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Kitabı oku: «La Carbonaria», sayfa 6

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SCENA VI

Melitea, Pirino, Forca, Muto.

Melitea. Che dimandate, padron mio caro?

Pirino. Il tesoro della bellezza, la monarchia delle grazie, la dolcissima mia padrona, accioché mi rallegri cosí il cuor con la sua presenza, come gli occhi con la sua bellezza.

Melitea. In questa casa per ora non ci abita persona di tanto momento; ma se cercate una schiava nera, venduta per vilissimo prezzo, vile, brutta e disgraziata, che non ha altro in sé di buono che amore e fede, l’avete dinanzi agli occhi.

Pirino. Non cosí splende il sole, quando ha alquanto ricoperti i suoi raggi di nuvoli, come le due chiare stelle de’ vostri begli occhi lampeggiano sotto la nera tinta, ché a pena posso soffrire i suoi ardentissimi lampi; né cosí i carboni rilucono sotto il cenere, come porporeggiano i vostri labrucci di rubini: anzi la tinta istessa par troppo festosa e superba nella vostra faccia, né scorgono gli occhi miei cosa piú bella di lei. Deh, lascia questo non tuo, ma suo falso colore! sparisci via, invidioso carbone, e non celar piú al mondo quella faccia di rose, quelle carni impastate di perle, quel raro paragon di bellezza, dinanzi al quale ogni cosa, per bella che sia, par brutta; e come fin ora son stato uditore della suavissima sua voce, cosí sia spettatore della sua leggiadria: e se la voce mi rallegra, quanto mi fará beato la sua bellezza?

Melitea. Queste lodi non convengono alla schiava che ben conosce il suo proprio merito, ma alla generositá dell’animo del suo padrone.

Pirino. Dove è vero amore, non ci sono lusinghe e inganni.

Forca. Padrone, questo non è tempo da scherzi: abbiam bisogno di prestezza e che i fatti prevengano le parole, se non, siam rovinati.

Melitea. Oimè, non sono ancor finiti i nostri affanni? infelici noi, quando saremo felici? abbiam scampato da ladri, dalla casa e dalle mani del ruffiano, e in casa vostra ancor temo? chi piú infelici di noi, se anco nelle felicitá siamo infelici?

Pirino. Fate conto, signora, che la fortuna per questa volta ha fatto come il buon cuoco che, per tor la soverchia dolcezza delle vivande, ci mescola un poco di agresto; cosí per aver acquistata Melitea, per moderar tanta gioia, mi fa assaggiar questo poco di molestia: però, vita mia, entriamo e spogliatevi le vesti.

Melitea. Non si potrebbe ciò far senza spogliar le vesti?

Pirino. Perché, cor mio?

Melitea. Perché avendole vestite voi prima e or vestendole io, par che da tutte le parti sia abbracciata da voi.

Forca. Entrate, signora, e senza lasciar ponto di sollecitudine avanziamogli di prestezza. Eccovi la tinta di carboni, tingete la faccia del pazzo e vestitelo de’ panni di costei; ma presto entriamo, ché veggio il dottore e Panfago e di lá spunta Filigenio. Fate presto e fuggite per la porta di dietro.

SCENA VII

Dottore, Panfago, Filigenio.

Dottore. Sappiate, Filigenio caro, che non è sí brutto il fatto istesso, come il modo con che l’han fatto; perché si son serviti della vostra persona per intermedio della propria furfantaria, e farvi ruffiano di vostro figlio; e se nol credete, potrete or ora vederne l’esperienza, perché lavando la faccia a quello schiavo che avete in casa, diverrá bella, bianca e pulita, e se volete veder piú innanzi, la troverete femina in carne e ossa.

Panfago. E se ben, innamorato di quella puttana, la poteva aver con alcuni dinari, Pirino e Forca, per maggior vostra beffe e per ridersene fra loro alla sgangherata, se hanno voluto servir de’ vostri dinari: eccoli scelerati contro voi, ingiuriosi contro me e profani contro Iddio.

Filigenio. So che tutto è vero quanto dite, e conosco che tanto eglino sono stati astuti quanto io sciocco. Ah Forca ribaldo, ah figlio iniquo, ah traditore Alessandro! cosí sono da tutti voi egualmente beffato! Quando io diverrò savio, se a capo di sessanta anni mi lascio beffar da giovani? Or m’accorgo che quello schiavo ch’io comprai avea piú fattezze donnesche che virili, e con un parlar delicato e toscano, anzi – o sciocco me! – con un scherzevol riso, con certe cerimoniose e oscure parole significava esser innamorata di mio figlio; e io sempliciaccio non me n’accorgeva. Ma che sciocchezza fu la mia a credergli cosí subito! Veramente, quando le stelle s’accordano alla ruina di alcuno, alla prima gli togliono la prudenza. Ma io ne farò ben vendetta! Contro la puttana mi saziarò ben di schiaffi, pugna e calci e tirare de’ capelli; Forca porrò in una galea; al figlio darò perpetuo bando di casa mia. O che rabbioso sdegno! lo sdegno avanzará l’amore, la rabbia la pietade.

Dottore. Fermatevi, non bisogna alcuna di queste cose: l’error è giá fatto; delle strade cattive eleggasi la migliore.

Filigenio. Dite, di grazia, ch’io son cosí riscaldato dall’ira che dubito con qualche precipitoso consiglio non mi condur a qualche sproposito.

Dottore. Io vo’ che voi non perdiate nulla: non scacciarete il figlio e non perderete i danari; anzi con un bel fatto resteranno scherniti dal lor scherno. Rendetemi lo schiavo e io darò a voi or ora gli cento ducati.

Filigenio. Io non mi curo di perderli per saziarmi di sangue e con un castigo barbaro vendicarmi d’ingiurie sí vituperose.

Dottore. Questo non vorrei io, ch’ella non patirebbe alcun male che non lo patisca io: ecco i vostri cento scudi.

Filigenio. Questi sono i cento scudi che vi ho prestati per man di Forca?

Dottore. Che Forca? che scudi? chi v’ha dato ad intendere una simil favola?

Filigenio. Me l’ha chiesti Forca da vostra parte.

Dottore. Ho sempre un par di migliara di scudi al mio comando, che pèrdono tempo al banco.

Filigenio. Misero me, che da ogni banda sono aggirato.

Dottore. Entriamo in casa e ve li contarò.

Filigenio. Entriamo.

Dottore. Panfago, va’ a casa, apparecchia un banchetto a tuo modo, ché vogliamo tutti rallegrarci: to’ gli danari.

Panfago. Sia benedetto Dio che pur m’è toccato di apparecchiare un desinare a mio modo e di far un pignato grasso.

SCENA VIII

Pirino, Melitea, Forca.

Pirino. Non vi dogliate, vita mia, che, se ben i frutti d’amore nel principio son amari, sempre nel fin la radice è dolce. E perché in tanti travagli la fortuna non ha bastato a scompagnarci, fo fermo augurio che i Cieli v’abbino servato per me, e che saremo nostri.

Melitea. Io non mi affligo per me ma per voi, stando io sicura che mi aiutarete, se non quanto io, almeno quanto merita l’amor mio; e travaglimi la fortuna quanto gli piace.

Pirino. Vita mia, con tanta cortesia piú m’obbligate e mi sforzate ad esser piú vostro che mio, e se il destino facesse che non avesse ad esser vostro, almeno non sarò d’altri. Questo allontanarci da casa nostra non è per altro che per schivar una burasca che n’è sovragionta, ché portavamo pericolo di affogarci nel porto.

Forca. Or che nôtate nel golfo delle dolcezze, non si fa piú memoria del povero Forca, cagion del vostro giubilo.

Pirino. Forca, sta’ sicuro che mentre arò core arò memoria di tanto beneficio, accioché venendo l’occasione possa premiar l’amor e la fede verso me.

Melitea. Ed io riserbo la ricompensa, quando sarò in miglior stato; ché adesso non posso mostrar segno del mio buon animo.

Forca. Ed io pregherò Iddio che mai scompagni cosí bella coppia di sposi i quali, per etá, per nobiltá e costumi e bellezza, son degnissimi l’un dell’altro. Intanto, entrate in casa di Alessandro, e il passato pericolo vi renda assai piú cauti e diligenti: ché qui, di fuori, vi potrebbe vedere il dottore o Mangone o il padre istesso, e ad una tempesta se ne aggiongerebbe un’altra. Informate Alessandro di quello che abbia a dire a vostro padre e inviatelo fuori; fra tanto io m’armerò d’una corazzina di falsitadi e di bugie, che possa star saldo ad ogni gran bòtta di veritá: e gli farò credere che voi siate il piú onesto figlio che si trovi, io un santo e i nostri emuli traditori. Ma la sua porta s’apre: sgombriamo tosto.

SCENA IX

Dottore, Muto.

Dottore. Ecco che tocco il ciel col dito. Chi è al mondo piú felice di me, che della acquistata vittoria porto meco il trionfo e le spoglie de’ nemici, e avendola acquistata, ancor non credo di averla? Era il mio amor stato vinto da altrui astuzia, or il mio valore ha vinto l’altrui malizia. O voi che fastosamente altieri schernivate la mia semplicitá, o voi che solo pensavate sapere al mondo, ecco ch’io sovrasto a voi quanto pensavate di calcar me. O Dio, quanto è grande la forza della sua bellezza, perché non basta la nera tinta a nasconderla, anzi la rende piú chiara e piú risplendente! Lo splendor che scintilla da’ tuoi chiari soli, non bastava un uomo a sostenerlo; or fatto un poco piú opaco, ricevé tal temperamento che confortano non abbagliano, rischiarano non acciecano, avvivano non uccidono l’altrui viste. Or quanto sarai bella, quando sarai bianca divenuta? Ecco, carissima Melitea, sarai padrona della casa o mia regina; e se mi facci un figlio, mia carissima moglie, per te obliarò la perdita della mia amata consorte e la rapina dell’unica mia figliuola Alcesia. Anzi reputa, da oggi innanzi, che io sia tuo servo, e in dono ti do tutta la mia robba e me medesimo. Che dici, cor mio? rispondi, dolce anima mia; fa’ che senta il suono di quelle parole che solo portano consolazione all’anima mia. Ma tu ridi, scherzi e balli: o che allegrezza, o che giubilo ha d’esser scampata dalle mani di quello importuno e fastidioso di Pirino, ed esser in mio potere! Sempre mi son accorto, ben mio, che tu mi amavi: è del tuo sommo giudicio sprezzar i giovani e amar uomini di consiglio e di riputazione. Ma perché non entro, non volo in casa mia, in camera, in letto? Entra, vita mia: questa è tua casa.

SCENA X

Filigenio, Forca.

Filigenio. La ragion n’insegna, l’esperienza ne dimostra, l’autoritá ne conferma che camina piú tardi un bugiardo che un zoppo. Quel scelerato di Forca mi avea dato ad intendere molte girandole; ma non sono state molto tempo a scoprirsi. Ma ecco il liberator delle puttane, il venditor de’ liberi per schiavi, l’ingannator de’ ruffiani, l’assassino de’ vecchi, la ruina de’ giovani, la fucina e l’architetto d’inganni, e la forca che conduce gli uomini alla forca; e che rispondi?

Forca. Io non posso trovar cosí belle parole per ringraziarvi di cosí illustri titoli che mi date.

Filigenio. Io non so che dir piú, né posso dir tanto che non sia mille volte piú di quel che dico.

Forca. A chi fo male io?

Filigenio. Agli amici, agli inimici, a quanti puoi.

Forca. Nessuno stima questo di me.

Filigenio. Perché tutti lo tengono per fermo.

Forca. Quei che sono cattivi, stimano che tutti gli altri sieno cattivi.

Filigenio. Dunque, io son un tristo che stimo te il piú tristo uomo del mondo?

Forca. Non dico questo io, né è convenevole a un servo dirlo: ma guardatevi che non lo dica altri a cui piú conviene. (A tuo dispetto ti sommergerò in un mar di bugie, e se scamperai da un scoglio, romperai in un altro). Padrone, voi mi avete per un tristo, perché son troppo buono: ché a tempi d’oggi per esser stimato buono dal tuo padrone, bisogna rubbarlo, assassinarlo a tutto suo potere. Ma perché mi stimate cosí tristo, che effetto cattivo avete di me veduto?

Filigenio. Puoi negar tu che non sia il maggior ribaldo del mondo?

Forca. A me non convien negarlo né affermarlo: ché negandolo farei voi bugiardo, e affermandolo direi bugia. Ma io nacqui al mondo sotto cattivo pianeta, assai disgraziato. Ma se voi deposta la còlera e l’ira, volete intendere il vero, il dico liberamente: e vo’ che siate il mio giudice, poi ch’io purgherò le mie calunnie, e m’averete per un uomo da bene.

Filigenio. Vien qua, rispondimi a quanto ti domando.

Forca. Eccomi.

Filigenio. Non hai tu tinto la faccia di carboni a mio figlio e vendutolo al ruffiano? poi tinta la faccia di carboni alla puttana, e l’hai fatta comprar da me, facendomi pregar da Alessandro?

Forca. Giesú! vostro figlio va libero per la cittá con la faccia bianca per testimonio della veritá e di colui che vi ha detto il contrario. Ma ditemi, di grazia, la puttana, che avete comprata con la faccia tinta, l’avete lavata la faccia per scoprir la veritá?

Filigenio. Non io.

Forca. Perché dunque, per far la prova delle altrui astuzie e della mia furfantaria, non faceste tal esperienza? Dio vel perdoni! ché, chiarito della veritá, or con giusta cagione avresti cagione di uccidermi di bastonate, disgraziar vostro figlio e dolervi di Alessandro senza scusa.

Filigenio. Non m’hai tu chiesto cento scudi per dargli al dottore, con darmi ad intendere che voleva rifiutar la puttana?

Forca. Voi li avete dati a me, io al dottore.

Filigenio. Egli m’ha detto che ciò non fu mai, e che ha duomila scudi al banco per suo servigio.

Forca. Chiamo in testimonio Iddio!

Filigenio. Chiami in testimonio chi è tuo nemico capitale.

Forca. Dubito che v’abbia negato questo per farsi qualche altra somma di maggior importanza: però state in cervello, perché è un gran baro, vostro nimico, del figlio e mio; e dubito che non ve l’abbi attaccata giá; e faccia Dio che il mio dubitar sia vano!

Filigenio. Ma a vostro dispetto io ho ricoverati i miei cento ducati e scacciata la puttana di casa.

Forca. Che cento scudi? che puttana?

Filigenio. Quella che m’avea pregato Alessandro ch’avesse comprata per lui.

Forca. O padrone, avete avuto gran torto creder piú ad un bugiardo che ad Alessandro, gentiluomo amico e mio vicino. Com’egli sappia questo, s’adirerá con voi.

Filigenio. Tu sei un gran ladro.

Forca. Sarò piú tosto un grande indovino.

Filigenio. Tu pensi aggirarmi di nuovo, ma non m’aggirerai.

Forca. È vero, perché sète stato aggirato giá.

Filigenio. Sempre tu meschi un poco di veritá per darmi ad intendere una gran bugia.

Forca. Ed or avete creduta una gran bugia senza punto di veritá. Vi dico il vero, non vi sono adulatore, se non l’avete per male; ma Iddio m’aiutará.

Filigenio. Iddio non aiuta forfanti pari tuoi.

Forca. Ma ecco Alessandro. Oh, siate il ben venuto: da lui potrete intendere il vero.

SCENA XI

Alessandro, Filigenio, Forca.

Alessandro. Vengo desioso a trovar Filigenio mio amicissimo.

Filigenio. Anzi capitalissimo inimico; e vo’ piú tosto l’odio di molti, che la tua amicizia, …

Alessandro. Questo è un principio d’una grande ingiuria.

Filigenio. … poiché cosí trattate gli amici vostri.

Alessandro. Oimè, che dite?

Filigenio. Il vero. Con iscusa che fate piacere ad un mio figliuolo, fate a lui e a me un grandissimo dispiacere.

Alessandro. Questa è una maniera di notarmi d’infideltá, e queste parole pungenti fanno disconvenevole ogni convenevolezza, e io da ogni persona aspetterei di udir simili parole fuorché da voi, il qual non offesi mai in cosa alcuna, se pur non ho offeso in averlo soverchiamente riverito e onorato.

Filigenio. Cose indegne di buon vicino.

Alessandro. La sinceritá della mia fede credo l’avete veduta agli effetti.

Filigenio. Non merita questo l’amore.

Alessandro. Lassatemi dire.

Filigenio. Non voglio.

Alessandro. Ascoltate.

Filigenio. Non piú parole.

Alessandro. Io, io …

Filigenio. Anzi io …

Alessandro. Tacete, ché non sapete quello che voglia dire.

Filigenio. Né voi sapete quello che voglio rispondere. Non meritava questo l’amor che vi ho portato; e v’ho stimato gentiluomo, né vi diedi cagion mai di dolervi di me, ma servirvi di quanto ho potuto.

Alessandro. Confesso aver ricevuto da voi molti favori, e confesso parimente non averli riservíti non per mancamento d’animo, ma d’occasione.

Filigenio. Voi me l’avete resi con iniquo cambio che non sarebbe stato fatto ad un turco; ma dice bene il proverbio: che molti benefíci fanno un uomo ingrato.

Alessandro. Orsú, perché avete sfogata l’ira con ingiuriarmi, sarebbe di ragione, se non prima, mi dicesti la cagione di che vi dolete di me; perché le vostre parole mi sono ferite mortali che mi trapassano il core. Non mi fate piú penare.

Filigenio. Guarda simulazione.

Alessandro. In che v’ho offeso, accusandomi tanto d’ingratitudine?

Filigenio. Anzi di sfacciataggine e di furfantaria.

Alessandro. Ah, dir cosí sfacciatamente mal degli uomini è ufficio di tirannica lingua! però, di grazia, ponete freno alla lingua nell’ingiuriarmi, accioché non la scioglia allo sdegno per difendermi.

Filigenio. Perché, con iscusa di farmi comprar un schiavo per un vostro amico, me avete fatto comprar l’amica del mio figliuolo e fattalami condurre a casa?

Alessandro. Mi fo la croce; overo ciò dite per schernirmi, o forse vi movete da alcuna falsa informazione.

Forca. Vedrete, padrone, che tutto sará falsitá quanto vi è stato detto.

Filigenio. Ed in cose di niente farmi ruffiano di mio figlio?

Alessandro. Ditemi se di giá avete comprato lo schiavo e dove sia.

Filigenio. L’avea comprato giá e ridotto a casa; poi, venuto il dottore, mi disse ch’era la bagascia di mio figlio, tinta la faccia di carboni, vestita da maschio; l’ho cacciata di casa e lasciatala a lui.

Alessandro. O Dio, che cosa mi dite? O fortuna traditora, a che son condotto! io son il piú disperato uomo del mondo! Sappiate che il dottore è mio capital nemico, e per cagion di costui non l’ho voluto comprar io, ma pregatone voi, accioché mi aveste a ciò favorito.

Forca. Che vi dissi, padrone?

Alessandro. Vo’ scoprirvi l’importanza. Gli mesi a dietro, in una battaglia navale si fe’ giornata tra il re di Marocco e il re di Borno: fu sconfitto il re di Borno, e il figlio, il quale è costui, fuggendo in una nave sbattuta dalla furia della tempesta, venne in Italia; non essendo conosciuto, fu venduto per ischiavo. I suoi parenti han perciò inviato trentamila scudi per lo suo riscatto e restituirlo al suo reame. Il dottor ha lettere del re de’ mori per inviarlo a lui: avendolo in mano, o lo fará morire in una prigione o li taglierá la testa. Onde il dottore, per guadagnarsi questi danari, m’ha fatto il tradimento.

Filigenio. Egli m’ha dato i cento scudi. Eccoli qui.

Alessandro. Io non vo’ ricevere altramente i cento scudi; ma vo’ lo schiavo overo oprare in modo me si restituisca.

Filigenio. Come può esser che il fatto non sia fatto? Io non stimava tal cosa: essendo come voi dite, io mi pento di averlo venduto.

Alessandro. A che mi giova ora il vostro pentimento? Convien ad un uomo della qualitá ed esperienza che voi sète, dar cosí subita credenza ad un uomo senza onore e senza anima, che con un velo d’ipocresia cuopre ogni sua sceleraggine, e stima, non dico me, ma vostro figlio che è un de’ piú gentili giovani della cittá nostra, per un tristo uomo?

Forca. Non vi dissi ch’era vostro inimico?

Filigenio. Ecco i cento scudi.

Alessandro. Or questa sarebbe bella: per cento scudi pagarne trentamila! Egli se li guadagnará, e mandará quel povero giovane al macello overo ad una perpetua prigionia; ed io volea restituirlo al suo regno.

Filigenio. Ho peccato semplicemente; confesso l’errore, e se vi piace, confermarò con giuramento la mia ignoranza. Poiché siam qui, facciasi quel che si può per rimediarci.

Alessandro. Se avevate comprato lo schiavo in nome mio e con i miei danari, quello era mio, e voi non avevate piú potestá sovra quello; e avendolo venduto, sará in vostro pregiudizio, perché avete venduto quello che non era vostro. L’error vi costerá caro. Andrò a’ superiori e mi farò far giustizia: forse sarete condannato agli interessi.

Filigenio. Dio me ne guardi! ecco i vostri danari.

Alessandro. Io non gli torrò per non far pregiudicio alle mie ragioni. Andrò a Sua Eccellenza, raccontarò il fatto: ella dará ordine di quello che ará a farsi. M’incresce nell’anima ch’abbia a venir con voi, che v’ho stimato mio padre e padrone, a termini cosí fatti.

Filigenio. O Iddio, che intrighi son questi ove mi trovo? Va’, Forca, e vedi se puoi far nulla.

Forca. Padron, perdonatemi, sète stato frettoloso a credere ed estimar vostro figlio e un amico come Alessandro, un assassino – ché l’uno vi fu sempre ubidientissimo e l’altro venti anni un buon vicino, – e me per un ladro, che v’ho servito venti anni fedelmente.

Filigenio. Eccoti i cento scudi: almeno non arò rimordimento di conscienza di aver fatto cosa con malizia. Togli anco questa catena d’oro che val quattrocento, e vedi si puoi rimediare.

Forca. Non lascierò tentar per ogni via, per amor vostro. Io vo.

Filigenio. Camina.