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Kitabı oku: «La Carbonaria», sayfa 5

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ATTO IV

SCENA I

Panfago, Alessandro.

Panfago. Ho fatto una gran sciocchezza a farmi scappar Pirino dalle mani; ché per poterlo poi trovare non ho lasciato strada né casa d’amico che non abbi cerco, per gir a desinar con lui come restammo d’accordo: perché ho complito quello che ho promesso a lui, giusto è ch’egli complisca quello che ha promesso a me. Sí che per la soverchia fatica ho una sete ch’arrabio: penso che sia in casa di Alessandro e che apparecchi il banchetto, e tutti mi stieno aspettando. Ecco la casa. O che aura odorata che ne spira, annunciatrice di un eccellente apparecchio! Se non giungo a tempo della battaglia, almeno raccorrò le spoglie de’ nemici: tic, toc.

Alessandro. Chi è lá?

Panfago. Amici!

Alessandro. Come ponno essere amici chi ne spezzano le porte?

Panfago. Aprite tosto!

Alessandro. Chi sei?

Panfago. Il soverchio bere ti ará tolto il vedere.

Alessandro. Chi dimandi tu?

Panfago. Pirino, dico.

Alessandro. Non è in casa, è uscito poco fa.

Panfago. Ha egli forse alzato il fianco?

Alessandro. Sí bene.

Panfago. Non ha lasciato alcun bocconcello, alcun miserabil rilevo per me?

Alessandro. Nulla.

Panfago. O mal d’affogaggine! Oimè, che la fame m’asciuga lo stomaco e la sete mi disecca le vene; ma possa io morir di mala morte, se non me ne farò vendetta e bona! Traditori assassini, che dispetto vi feci mai, che meritasse tanto scherno? farmi star tutto il giorno su le speranze, digiuno? Mi avete promesso per non attendere e m’avete onorato per beffarmi; ma farò che la beffe torni sopra voi, il cibo che avete divorato senza me farò che mal pro vi facci: ché non mi terranno tutte le catene del mondo, che non vada ora al dottore e non gli riveli tutte le furbarie che gli avete fatte. Avete rotto la fede a me, la romperò io a voi: li riempirò l’animo di gelosia, l’aspreggiarò tanto che da questa beffe ne germoglino danni, rumori e morti e quanto piú se può peggio. Un par mio digiuno a quest’ora, eh?

SCENA II

Dottore, Panfago.

Dottore. Panfago, dove vai?

Panfago. Se non vi rovino tutti, …

Dottore. Che cosa hai?

Panfago. …cadano i cieli, se abissi la terra…

Dottore. Di chi ti rammarichi?

Panfago. …e si sconquassi il mondo!

Dottore. Panfago, tu smanii; certo tu devi arrabbiar della fame.

Panfago. Oh sète qui, dottore! la rabbia m’avea offuscata la vista d’un torto che vi è stato fatto: e se l’avessi potuto vendicar io senza la vostra saputa, l’arrei fatto assai volentieri; ma non potendo, vengo sforzato a dirvelo: è cosa che proprio non la posso digerire.

Dottore. Io dubito che tu abbi digesto d’avanzo, e che essendoti stato promesso da desinare e venutoti meno, tu ti muoia della fame.

Panfago. Ma vorrei che stimassi che le parole mie nascano da vero amore e da zelo del vostro onore, non da qualche mio interesse.

Dottore. Che cosa dunque?

Panfago. Sapete che Melitea vi è stata tolta e or sta in poter di Pirino?

Dottore. Non può essere.

Panfago. Quante cose paiono che non ponno esser, e pur sono? Ma accioché non pensiate che io parli in aria, m’offerisco a farvi veder ogni cosa con gli occhi propri.

Dottore. Mangone si guarda da Pirino e da Forca, come il diavolo dalla croce; e Melitea sta inferma e carcerata, e son tre giorni che non ha cibo.

Panfago. Pirino s’è tinto da schiavo e s’ha fatto vendere a Mangone da un gran furfante, come io, vestito da raguseo; e intrato in casa sua, ha vestito Melitea de’ suoi panni e fattala comprar dal padre: e la burla è stata accetta e ricevuta, …

Dottore. Per farmi credere una bugia, ce ne aggiungi un’altra peggiore. Come voleva entrare e uscir dalla casa di Mangone, se vi sta un perpetuo guardiano?

Panfago. … ed il Forca è stato presente a tutto…

Dottore. O che testimonio m’adduci!

Panfago. … ed io a tutto son testimonio d’occhi. Né si ha vergognato di far una simile beffa ad un par vostro, ricco, dotto e di qualitá tanto stimate nella terra nostra. Chi è Pirino altro che un pidocchioso? chi è Forca se non un che meritarebbe essere stato afforcato prima che nascesse?…

Dottore. Orsú, basta, basta.

Panfago. … Or stanno abbracciati cosí stretti che l’aria non vi può star in mezo…

Dottore: Taci, non piú: ché me l’hai espressi cosí vivi che essermi gli contemplo presenti, e non veggendogli par di vedergli.

Panfago. … L’han fatto piú per svillaneggiarvi che per altro: or si ridono di voi, dicendo che abbracciar voi è abbracciar un morto, e che li movete vomito con la vista, sète pelle senza nervo, una vescica sgonfiata, che puzzate di cimitero e che piatite con la sepoltura, e che la notte la terreste sempre svegliata con l’orologio delle correggie, se dormisse con voi. …

Dottore. Ogni tua parola m’è un serpe velenoso che mi morde, una tigre che mi straccia.

Panfago. …Né gli bastava avervi beffeggiato, se alle beffe non s’aggiongevano l’ingiurie.

Dottore. Io mi sento l’anima in uno istesso tempo assalita da contrari affetti, combattuta da una turba de nemici, da sdegno, da malinconia, da vergogna e da gelosia. La malinconia mi rode, la vergogna mi confonde, l’ira m’arde nel core, la gelosia mi boglie nell’anima. Ho melancolia che ho perduta l’innamorata, ho gelosia che altri la goda, ho sdegno che non m’ami, ho vergogna d’esser beffato; e se son vecchio ho il cervello giovane, e se ho la debolezza del corpo ho la prontezza dello spirito.

Panfago. Se volete vendicarvi, bisogna prestezza e piú fare che dire, anzi il dire e il fare sia in un medesimo tempo: io vi aiuterò col consiglio e con l’esser a parte d’ogni fatica.

Dottore. Assaltiamgli all’improvviso; ché essendo Pirino temerario ed audace ne’ piaceri, sará timido nelle avversitá, ché sempre sogliono essere temeritá e paura in un medesimo soggetto. Andiamo a Mangone prima, veggiamo se Melitea sia in casa e poi rimediaremo al tutto.

Panfago. Andiamo.

Dottore. E se troverò che sia vero quanto hai detto, prenderò tal vendetta di loro che li farò pentir mille volte d’avermi ingiuriato.

Panfago. Or do a desinare alla mia rabbia e da bere alla mia sete: la vendetta compenserá la noia dell’una e dell’altra.

Dottore. Ecco la casa, io batto.

Panfago. Io mi starò cosí chiuso nella cappa che costui non mi riconosca.

SCENA III

Mangone, Dottore, Filace, Panfago.

Mangone. Padron caro, che furia è questa? Melitea sta a vostra posta; e se la volete cosí inferma come ella è, ve la darò or ora.

Dottore. Dove è ella?

Mangone. Chiavata in camera strettamente.

Dottore. Dici il vero; ma non in camera tua e da altri.

Mangone. Dubitate forse che Pirino e Forca non me l’abbino tolta?

Dottore. Non lo dubito, ma lo tengo per certo: perché intendo che da Pirino e da Forca ti sia stata sbalzata di casa.

Mangone. Saranno eglino prima sbalzati da una forca.

Dottore. Di grazia, toglimi da tale ambascia, ché mi bolle nel cor un strano desiderio di vederla.

Mangone. Volentieri. O Filace, o Filace!

Filace. Che volete?

Mangone. Che cali giú Melitea, ché la vuole veder il dottore.

Filace. Vado.

Mangone. Filace è un gran custode, molto astuto e sospettoso, e teme insin delle mosche. Poi, gabbar me? son un tristo e son ruffiano – bastavi questo, – e son il maggior ruffiano di tutto il ruffianesmo.

Filace. Mangone, la camera è aperta e dentro non v’è alcuno.

Mangone. Oimè, che m’hai ucciso!

Filace. Come ucciso?

Mangone. Parli pietre, me n’hai dato una in testa che m’ave ucciso. E per dove potria esser scampata?

Filace. Io non mi son mosso oggi di casa né fuor dell’uscio; e se non ha poste l’ali e scampata per le fenestre, non ha potuto scampar altronde.

Dottore. Che dici ora? non parli?

Mangone. No, né può uscir fiato dalla gola: Forca m’ha strangolato.

Dottore. Che ti dissi io?

Mangone. E mi fa peggio ch’egli m’abbi ingannato, ch’ogni altro forastiero. O Forca, ti veggia alzato in mezzo due forche che arrivino insin al cielo! o che Dio ti dia la mala ventura!

Dottore. Tu l’hai avuta giá. Ma perché non cominci il lamento sopra i cinquecento ducati? Il lamento fallo sopra di te: che tu l’hai perduti, che colpa n’ho io?

Mangone. Son piú misero di quanti uomini sono stati o saranno o sono. O tristo me!

Dottore. Anzi, me!

Mangone. Son rovinato.

Dottore. Son rovinato ben io.

Mangone. Ho perduto cinquecento ducati.

Dottore. Ho perduto l’innamorata.

Mangone. Son punito delle beffe che m’ho fatto di lui.

Dottore. Come t’hai lasciato ingannare?

Mangone. Non son stato ingannato altrimente da lui, ma ben da un raguseo il qual m’ha portato un schiavo a vendere, che, or che vi penso bene, avea tutte le fattezze di Pirino. Quel raguseo è stato la cagione della mia ruina.

Dottore. Come ti colse quel raguseo?

Mangone. Con un presente di molto prezzo; e non m’accorsi che sotto la maschera di quel presente stava nascosta la trappola.

Panfago. Ditegli che vi mostri quel presente.

Dottore. Di grazia, fammi veder quel presente per isgannarmi.

Panfago. Filace, conduci qui quel presente che mi portò il raguseo.

Dottore. Sai tu come si chiamava quel raguseo?

Mangone. Sí bene, Rastello Fallatutti di Monteladrone.

Dottore. Se ti disse che si chiamava Rastello, ché ti rastellava, e Fallatutti, ché fallava e ingannava tutti, come non ti guardavi che non fallasse ancor te?

Mangone. E il suo fattore si chiamava Rampicone di Maltivegna.

Dottore. Venghi il malanno a te e a lui; ma il mal t’è venuto.

Mangone. E gli feci una buonissima collazione.

Dottore. Questo è il peggio, che facesti una collazione a chi te ingannava.

Mangone. Prego Iddio che gli facci mal pro.

Panfago. A te porta il presente, Filace.

Mangone. Ponnosi veder le piú belle provature, formaggi, bottarghe e barilotti di malvagía?

Panfago. Diteli che le provi un poco.

Dottore. Di grazia, provatene alcune.

Mangone. Odorerò il vino. O gaglioffo traditore! il barilotto è pieno di piscio, le bottarghe sono di mattoni, il formaggio di pietra e le provature vessiche piene di sporchezza! O Dio, non gli bastava l’ingiuria, se non giongeva ingiurie ad ingiurie!

Dottore. Con tutt’i mei guai pur mi vengon le risa. Fa’ cercar meglio per la casa se forse Melitea si fusse nascosta.

Mangone. Camina su, bestiaccia; non lasciar luogo da cercare. Ma che dispiacer feci mai a quel raguseo, ché mi avessi a trattar cosí male?

Dottore. Deve essere amico di Pirino e di Forca, e per far piacere a loro è stato ministro del tuo danno.

Mangone. Or che mi ricordo, avea una ciera di furfantaccio, d’un malandrino, d’un ladrone, e rassomigliava tutto a costui.

Panfago. Menti per la gola, ch’io non ho ciera di malandrino.

Mangone. Possa morir di mala morte, se tutto non rassomigliava a te!

Panfago. Mio padre fu raguseo, e in Raguggia ho un fratello che tutto rassomiglia a me. Io non ce ho colpa né in fatti né in parole.

Mangone. O Dio, che mi giova di essere uomo da bene, se la disgrazia mi persegue e altri invidiano il mio guadagno? Se vi dovesse spendere tutta la mia robba, io il porrò in mano del boia.

SCENA IV

Filace, Dottore, Mangone, Panfago, Muto.

Filace. Padrone, ho ritrovato costui nascosto con le vesti di Melitea.

Mangone. Ecco qui il ladro, ecco qui l’assassino, che ancor tiene adosso le vesti di Melitea.

Dottore. Mangone, da costui si potrá sapere il fondamento del fatto.

Mangone. Vien qui, traditore; onde hai tolte le vesti, ove è colei a cui le togliesti?

Dottore. Mira come sta saldo, come se non dicesse a lui! non si degna respondere. Dimmi, dove è quella donna padrona delle vesti che tieni adosso?

Mangone. Il manigoldo finge non intender; che parliamo noi arabo o greco? Dimmi, come sei qui?

Dottore. Finge il sordo: noi parliamo ed ei mira altrove.

Mangone. Mira che ride. Fa del fastoso e alieno; or si fa beffe di noi e cava fuori la lingua.

Dottore. Balla, salta e fa atto da pazzo.

Mangone. Filace, tienlo che non ti scappi, ché ne scapperebbe la speranza di non averne a sapere mai piú il fatto come è passato.

Dottore. Finge il muto e il sordo.

Mangone. Dubito che da dovero non sia sordo e muto.

Dottore. Parlagli con i cenni e con le mani, se forse t’intende.

Mangone. Appunto. Bisogna parlargli con le mani da dovero.

Dottore. Zappiamo nell’acqua.

Mangone. Non v’accorgete della industria di Forca? S’ha servito per stromento di questa trappola d’un sordo, muto e pazzo, accioché, essendo qui ritrovato e dimandato dalla giustizia, ei non possa dar indicio di alcuna cosa.

Dottore. Chi ha fatto la pentola, ha saputo ancor far la manica. Non v’accorgete che è matto e pazzo?

Mangone. Filace, recami qui un bastone, ché quel solo ha virtú di far intendere a sordi e parlare a muti.

Dottore. Mentre egli viene, io vo’ far prova se nelle pugna e ne’ calci fusse la medesima virtú. Vòlgeti qua, se non mi racconti il fatto come sia gito, arai per ora un saggio di pugna. Non vuoi rispondere? toccherai delle busse.

Mangone. Giá ti è stato detto due volte; alla terza viene il buono. Dimmi, in tua malora, chi t’ha posto in dosso queste vesti? Ragiona, se vuoi. Io… oimè, oimè, mi uccide; aiutami, aiutami, dottore!

Dottore. Oimè, che mi stringe; aiutami, Panfago!

Panfago. Oimè, dottor, aiutami, che m’ha posto le mani alla gola e mi stringe cosí forte che mi strangola, che non potrò inghiottir mai piú intieri i ravioli!

Dottore. Di nuovo è tornato a me. Panfago, dove fuggi?

Panfago. Per trovar armi e amici.

Dottore. Férmati, pazzo indemoniato, dove mi strascini?

Mangone. Tieni, para, Panfago, ché non ne scappi.

Panfago. Non vo’ impacciarmi con pazzi, io.

Mangone. Tieni, tieni!

Panfago. Lasciatelo andar in malora, che si rompa il collo!

Filace. Ecco il bastone.

Mangone. Vieni con l’armi dopo la rotta! Io vo’ andare a trovare il raguseo, chiarirmi del tutto e ricuperar il mio; tu resta guardiano della casa.

Dottore. La dovevi far guardar prima: ti porrai la celata dopo rotta la testa!

Filace. Cosí farò.

SCENA V

Dottore, Panfago, Forca, Pirino.

Dottore. Panfago, non star piú nascosto: il pazzo è gito via.

Panfago. O a che periglio mi son oggi trovato d’esser strangolato e non poter piú mangiare! Or non poteva attaccarmisi piú tosto con i denti al naso, strapparmi l’orecchie o ficcarmi i diti negli occhi? Parve che il diavolo proprio gli drizzasse le mani alla gola per farmi dar in preda della disperazione, e che mi appicassi con le mie mani o fusse precipizio di me stesso.

Dottore. Una tempesta di pensieri non mi lascia riposare: ardo d’un doppio fuoco d’amore e d’ira: l’uno mi spinge a tor vendetta di costoro, l’altro m’incende d’amore; vorrei sfogar l’ira, ma l’amor mi tien ligato; l’ira m’inferma e il desiderio m’accende; e sí grande è l’una e l’altro, che la bilancia sta dubbia dove debba calare. Panfago, se non mi aiuti non posso riposare.

Panfago. Se prima non fo un poco di collazione e mi beva duo bicchieretti di vino, non arai ben di me tutt’oggi.

Dottore. Se mi darai modo che ricuperi Melitea e mi vendichi di costoro, ti darò tal mancia che non arai piú a morirti di fame mentre sarai vivo.

Panfago. Mi dá l’animo che la trappola che han tesa contro te scoccherá contro loro: gli faremo un tratto doppio, che avendola comperata per cinquecento ducati, l’abbi per cento, anzi per nulla.

Dottore. Tu mi curerai di due malatie, di amor, di gelosia: e dell’una risanandome, dell’altra riempiendomi di speranza. Fa’ questo, ch’io non ti mancherò di quanto ti ho promesso.

Panfago. Ascolta quanto dico.

Forca. (Giá espugnata la fortezza e soggiogati i nemici, potrai entrar in una casa e goder delle spoglie de tuoi nemici).

Pirino. (Taci, che gli inimici ancor sono in campagna. Veggio Panfago e il dottore a stretti ragionamenti).

Forca. (Chi sa se gli scuopre i nostri secreti?).

Pirino. (La fortuna comincia i suoi cattivi effetti: siam rovinati).

Forca. (Lo so: vorrei che dicesse cosa che non sapessi. Scostiamoci e ascoltiamo che dicono).

Panfago. Poiché costoro han tinto di carbone la faccia a Melitea e l’han fatta comprar da quel buon vecchio – e or è in casa sua, – andiamo a Filigenio, scopriamogli la veritá; essageraremo il negozio, che arderá di sdegno contro il figlio, porrá Forca in una galea, cacciará Melitea di casa sua per i capegli a bastonate.

Pirino. (Intendi?).

Forca. (Intendo, sto attento; taci).

Dottore. Egli nol crederá.

Panfago. Anzi lo crederá prima che s’apra la bocca, che i vecchi son di natura sospetti, e giá del fatto v’è in sospetto; e quando fusse restio a crederlo, della veritá ne potremo far veder subito l’isperienza: ché lavatole la faccia restará bianca e, se vuol toccar con mano se sia femina o maschio, le scalzi le brache e lo vederá.

Pirino. (O Dio, che odo, che veggio! o che fusse nato sordo e cieco! ecco disperate le mie speranze).

Forca. (Ecco rovinata l’occasione di condur ad effetto cosí bell’opera).

Dottore. Io non vo’ che la cacci altrimente; ma diamela di buona voglia, ch’io gli rimborserò i suoi cento scudi.

Panfago. Se volete far questo, vo’ che allegramente…

Pirino (O diavolo…)

Panfago. … vi porti a casa sua…

Pirino. (... porti te, e quanti sono de’ tuoi pari).

Panfago. … e te la consegni per la mano. Cosí gli faremo conoscere che, se la volpe è maliziosa, piú malizioso è chi la prende: ché uno pensa la volpe e altro chi ordina la tagliola.

Dottore. M’hai tirato nel tuo parere e m’hai posto in nuova speranza di riaverla. Orsú, andiamo a casa di Filigenio.

Panfago. Io l’ho visto or ora a’ Banchi: andiam per costá, ché l’incontraremo per fermo. E sará bene che né Pirino né Forca ci veggia insieme; ma, mentre che stanno addormentati in tanta allegrezza né curan piú d’altro, non s’accorgano che vogliamo rovinargli e possano preveder l’apparecchio.

Pirino. O fortuna, sei piena d’aggiramenti! sperava da te mia madregna qualche effetto di madre, ma m’accorgo ch’ancor sono ammogliato con la disgrazia, perché non fo un disegno, che la fortuna non ne faccia un altro in contrario.

Forca. Ma io, sciocco ignorante, come non avessi mai fatto altra truffa, ho avuto fede ad uno che ha mancato sempre di fede.

Pirino. O Forca, Dio tel perdoni! io te ne avisai prima, che costui ci avrebbe tradito, ché era uomo che parlava con tutti e d’ogni cosa che li vien in bocca; non essendosi saputo da lui, non si sarebbe saputo altronde.

Forca. Voi foste piú presto a esseguire ch’io a dirlo, e non mi deste tempo a mutar proposito.

Pirino. E quel che piú mi molesta è che l’impresa cominciata e proseguita con tanta gloria, or ci partorisca contrario effetto; e ci assassinano con l’astuzie imparate da noi.

Forca. Ho fatto quanto ho saputo e potuto, e v’è successo ogni cosa contra la vostra opinione: questo è vizio della imperfetta nostra umana natura, ché discorgendo un ingegno, per savio che sia, sempre suol restare ingannato.

Pirino. Ma cosa si ha piú astuta della disgrazia? Oimè, oimè!

Forca. Rincora te stesso e sta’ in buon animo.

Pirino. Come starò di buon animo, se ho perduto l’animo? e togliendomesi Melitea, mi si toglie l’anima mia; con la perdita di costei io perdo tutte le mie speranze: o dolore insopportabile, ecco finita ogni cosa!

Forca. Io ti dico che non è finita ogni cosa: fa’ buon cuore.

Pirino. Io son tanto atterrito dalle fortune passate e dalla disperazione delle presenti, che non oso sperar nelle cose avvenire. La nostra rappresentazione ha mutato faccia: rappresentiamo una favola contraria a quella di prima! Mio padre, in sentir questo, cacciará subito Melitea di casa, e io non arò piú animo di comparirgli dinanzi.

Forca. Ed a me bisogna far voto a san Mazzeo per la schena.

Pirino. Son in un mar di travagli; né per tanti travagli l’amor scema, anzi piú cresce: o disgrazia senza rimedio!

Forca. Dico che non è senza rimedio, né questo è tempo di consumarlo in lamenti.

Pirino. Il piangere è fatto mio famigliare.

Forca. Vo volgendo per l’animo molte cose. O bel tiro mi sovviene! facciamo cosí, ché racconciaremo l’errore e daremo miglior perfezione all’opra, anzi – o bel pensiero! – castigheremo l’ardir loro, e vostro padre ancora, per avergli dato credenza, e ci vendicheremo di Panfago, e io provederò alla mia schena: faremo tre servigi ad un tempo.

Pirino. Deh, conservator della mia vita, ritornami vivo con qualche speranza!

Forca. Andiamo a trovare il pazzo, che stará in casa di Alessandro, conduciamolo in casa tua, tingiamoli la faccia con carboni e vestimolo delle vesti che tien or adosso Melitea; e sbalziamo Melitea fuor di casa tua e conduciamola in quella di Alessandro. Qua verrá il dottore a lamentarsi con Filigenio, gli consegnerá il pazzo, pensandosi consegnargli Melitea; e se li laveranno la faccia, troveranno altro che pensano: restará l’uno e l’altro schernito, anzi verranno insieme a cattive parole. Poi troveremo un capitano di birri e faremo tor Panfago, con dir che ha rubato le vesti del schiavo e del raguseo ad Alessandro; e andaremo in casa sua, dove si troveranno, perché ivi se l’ha spogliate; e noi serviremo per testimoni: ché se non sará appicato, almeno lo faremo andar in galea in vita e ci vendicheremo di lui. Poi informaremo Alessandro del tutto e lo mandaremo a Filigenio per lo schiavo: ei gridará e gli dirá ingiurie. Alessandro gli dirá che è figlio di un gran signore; e che non s’accordi, se non gli cava di mano almen trecento scudi. E li faremo costar tanto l’aver creduto al dottore; voi ve lo restituirete in vostra grazia, ed io schivarò un maligno influsso di bastonate che mi sarebbon piovute dal Cielo.

Pirino. O Forca mio dolce, o Forca mio di zucchero, Forca che dái la vita a’ morti e non la togli a’ vivi, ho preso animo e giá con la speranza abbraccio Melitea; ma non perdiam tempo, ché potria venir mio padre.

Forca. Andate in casa, lavate la faccia a Melitea, fatele spogliar le vesti, e scampate per la porta di dietro; ch’io fra tanto vi condurrò il pazzo.

Pirino. Cosí farò: toc, toc.