Kitabı oku: «La Carbonaria», sayfa 3
SCENA III
Panfago, Forca, Pirino.
Panfago. Come stai, Forca mio?
Forca. Per appicarti.
Panfago. Perché tanto male?
Forca. Perché non m’aiutavi.
Panfago. Son ito per aiutarti.
Forca. Con quel veloce córso?
Panfago. Con quel córso per darti soccorso.
Forca. Nel bisogno fuggi; dopo il pericolo vieni ad aiutarmi.
Panfago. Correa per tor armi e aiuto.
Forca. Non potevi senz’armi menar le mani?
Panfago. Non so menar le mani se non sovra i piatti.
Forca. Giurerei che hai bisogno di fregarti i polsi e le tempie di teriaca per i vermi per la paura.
Panfago. N’arei bisogno, ma non per la paura.
Forca. E di che cosa?
Panfago. Crepo della traditora fame.
Forca. Dio ti ci mantegna.
Pirino. Panfago, abbiamo bisogno di te; e se ci aiuti, te ne aremo obligo.
Panfago. Per acquistarmi la vostra grazia andrei nel fuoco.
Pirino. Se, non avendomi mai fatto servigio, la casa mia t’è stata sempre aperta, pensa che sará se ricevo da te cosí segnalato servigio.
Panfago. Ditemi, in che volete adoprarmi?
Pirino. Ma avèrti che bisogna che tu sia secreto: ci va la vita!
Panfago. Ce ne andassero mille!
Pirino. Però ti priego non farne motto ad alcuno.
Panfago. Mi fate torto a pregarmi di quello che è mio debito di fare.
Forca. Lo ci dirá, padrone.
Panfago. Perché cosí faresti tu.
Pirino. Mi vo’ fidar della tua fede, ché non manchi di fede a chi si fida nella tua fede.
Panfago. Eccovi la mia fede di osservarvi fedelmente la mia fede.
Pirino. Fa’ che non t’esca di bocca.
Panfago. Prego Iddio che non ci entri né pane né vino, mi cadano i denti, e il palato non gusti piú sapor de’ cibi, ma diventi come quello degli infermi – ché ogni cosa lor pare amara, – né la lingua assaggi e rivolga boccon per la bocca, se di ciò rivelerò mai cosa alcuna.
Forca. Per conoscer se sarai buono a quello che vogliamo servirci di te, vo’ prima essaminarti un poco.
Panfago. Ché! sei tu mio giudice?
Forca. Dimmi: come sei destro?
Panfago. Destrissimo.
Forca. Non dico ad arrobbare, io.
Panfago. Né manco dico questo, io, ma al negoziare.
Forca. Di che razza sei?
Panfago. Di giudei.
Forca. I tuoi quarti?
Panfago. L’un di birro, l’altro di boia, il terzo di cerretano.
Forca. Come sei reale?
Panfago. Come zingano.
Forca. Bene. Come sopportaresti le corna?
Panfago. Cosí sopportassi la fame!
Forca. Come le bastonate?
Panfago. Cosí cosí.
Forca. Batteresti tuo padre?
Panfago. Mia madre ancora, e s’altro se può dir peggio.
Forca. Come sei amico della veritá?
Panfago. Come il can delle sassate.
Forca. Orsú, hai dato al segno del mio vóto: sei mille volte peggio di quel che vogliamo.
Panfago. Adesso vo’ essaminar io te: che cosa ho da fare?
Forca. Finger un raguseo e vender Pirino per schiavo.
Panfago. Che pericolo ci è?
Forca. Nullo; perché non ci è cosa dove tu possa giocar di mano, e come tu non puoi rubbare, non ci è pericolo.
Panfago. Perché fingere un raguseo?
Forca. Se d’ogni cosa ti vogliamo dire il perché, non finiremo tutto oggi.
Panfago. Se volete che serva bene, bisogna che sia ben informato.
Forca. T’informaremo meglio di una scarpa. Su, finiamola.
Panfago. Non ho ancor finito di essaminarti; che avete apparecchiato da desinare?
Forca. È troppo buon’ora per desinare.
Panfago. Chi non desina a buon’ora, desina a malora.
Forca. Dico: è troppo presto.
Panfago. S’è presto a te, è tardo a me: che vuoi misurar il mio appetito dal tuo ventre?
Forca. E tu vuoi che accomodiamo il nostro ventre al tuo appetito? Fa’ prima l’effetto, ché poi mangierai.
Panfago. No no; fatta la festa non è chi spazza la sala: chi ave avuto il suo intento, non si cura piú d’altro.
Forca. E tu, come hai mangiato e bevuto stai imbriaco, ti poni a dormire, e qui bisogna star in cervello; ché una parola che non dicessi a proposito, scompigliaresti in un punto quanto s’è consertato in un anno.
Panfago. Insegni a chi sa: attendi a quello che tocca a te e lascia il pensiero a me di quello che mi tocca.
Forca. Non ti mancherá da mangiare.
Panfago. Almeno una collazionetta leggiera.
Forca. Non abbiamo bombace né penne.
Panfago. Non bevendo, non farò cosa allegramente: duo becchieretti, non piú, starò allegro, fuor di paura, mi riporrá l’anima in corpo; come ho buon vino su lo stomaco, non può contro me il malanno. Porti l’oro su’ diti, le gioie al collo, chi vuol rallegrare il core; la mia teriace e il mio allegracore è il vino.
Forca. Mangierai e beverai assai bene.
Panfago. Chi me n’assicura?
Forca. Stanne sopra di me.
Panfago. Tu non sei buono a star sopra né sotto: dico che bisogna bere.
Pirino. Panfago, per dirti il vero sto col pensiero cosí su l’effetto, che se mangiassi prima, non mangiarai boccone che sapesse del suo sapore; se hai fretta di mangiare, affréttati alla promessa.
Panfago. Avertite che, se non mangio ben poi, scoprirò ogni cosa.
Pirino. Fa’ quanto sai di peggio.
Panfago. Orsú, che tardiamo?
Pirino. Forca, spediamola, ch’ogni picciolo indugio me par una gran lunghezza di tempo.
Forca. Le cose grandi han bisogno di grande apparecchio.
Pirino. Restisi qui per parlar con Alessandro e vadisi per le vesti e per lo presente.
Forca. S’io resto, chi va; se vo, chi resta?
Pirino. Io andrò ad Alessandro, l’informarò e lo disporrò che vadi a mio padre, e gli darò i danari.
Forca. Ed io e Panfago andremo per le vesti, per gli bratti e per lo presente; e l’informerò per la strada dell’effetto che ará da fare, e ci troveremo in casa di Alessandro.
Panfago. Ma mentre ci avviamo colá, fate voi che la tavola sia apprestata.
Pirino. Cosí si faccia. Ecco Alessandro. Voi proprio desiava incontrare, caro Alessandro.
SCENA IV
Alessandro, Pirino.
Alessandro. Che comandate, carissimo Pirino?
Pirino. Vengo a ricever grazia e favor da voi.
Alessandro. Grazia e favor sará mio grandissimo, se mi darete occasione onde io possa servirvi: non mi son smenticato, padron degno, di tante grazie e favori ricevuti da voi; onde se non v’ho servito come dovea, tuttavolta la prontezza dell’animo ha sopplito dove han mancato l’occasioni.
Pirino. Di picciol fonte non può nascer gran fiume: non l’ho servito come desiderava, atteso il mio poco valore.
Alessandro. Tra buoni amici si disconvengono le cerimonie: quel poco ch’io vaglio, spendetelo a vostri commodi.
Pirino. Però vengo alla libera con voi, e perdonatemi del fastidio.
Alessandro. Allor ricevo fastidio e noia, quando non mi vien comandato da voi cosa alcuna, ch’è mio debito servirvi; venghiamo al tronco.
Pirino. Non so se sapete la mia disgrazia, che Mangone ruffiano ha venduto al dottore la mia Melitea.
Alessandro. Non n’ho inteso cosa alcuna, ché se n’avessi saputo un cenno non averei aspettato che me l’avessi domandato.
Pirino. Mi complisce – per cagion de’ miei amori che mi premono piú assai della robba e della vita, – che andiate a mio padre e lo preghiate che compri in vostro nome da Mangone un schiavo nero di diciassette over diciotto anni, ben fatto, che abbia del nobile, e non avendolo, che lo cerchi; e li diate per lo prezzo cento scudi che sono in questo fazzoletto, e se non bastano, almeno per arra; e comprato che l’averá, menilo a casa sua ben custodito, insin che andate o mandate per lui.
Alessandro. Non altro di questo?
Pirino. Non altro.
Alessandro. Perché tanti scongiuri?
Pirino. Con questo verrò a rubar la mia Melitea dalle mani del ruffiano, come poi vi dirò piú a lungo in casa vostra. Aiutatemi, amico caro, a cosí onesto e onorato furto; e se mi potrete scambiar questi danari in altri, me ne farete piacere, perché son di mio padre, ché non venisse a riconoscergli.
Alessandro. Andrò or ora a servirvi; ho da scambiar questi e altri a vostro servigio; a dio.
Pirino. A dio.
SCENA V
Filigenio, Alessandro.
Filigenio. (Son uscito fuori, se posso veder Forca per saper che cosa ha fatto col dottore: m’ha lasciato certi bisbigli in testa i quali, se non me li ritoglie, non mi lascieranno mai riposare. Il Forca è cattivissimo, conosce gli umori delle persone, e non è altro che sappi meglio di lui i negozi di mio figlio, ed è buon mezo a questo effetto: il suo consiglio mi piace: volendo servirmi, come dice, non è dubbio ch’io non sia ben servito).
Alessandro. (Chi è costui che ragiona?).
Filigenio. (Chi è costui che vien verso me?).
Alessandro. (È Filigenio, quel che cerco).
Filigenio. (È Alessandro mio vicino).
Alessandro. (L’andrò ad incontrare). O Filigenio, Iddio vi conceda ogni vostro desiderio.
Filigenio. Non è altro il mio desiderio che servir voi, caro Alessandro.
Alessandro. Or veniva insino a casa vostra, per pregarvi d’un segnalato favore.
Filigenio. Eccomi ad ogni vostro comando: ché colui che non servisse voi volentieri, non meritarebbe esser servito da niuna persona del mondo, perché voi potete e sapete servir gli amici vostri.
Alessandro. Se avessi saputo imaginarmi persona sufficiente piú di voi nel maneggio di questo mio negozio, arei fuggito darvi fastidio; non potendo altrimente, m’è forza a valermi del suo favore.
Filigenio. V’offerisco la prontezza dell’animo.
Alessandro. Vi ringrazio di tanta cortesia. Iersera mi venne un corriero a posta da alcuni miei amici; e mi mandano un fascio di lettere, avisandomi con replicati ricordi l’importanza del negozio. Le lettere potrete vedere ad ogni vostro agio.
Filigenio. Non mi curo altrimente; venghiamo al tronco.
Alessandro. Pregandomi come di cosa dove ci va l’onore e la vita; e mi vennero, insieme con l’altre, molte lettere di cambio, se mi bisognassero come di danari.
Filigenio. Danari non sarebbono mancati a me in vostro servigio.
Alessandro. Replicandomi: non essendo servati da me come si richiede, rimarrebbono ruinati. Son uomini veramente di sommo valore e degni d’esser serviti.
Filigenio. Dite pure in che posso servirvi.
Alessandro. Vorrebbono un schiavo di diciassette over diciotto anni, negro, di bel garbo e di acconcie maniere, che avesse del nobile; e che nel comprarlo non si avesse a risparmiar danari. Intendo che Mangone, qui appresso, n’abbia o ne soglia aver de buoni e belli; però vorrei che in mio nome ne compraste uno, e non avendolo, gli deste cura di ritrovarlo fra poco.
Filigenio. Tanto importa un schiavo?
Alessandro. Come saprete il negocio, conoscerete l’importanza: eglino confidano in me molto; non vorrei che restassero ingannati di tanta speranza. Io per certi rispetti non posso mostrarmi con lui, per esser accadute alcune parole sconcie fra noi; e chiedendolo io, mi vorrebbe appicar per la gola. Eccovi nella borsa cento scudi, dateli per lo prezzo o almeno per caparra: dateli sin tanto che basti a saziar la ingordigia.
Filigenio. Vi servirò molto volentieri. Scudi non bisognano, ché ne ho le migliaia per vostro commodo.
Alessandro. Se non togliete i danari per arra, non vo’ che mi favoriate nel negozio.
Filigenio. Per non trattenermi vanamente in cerimonie, ché ho fretta di servirvi, li torrò, e or m’invio verso la sua casa.
Alessandro. Ed io per non dargli occasione che mi veggia con voi, mi partirò e verrò da qui ad un poco per saper quello che abbiate trattato.
Filigenio. In buon’ora, non vo’ perder tempo in servirlo! ché chi serve tardi, mostra che sia pentito della promessa, e chi serve presto, raddoppia la promessa. Eccolo che torna a casa.
SCENA VI
Mangone, Filigenio.
Mangone. Ho speso i passi indarno: son ito al Molo, e mi dicono che il padron della nave ragusea con un suo amico passaggiero non era ancora tornato a desinare. Ho lasciato detto che desiava parlargli, e insegnatali la casa mia. Ma io vi tornerò, come arò fatta stima che abbia desinato.
Filigenio. O Mangone, o Mangone!
Mangone. Chi mi chiama?
Filigenio. Chi t’apporta guadagno: vòlgeti.
Mangone. Non è cosa al mondo a cui mi volga piú volentieri. Ditemi, che guadagno mi apportate?
Filigenio. Vorrei un schiavo nero di diciassette in diciotto anni, di garbo e di fattezze signorili, per farne un presente ad un signor principale.
Mangone. Per ora non potrei servirvi, ché ho venduti quasi tutti i miei schiavi; ma spero accommodarvene fra poche ore, ché lo torrò da certi amici.
Filigenio. Giá l’hai trovata. Dici che vuoi tòrlo da certi amici per venderlo piú caro.
Mangone. Dico il vero, a fé di uomo da bene.
Filigenio. Giuri la fé di un altro, non la tua, ché tu non sei uomo da bene.
Mangone. Quanti giurano a fé di gentiluomo, che non ci sono? Ma se non lo credete, potrete venir infin a casa e vederlo: dopo pranso ne arò la casa piena e potrete eleggerlovi come vi piace.
Filigenio. Che ho a far io, ché ti ricordassi di me?
Mangone. Sapete bene che la caparra porta seco tal obligo, che obliga il venditore a ricordarsi piú di lui che di ogni altro; e se non facessi torto alla vicinanza e alla vostra autoritá, ve la chiederei.
Filigenio. T’intendo, eccolati.
Mangone. Avrete manco fatica a darmi il resto.
Filigenio. Prendi, potrai annoverargli con piú agio in casa tua: son cinquanta scudi.
Mangone. Or sí che avete voglia di schiavi: farete che non desini questa mattina per star sollecito al vostro fatto. Vedrò che si fa in casa, e poi tornerò al Molo.
SCENA VII
Forca, Panfago.
Forca. Noi avemo il bisogno: ecco le vesti per vestirsi da raguseo; ecco quelle per lo schiavo, son ricche e pompose: almeno, se non per la persona, lo torrá per le vesti. Ecco i barilotti, i formaggi e i confetti.
Panfago. Sai tu che a proposito ho comprato le vesiche e i budelli?
Forca. Non so.
Panfago. Ho fatto il tutto a vostro modo; in questo solo vo’ che voi secondiate il mio: ho tolto il barilotto e gli altri intrighi per empirli di varie furfanterie, e ti farò veder salciciotti, provature e mille altre galanterie; ché avendogli a far una burla, non ci vogliamo perdere il presente, e noi restassimo i burlati. Ma avèrti, accioché non abbiamo a far questione poi, che, ingannandolo con i falsi, mi arò guadagnato i buoni.
Forca. Hai ragione, lo credo, che accompagnando la tua presenza con vesti riccamente addobbate, che farai miracoli.
Panfago. Quando vedrai l’architettura ch’usarò in contrafar i salciciotti e le provature e i confetti, resterai stupito; e sará non men gloria averlo beffeggiato nello schiavo che nel presente.
Forca. Entriamo, perché non abbiamo a far altro; ché Pirino deve struggersi di desiderio di far presto.
Panfago. Avèrti che, subito che ritorno, ritrovi la tavola apparecchiata, ché io crepo dalla fame, e sovra tutto buona lacrima, ch’io ne diluviarò un fiasco ad un tratto, per capace e grande che sia, per lacrimar poi fino a notte.
Forca. Ricòrdati di usar buone parole – ché non è il miglior instrumento per ingannare – e a far l’ufficio tuo di buon animo; ché dalla nostra parte non mancheremo noi di quanto ti abbiamo promesso.
Panfago. Entriamo, ché mi par mille anni di esseguir l’opera e far poi un guasto mirabile di vivande.
ATTO III
SCENA I
Panfago, Pirino.
Panfago. Or vadansi ad appicar tutti coloro che non credono che amore non basti a trasformar gli uomini in strane foggie; poiché tu da libero e bianco sei divenuto nero e ti lasci vender come vil schiavo.
Pirino. Dimmi, Panfago, potrei esser riconosciuto da alcuno?
Panfago. Certo, se non avesse visto io imbrattarvi il viso con quella polvere, non crederei mai che foste Pirino: cosí rassembrate un schiavo al naturale; ci è questo di buono ancora, che incontrandovi con Melitea non sarete scoperto, se diventerete pallido o rosso con Mangone, ché il color nero nasconde il color del volto sotto la tinta: andate come in maschera.
Pirino. Io non vorrei parer tanto quel che non sono, che, volendo, parer quel che sono non potessi.
Panfago. Ma io come vi paio?
Pirino. Veramente mi par che tu non sia, né devresti mai far altro che ingannare: cosí dimostri essere un gran ladro, e se non ti conoscessi, ti giudicherei un ladro naturale.
Panfago. Con questo giubbone non dimostro magnificenza? e con questa ciera un mercadante ben ricco?
Pirino. Non potrai dir che tu sei povero, perché sei mercadante e hai schiavi da vendere.
Panfago. Se non m’hai rispetto e parli con creanza, ti darò bastonate. Tu sei mio schiavo e ti posso vendere a mio piacere: e te ne farò veder l’esperienza, ché ti venderò or ora.
Pirino. Hai ragione, vendimi tosto.
Panfago. Che hai, che tremi?
Pirino. Sempre quello che piú si desidera piú si teme. Tremo non so se di paura o di allegrezza: il pericolo dove mi trovo mi spaventa, l’allegrezza dell’acquisto mi rallegra, il timor turba l’allegrezza; talché provo in uno istesso tempo una timida allegrezza e un allegro timore. Ma ricòrdati, partito di qua, sollecitar Alessandro, ché solleciti mio padre a tor Melitea; e ricòrdati tornar presto con il presente.
Panfago. E tu come sarai a casa, ricòrdati di far apparecchiar presto da desinare.
Pirino. Ma camina presto, ché non veggio l’ora di veder Melitea.
Panfago. Anzi bisogna caminar con gravitá, col passo della picca: non sai che son ricco e mercadante?
Pirino. Te ne prego e straprego.
Panfago. Or sí che dici bene, perché lo schiavo deve pregar il padrone.
Pirino. Ecco la casa.
SCENA II
Mangone, Panfago, Pirino, Filace.
Mangone. (Veggio un mercadante da nave, che mi dimanda: certo costui sará quel raguseo che ha portato schiavi a vendere e ne porta un seco per mostra). Chi dimandate?
Panfago. Sète voi Mangone?
Mangone. Io son mentre Iddio vòle.
Panfago. Voi siate il ben trovato per mille volte, padron caro; perdonatemi se, non conoscendovi, primo non vi ho salutato.
Mangone. Non accadono simili cerimonie tra mercatanti: eccomi se son buono a servirvi.
Panfago. Io son il fattor del raguseo, padron della nave che ora è gionta in Napoli, carica di schiavi; vi prega che vegnate domani o questa sera a vedergli: e ve ne porto uno per mostra.
Mangone. (Questo mi par a proposito per Filigenio: me lo chiese di fattezze simili; mi par bello e proporzionato e ave assai del nobile). Lo schiavo mi piace, secondo il mercato che me ne fate.
Panfago. Il mio padron desia far amicizia con voi, e però non mira al prezzo di cotesto: volendolo in dono per amor suo, ve lo potrete tor liberamente, perché ogni volta che verrá in Napoli, vi riempirá la casa di schiavi, e voi vendendoli poi col vostro commodo, partirete il guadagno.
Mangone. Io non ho desiato altro nella mia vita che un simile incontro: io accetto carissimamente la sua amicizia. Di costui vo’ dar cinquanta scudi, se ben conosco che val piú, e quel piú lo ricevo in dono, accioché egli prenda medesimamente fiducia di servirsi di me, delle mie robbe e della mia vita.
Panfago. Mi contento di quello che voi vi contentate di darmi, cosí il mio padrone desia la vostra amicizia.
Mangone. Eccovi quindici scudi; in casa vi darò gli altri: potrete annoverargli.
Panfago. Credo alla vostra parola.
Mangone. Come si chiama lo schiavo?
Panfago. Amore, padron caro.
Mangone. Di che paese?
Panfago. Di Donnazapi, della provincia di Rabasco.
Mangone. Che nome voi mi dite?
Panfago. Nomi che si usano in Schiavonia.
Mangone. Amor, vien qua, non mi vòi tu servir con amore?
Pirino. Ben sarei discortese e villano, se, voi avendomi comprato con grande amore, non mi disponessi a servirvi con grandissimo amore.
Mangone. Servendomi lealmente, ti terrò da figlio, non da schiavo.
Pirino. Anzi, servendo voi, mi parrá di servire non un padrone, ma mio padre.
Mangone. Sai alcun ballo all’usanza tua?
Pirino. È gran tempo che non l’ho usati; ma però comandandomelo cosí voi, vo’ piú tosto servirvi cosí goffamente come so, che disubedirvi.
Mangone. Orsú via.
Pirino. «Siam, siam per via, guallá! siam, siam per via, guallá!».
Mangone. O ben, per vita mia! lo schiavo è cosí allegro e festevole, che mi fará viver dieci anni di piú: dispiacemi averlo promesso a Filigenio, ché vorrei tenermelo per mio spasso. Ma poiché Melitea sta cosí disperata, Filace, va’ tu su, chiamala, ché venga giú e veggia ballar e cantar questo schiavo che le rallegrará un poco li spiriti. Noi, galante uomo, entriamo in casa, ché vi darò i restanti danari, e faremo un poco di collazionetta, e berete una volta.
Panfago. Per non parer discortese alla prima con voi, se ben ho desinato poco anzi in nave, verrò volentieri, berrò una volta e due e quattro, se me lo comandarete.
Mangone. Filace, non levar gli occhi da Melitea, lascia che veggia ballar e cantare lo schiavo. Fra tanto tu da’ una scorsa con la vista intorno, ché non passi Pirino o Forca; e passando, falla entrar dentro, nascondila da loro quanto sia possibile. Noi entriamo.
Filace. Entrate sicuro e vegghiate con gli occhi miei.