle parole. Furfante, furfante, ben sai che ci conosciamo insieme: se non mi dici il vero, farò che muti nome, e da Forca che sei diventerai un appiccato.

Forca. Se dicessi la bugia, voi lo conosceresti in aprir la bocca.

Filigenio. Quanto tempo è che mio figlio non ha visto la…?

Forca. La che?

Filigenio. Quella.

Forca. Chi quella?

Filigenio. Quella vostra…

Forca. Chi quella vostra?

Filigenio. Quella cosa vostra che voi sapete.

Forca. Ah, ah, ah: sí, sí.

Filigenio. Vedi pur che la conscienza accusatrice dell’animo tuo ti fa accertar il vero, ancorché non vogli?

Forca. La vede ogni ora, ogni momento.

Filigenio. Come ne sta innamorato?

Forca. Innamoratissimo.

Pirino. (Questo forfante par che discuopra i miei secreti).

Filigenio. E segue tuttavia la prattica?

Forca. La segue con tutto il suo studio.

Filigenio. Quando pensa lasciarla?

Forca. Quando lasciará la vita.

Filigenio. Come lo sai?

Forca. Ce l’ho inteso dir mille volte.

Filigenio. Tanto è ostinato?

Forca. Ostinatissimo.

Filigenio. Perché tu non lo togli da questo proposito?

Forca. Se non ubbidisce a voi, perché vuol ubbidir me?

Filigenio. Quando va a casa sua, che fa?

Forca. Gionto in casa sua, si butta sul letto supino, se la toglie in braccio e se la squinterna sul ventre e se l’accomoda innanzi: volta di qua, volta di lá, non la fa star mai ferma per tre o quattro ore, finché stracco non va tutto in acqua.

Pirino. (Oh, che ti cadano i denti e quella lingua traditora!).

Filigenio. E ti par questa buon’opra?

Forca. Buonissima, eccellentissima.

Filigenio. E tu sei quello che lo guidi e aiuti?

Forca. Io, quando lo vedo tiepido e disamorato, l’aguzzo l’appetito.

Filigenio. Talché tu sei il maestro.

Forca. Maestro io? signor no, è il maestro del Studio.

Filigenio. Che Studio? che signor no? Di che parli tu?

Forca. E voi di che parlate?

Filigenio. Io parlo della sua puttana.

Forca. Ah, io non pensava che voi parlaste di cose triste, ma della sua Legge; e tutto il giorno si trastulla con la sua libraria, la strapazza e se la tiene aperta innanzi.

Pirino. (O buon Forca, come l’hai ben salvata!).

Filigenio. Cosí mi burli, eh?

Forca. Io non burlo altrimente; rispondo alle vostre dimande.

Filigenio. O Dio, che avessi un bastone! ché avendo tu la pelle delle spalle piú indurita di quella degli asini, se ti do con le mani, offenderò piú me che te. O che unguento di cancheri! Traditorissimo, se non ti disponi a dirmi la veritá, proverai lo sdegno di un padron irato e schernito da te. Ti darò tante bòtte che amboduo restaremo stracchi, io di dar, tu di ricevere.

Forca. Dico il vero, a voi sta il creder quel che volete.

Filigenio. Non mi hai risposto a quello che ti dimandava. Vuoi tu negarmi che Pirino non stia innamorato di una puttana, chiamata Melitea, che l’ha in poter un ruffiano che ne chiede cinquecento ducati?

Forca. Signor no, signor sí, eh, padrone.

Filigenio. Che «signor sí», «signor no» cerchi in nasconder la veritá? ed è tanta la sua forza che a tuo dispetto ti muove la lingua a dirla.

Forca. Eh, padron mio.

Pirino. (Sta’ saldo, Forca, ché il padron non ti scalza).

Filigenio. Che padrone? mi fai del balordo; che balbezzare è il tuo?

Forca. Io non so nulla; ma… .

Filigenio. Che ma?

Forca. Direi alcuna cosa, se stessi sicuro che egli non l’avessi a sapere.

Filigenio. T’impegno la fede mia che non sará per saperlo giamai.

Forca. Dubito che voi lo scoprirete un giorno, ed egli mi salterá adosso con un bastone; e non sapete che tremo in sentirlo nominare?

Filigenio. Non dubitar, dico, ché quando io non bastassi a difenderti, sarei uomo da farti franco e mandarti via.

Pirino. (Questa bestia mi fa entrare in suspetto).

Forca. So che lo risaprá, e le spalle ne patiranno la penitenza. Ma alfin voi sète il padrone, vo’ piú per voi che per lui.

Filigenio. Cosí mi par di ragione.

Forca. Quanto avete detto, tutto è vero: che sta innamorato di una cortegiana, detta Melitea, che sta in poter di un ruffiano che l’ha venduta ad un dottore per cinquecento ducati; e però ne arrabbia di dolore.

Filigenio. Dove pensa avergli?

Forca. Rubbargli a voi come meglio potrá.

Pirino. (Ecco che fa l’affratellarsi con i servidori: pensava aver un servo fidele e ho una spia secreta di mio padre).

Filigenio. Come volete rubbarmi, se sto in cervello e mi guardo piú di voi che di tutti i ladri del mondo?

Forca. È deliberato scassar lo scrittorio, se non lo può aprir col grimaldello.

Pirino. (Merito questo e peggio. Or non sapevo io che i maggiori inimici che abbiamo sono i servidori?).

Filigenio. Ma come mi accorgeva del fatto, come andava il fatto per voi?

Forca. V’attossicavamo.

Pirino. (O Dio, che ascolto? non posso contenermi, mi risolvo lasciar il rispetto da parte, passargli questa spada per i fianchi, e accadane quel che si voglia).

Filigenio. Al suo padre questo? ahi, figli iniqui! or non dovea cosí scelerato pensiero indurgli terrore?

Forca. Ma tutto ciò è nulla: ci è di peggio assai.

Filigenio. Che ci può esser peggio?

Forca. Quel dottore è un cervello bizaro, straordinario, ha molti bravi che lo seguono, per un pelo se la torrebbe col diavolo; ne sta geloso e ha deliberato farlo ammazzare e li tiene le spie sovra.

Pirino. (Non gli basta quanto ha detto: ci vuol aggionger del suo ancora).

Filigenio. Se ben per i continui inganni che m’ave usato costui, non gli devo prestar fede, pur la vita di un figlio importa molto. Forca, tu che conosci costoro e sai questi maneggi, ricorro a te, mi pongo nelle tue mani; vorrei che rimediassi, ché non si procedesse piú oltre.

Forca. Non è cosa da ragionarsene in piazza: potrebbe egli sovragiongere e stimarebbe che il tutto fusse uscito da me, e non si potrebbe piú rimediare: vi mostrerò modo di salvarlo.

SCENA VI

Pirino. solo.

Pirino. Ah, Forca traditore, che tradimento m’hai tu fatto? farmi suspetto e reo appo mio padre! Ti arai voluto vendicare di quelle bastonate de quali poco anzi ti dolevi di me. Come arò animo di comparir piú mai dove il mio padre sia? manderò me stesso in essiglio. Perderò in uno istesso tempo il padre, la patria e l’innamorata, che è peggio assai che perder la propria vita. O come accetterei volentieri alcuna sorte di morte per liberarmi da vita cosí nemica. Uh, uh! Possa esser fatto in mille pezzi, se la scappi: vo’ morire, ma prima che muoia farò vendetta della cagion della mia morte. Mi tratterrò da qui intorno finché venghi, per passargli la spada mille volte per i fianchi.

ATTO II

SCENA I

Panfago parasito, Pirino.

Panfago. Par che questa mattina nell’uscir di casa abbia cantato la civetta, cosí ogni cosa mi va a traverso. Vo al dottore per desinar con lui, e mi dice che sta colerico, perché la sua innamorata ama altri e sta inferma. Vo in casa di un altro, e trovo la casa piena di pianto, ché vi si facea il mortorio. Fui forzato andare ad un certo che avea abbandonato, perché non avea piú succo – perché noi siamo come i pidocchi: quando non avemo piú sangue da succhiare, l’abbandoniamo; – e disse che mangiava altrove. Alla taverna non mi posso accostare, ché devo all’oste, e mi dice che ave cavato l’essecutorio, talché sto fra duo capitali inimici, la fame e l’oste: all’una non posso rimediare, all’altro non ho che dare. Pur, di lontano, ho fatto l’amor con una porchetta grassa che si rostiva; si burlava di me, perché mi mirava con certi occhi stralunati e con la lingua pendente fuori tra’ denti: ci ho lasciati gli occhi sopra, e mi ha cavato il cuor di martello, la traditora. Vommene ora a trovar Pirino; e se la speranza mi fallisce, arrabbiarò di fame.

Pirino. Misero me, qual si trova pena maggiore, che paragonandola alla mia non sia una gioia! non è misero stato che non abbia qualche speranza; sola la mia è priva d’ogni futura allegrezza.

Panfago. (Ecco a tempo chi desiava). Buon augurio, Pirino caro, amato e riverito da tutte le belle donne del mondo.

Pirino. Non merito esser burlato da te.

Panfago. Ben sai che son piú tosto avaro delle tue lodi, che prodigo in adularti. Che si fa?

Pirino. Se sta combattendo con la rabbia e con l’ira; e ne ho tanta nel petto, che bastarebbe a riempirne tutte le fère del mondo.

Panfago. Che colpa ci ho io? Volete voi con la vostra rabbia uccidere voi e me in un colpo? Se col mostrarti rabbioso e iracondo pensi che io non abbia a desinar teco, l’erri in grosso. Son gionto al porto: scacciami quanto vuoi, che la tempesta della fame mi vi riconduce.

Pirino. Troppo pungente e pien di spine è il mio cibo per ora.

Panfago. Verrò a mangiar con voi con denti calzati di buoni stivali.

Pirino. Mi pasco di veleno di vipre e di serpenti.

Panfago. Verrò con la pietra di san Paolo, o mi farò incantare da un ciurmatore. Mi negarai almeno due bicchieretti di quel tuo vino garbo?

Pirino. E che non è garbo quel che bevo, Iddio tel dica per me: la mia bevanda è di amarissime lacrime.

Panfago. Di lacrima dolcissima di Somma? Vorrei che sempre si piangesse in casa tua, e non ne mancassero mai le bótte piene di quella lacrima: ché quel color di sangue mi fa rallegrar tutto il sangue; fresco e brillante, mi fa brillare il core; ponendolo in bocca, quel suavissimo odore mi conforta il naso e il cervello e il gusto. E quando lo sento calar nel petto, porta seco un mar di piacere e un foco tacito che tutto mi riscalda. Non posso saper io la cagion della tua rabbia? sbuffi, e mordi l’ugne: hai meco alcuna cosa?

Pirino. (Non posso levarmi da dosso questa mosca canina). Se tu sapessi da quanta angoscia e tribulazione è afflitta l’anima mia, n’avessi compassione; però di giá vattene, ch’io me la torrei con le mosche. Ma ecco quel traditore!

SCENA II

Forca, Pirino, Panfago.

Forca. Fermate, padrone: che volete fare?

Pirino. Romperti la testa.

Forca. Romper la testa a chi se la rompe ogni ora per pensar trappole per vostro serviggio? fermatevi, vi dico.

Pirino. Non mi fermarò, se prima non ti arò cavato il core.

Forca. Volete cavar il cuore a chi ha cavato i danari dal cuor di vostro padre? Cancaro, io l’ho scappata bene, aiutami tu, Panfago!

Panfago. Or ora torno.

Pirino. Assassin cane, ti voglio aprire il petto!

Forca. Questo è il premio di chi ave aperto la cassa e la borsa di vostro padre, e or ve le porto?

Pirino. Che borsa? che ci è ivi dentro?

Forca. Cento scudi che son il cuor di vostro padre.

Pirino. Come ce l’hai cavati dalle mani?

Forca. Basta l’avemo, a che bisogna saper il modo?

Pirino. Che ave a far cavargli i dinari dalle mani e scoprirgli i miei secreti? non potevi dargli ad intendere alcuna altra cosa?

Forca. No, che fusse verisimile e credibile come quella, perché giá mezza la credeva, e v’era l’amor suo; e che sia vero, la riuscita ave approvato il mio consiglio.

Pirino. Che gli hai dato ad intendere?

Forca. Che per salvar voi dal pericolo del dottore bisognava pagargli cento scudi che li mancavano per lo riscatto di Melitea; e la menava seco fuor di Napoli e, come era lontana dagli occhi vostri, ve s’allontanava dal core. Se l’ha bevuta, datomi i danari e restituito voi nella sua grazia.

Pirino. Se è cosí, ho il torto.

Forca. Mille torti, non ch’uno.

Pirino. Perdonami.

Forca. Canchero! pormi a pericolo d’una perpetua galea e prepararmi un seminario continuo di buone bastonate: per sodisfare a’ vostri capricci, cado in pericolo maggiore di essere ammazzato dalla vostra furia.

Pirino. Perdonami, per amor di Dio.

Forca. Meglio sará per me che non m’impacci con i vostri amori. Poco anzi mi promettesti con giuramenti non volermi piú maltrattare, e or mi volevi uccidere: questo è altro che bastonate: sempre sète l’istesso e ogni giorno siamo al medesimo. Sará meglio per me tornare i danari al padrone.

Pirino. Perché farmi stentare a saperlo? non me lo potevi dir subito? Perdonami, fratello, fratellino mio dolce.

Forca. No, no: non mi ci correte piú: tornerò i danari a vostro padre, dirò che ho voluto scherzar seco.

Pirino. Forca mio, m’ingenocchiarò a’ tuoi piedi.

Forca. No, no: non ci è ordine piú.

Pirino. Forca, non afforcar ancor me; conosco l’errore: s’un cuor pentito merita la perdonanza, dammela. Si placa Iddio, pentendosi l’uomo; non vuoi tu placarti?

Forca. Non è cosa che piú mitighi l’animo d’un offeso, che l’umiltá del nemico; però non solo vo’ perdonarvi, ma procurar la sodisfazion di chi mi ha offeso. Vo’ esser di animo piú generoso verso voi, che voi non sète con me.

Pirino. Orsú, poiché avemo i danari, che faremo?

Forca. Dove è Panfago? ché abbiamo bisogno di lui.

Pirino. È scampato via. Ma non bisogna trattar con lui, perché è un ciarlone; ed è peccato a non esser trombetta.

Forca. È a nostro proposito, perché è astutissimo.

Pirino. Non sa far altro che spirar i fatti nostri e riferirgli al dottore.

Forca. Serve ancora a spirare i fatti del dottore e riferirgli a noi.

Pirino. Ha detto molti nostri secreti a lui.

Forca. Ha detto molti de’ suoi secreti a noi.

Pirino. È piú tristo con noi che con lui.

Forca. Ce ne guarderemo. Ma io con quattro palmi di salciccia – compráti il giovedí mattina prima ch’esca il sole, e pagandole al bottegaro quanto ne chiede, e arrostite a fuoco di legne di lauro senza parlare e con certe polveri di sopra, – ne fo un capestro, ce lo pongo in gola, e non potrá piú parlare.

Pirino. Questo secreto l’ho provato molte volte e non mi è riuscito.

Forca. Perché non sai tutte le cerimonie che vi si convengono; overo farò esperienza di una certa onzione.

Pirino. Che onzione?

Forca. Medolle di ossa di bue cotte in certi pasticci, grasso di caponi in suppa, e la domenica mattina a digiuno li ongerò la gola.

Pirino. Questi grassi lo faranno vomitar piú tosto quanto saprá di noi.

Forca. Anzi è contro il vomito, e l’ho esperimentata con voi piú volte.

Pirino. Fa’ come vuoi, non ti vo’ contrariare in questo; dimmi, che hai disegnato di fare?

Forca. Ascolta: io so far una polvere di carboni che, meschiata con olio e ongendone la faccia, la fará nera come un schiavo, d’un nero assai naturale.

Pirino. A che servono i carboni?

Forca. In simili carboni sta tutto l’inganno e la furberia: questi trarranno i danari di man di vostro padre, inganneranno Mangone e vi faranno posseder Melitea. Questa polvere la buona memoria di mio padre usava spesso ne’ suoi ladroneggi, con questa scappò mille volte da prigionia, dalla galea e dalla forca – ché era la piú reverenda persona del mondo; – io che camino per le paterne vestigia, imitator della sua virtú, me ne sono servito in molti casi importantissimi.

Pirino. Che abbiamo a far con la polvere?

Forca. Con quella polvere ti ungerò le mani e la faccia, che parerai un schiavo naturalissimo.

Pirino. Poi?

Forca. Poi pregaremo Alessandro vostro amicissimo, che preghi vostro padre, che compri da Mangone un schiavo di buon garbo, giovane di diciassette overo di diciotto anni, dell’etá tua e di Melitea che sète poco differenti di etá e di persona; e che gli ne dia quanto ne vuole per un suo disegno molto importante, e gli dia i cento scudi per caparra.

Pirino. Appresso?

Forca. Appresso vestiremo Panfago, che non è conosciuto da Mangone, da raguseo – perché avemo inteso da lui, questa mattina, che voleva andar al molo a comprar schiavi, – ché dica esser fattor del raguseo e gli venda voi per schiavo, per quello prezzo ch’egli vuole, perché vi meni a casa. Esso, perché spera guadagnarvi con Filigenio vostro padre, da cui n’è stato pregato, vi comprará sicuramente. Come sarete dentro, arete agio da trattar con Melitea: e portando con voi un cartoccino della medesima polvere, tingerete la faccia e le mani a Melitea e la vestirete delle vostre vesti; e voi lavandovi mezanamente le mani e la faccia, vi vestirete delle sue e vi chiuderete in camera.

Pirino. Che n’averrá per questo?

Forca. Verrá vostro padre per lo schiavo. Mangone, pensandosi vendere lo schiavo che ha comprato, gli venderá Melitea; e cosí vostro padre se la menará a casa. Ecco fin ora Melitea in casa vostra.

Pirino. Giá comincio ad intendere. O bello inganno! e il meglio che abbia, è che ha del verisimile e del naturale; e chi non ci restarebbe ingannato? Ma come caverai me di casa sua?

Forca. Se avete pazienza di ascoltare, lo saprete. Vo’ che quando il parasito vende lo schiavo a Mangone, gli prometta mandar un presente di cose della nave per far amicizia seco e tener ragione insieme, accioché, sempre che verrá in Napoli, gli riempia la casa di schiavi e poi partire il guadagno. Trovaremo quattro fachini giovanetti del vostro tempo, li vestiremo da bratti da navi, mezo nudi e mezo impeciati, neri, con un cesto in spalla, carichi di provature e di bariletti di vino o malvagía e cose simili; e quando verran dentro, e voi starete su l’aviso e spogliarete uno di quelli e vi vestirete de’ suoi panni e vestirete colui de’ panni di Melitea e scamparete fuora con gli altri, e il parasito e i bratti vi aiuteranno a questo. Ecco amboduo sbalzati fuora della casa del ruffiano e condotti in casa vostra: cosí il giorno l’arete nera in casa, e la notte bianca in letto, lavandole la faccia.

Pirino. Ogni cosa va bene, eccetto che come Mangone troverá quello in casa vestito de’ panni di Melitea, lo porrá in mano della giustizia, e la corda li fará confessare il furto usato da noi.

Forca. A questo ci penseremo poi; e quello che non riesce per una via, il faremo riuscir per un’altra. Ma eccola senza lambiccarmi molto il cervello. Una bugia tra l’altre. Alessandro vostro amico ha quel servo sbarbato che conduce le legna dalla villa a casa, che è sordo, muto e un pezzo di pazzo, né molto dissimile dalle vostre persone, si lascia spogliare, vestire e tingere a nostro modo; e se Mangone li domandará, non saprá che rispondergli; e perché è molto gagliardo, se sará stuzzicato, dará mazzate da cieco.

Pirino. L’inganno è pensato con tanta arte e ingegno, che come avanza tutti gli altri che sono stati per addietro fatti, cosí per l’innanzi non potrá ritrovarsene un altro simile.

Forca. Avertite che, quando la trappola è ben inventata e consertata, se vi s’usa diligenza in esseguirsi, ha buona riuscita; ma esseguita malamente, non può aver se non pessimo fine.

Pirino. Ella è tanto bene imaginata che, a dispetto di tutte le negligenze e intoppi della fortuna, ará ottimo fine; ma ancorché fusse per succederne qualche pericolo, animo grande, e succedane quel che si vuole: vada la robba, la vita e l’onore, per non dir l’anima, pur ch’abbia Melitea. Né meno sará l’allegrezza dell’acquisto di lei, che della beffa fatta a Mangone.

Forca. Or poiché cosí rissoluto l’abbiamo, pensiamo a’ mezi.

Pirino. Poiché hai mostrato tanto ingegno in questa fizione, di’ ancora i mezi de’ quali abbiamo a servirci.

Forca. Dove troveremo noi Panfago?